Immagini della Roma repubblicana nella cultura nordamericana


 Matteo Sanfilippo


Il periodo che va dalla Rivoluzione americana alla guerra civile è forse quello che vede affermarsi in maniera più decisa la rivendicazione statunitense della scelta repubblicana [1] .

Questa è infatti è ancora sorprendente, anche se preannunciata dallo sviluppo della tradizione repubblicana tra rinascimento e prima età moderna [2] , e quindi necessita di essere asseverata [3] . Inoltre sono proprio l'opzione a favore della repubblica e il concomitante e collegato rifiuto della tirannia del vecchio mondo e dell'antico regime a funzionare da collante per la federazione americana [4] . Sino alla secessione sudista, gli Stati Uniti sono infatti una repubblica e una federazione, ma non uno stato-nazione, come ben presto capiscono anche i padri fondatori [5] .

La costruzione di un vero stato-nazione inizia solo dopo la guerra civile e non si concretizza prima della grande guerra. Con quest'ultima la ferita della spaccatura tra Nord e Sud comincia a cicatrizzarsi, mentre gli immigrati d'origine europea sono progressivamente accettati come americani [6] . Rimangono invece ancora emarginati coloro che si trovano sull'altro lato della "color line", ma la seconda guerra mondiale e il secondo Novecento spingono a prendere in considerazione anche loro quali possibili cittadini di pieno diritto [7] .

In singolare consonanza con quanto avviene in buona parte dell'Europa lo stato-nazione e soprattutto lo spirito nazionale sono dunque costruiti grazie ai due conflitti mondiali, elaborando plurime versioni di patriottismo sulla base di una prima riflessione nel secondo Ottocento [8] . Nella giustapposizione di questi strati successivi d'identità nazionale è spesso accentuato il lato mitico della vicenda americana [9] , basti pensare alla rielaborazione mitopoietica della conquista del west [10] , ed è premiato il lato spettacolare, cinematografico: sin dalla prima guerra mondiale patriottismo e spettacolo vanno infatti a braccetto [11] .

In compenso tra le due guerre il discorso repubblicano tende a scomparire, anzi sparisce proprio dal dibattito politico: la scelta a favore della repubblica è infatti considerata come talmente lontana del tempo e ormai talmente interiorizzata da non valere la pena di ridiscuterla. A questo punto l'opzione repubblicana acquista invece valore per gli storici, che, dagli anni Cinquanta, si confrontano ferocemente sul come si sia giunti a tale scelta e sulla possibilità che proprio essa provi l'eccezionalità e l'unicità dell'evoluzione statunitense. In un primo momento gli studiosi statunitensi esaltano il repubblicanesimo americano di fine Settecento come il simbolo della decisa rottura con la tradizione feudale europea.

A partire dal decennio successivo numerosi studi rintracciano, però, le radici europee di quella decisione ed evidenziano come gli sviluppi statunitensi siano forse originali, ma non esulino dall'orizzonte europeo [12] . Inoltre alcuni storici sottolineano come il repubblicanesimo sia recuperato dal movimento operaio e dai ceti inferiori verso la metà dell'Ottocento, ma contemporaneamente significhi sempre meno per i ceti superiori [13] .

Le ricerche di fine millennio compiono un ulteriore passo avanti e svelano come, nel primo Novecento, il dibattito repubblicano perda di significato anche per il movimento sindacale. Ciò avviene in parte perché quest'ultimo è risucchiato nella costruzione di un nazionalismo spettacolare ad ampio raggio, in parte perché ormai ritiene repubblicanesimo classico troppo legato alla sola difesa dei diritti individuali, quindi difficilmente riutilizzabile in chiave sociale [14] .

Nello stesso torno di tempo i ceti dirigenti propendono sempre più decisamente per la rivendicazione di valori liberali e/o democratici, che esulano dall'originaria tradizione repubblicana [15] .

In conclusione, dopo la grande guerra, il mito repubblicano non ricopre più alcun ruolo nei momenti che scandiscono ritualmente le stagioni della nazione. Nel frattempo ha perso di concretezza persino l'idea di lotta alla tirannia, che pure è comunque riutilizzata in ogni occasione militare: prima e seconda guerra mondiale, guerra fredda e Corea, Vietnam e conflitti successivi (Grenada, Panama, Golfo, Balcani e Afganistan). A partire da fine Ottocento il termine "tirannia" designa ormai qualcosa che è lontano nel tempo o nello spazio o che comunque ha un significato sufficientemente vago per adattarsi a qualsiasi nemico.

Nel progressivo appannarsi della dicotomia repubblica/tirannia possiamo intravedere le difficoltà che la giovane federazione americana incontra nel trattare la correlata dicotomia tra repubblica e impero. Il retroterra culturale dei padri fondatori li porta infatti a pensare la propria rivoluzione come il distaccarsi di una giovane e sana repubblica da un impero vecchio e malato [16] . Tuttavia questa conclusione non è univoca e già Thomas Jefferson ondeggia tra una concezione repubblicana classica e una prima visione del destino, nonché della gestione imperiale, basti pensare a come acquista la Louisiana e bombarda Tripoli scavalcando le camere [17] . Insomma la repubblica americana, sorta per sfuggire alla tirannia di re malvagi e inetti degni della stirpe dei Tarquini che opprimeva Roma, si rivela prestissimo erede della repubblica, che osanna ad ogni occasione, e dell'impero romano. E' una contraddizione apparentemente insanabile, ma l'élite statunitense tenta di recuperarla affermando di voler costruire un impero differente da quelli dei propri avversari. Dalla seconda guerra contro la Gran Bretagna all'affermazione della dottrina di Monroe, dalla guerra per Cuba e le Filippine del 1898 al recente conflitto afgano gli americani si presentano quindi come l'impero del bene in contrapposizione agli imperi del male, cioè la Spagna ottocentesca, il nazismo, l'URSS e il terrorismo islamico e/o mediorientale [18] . Talvolta gli americani giungono addirittura a sognare di essere un impero repubblicano o una repubblica imperiale, soprattutto di essere un impero amato dai propri cittadini e dagli avversari. Con questa premessa è comprensibile lo sconforto dopo l'attacco dell'11 settembre 2001. L'attentato e le reazioni di molti alleati hanno rivelato agli americani quanto l'impero americano sia mal sopportato o francamente odiato e come inoltre sia considerato alla stregua di tutti gli altri, negando cioè ogni differenza tra imperi del bene e del male, persino dagli amici e compagni d'affari. Sorprendentemente è questo che atterrisce il personale politico e diplomatico degli Stati Uniti, i quali infine ammettono di avere invece bisogno di sentirsi amati, di non volere essere soltanto rispettati come invece, a loro dire, premeva all'impero romano [19] .

Quest'ammissione, più volte ribadita, rivela quanto intensamente la cultura (politica, ma non solo) americana viva una sotterranea, ma costante, comparazione con la storia di Roma antica. Ora tale confronto non trapela in modo particolare dalla saggistica storica, né da quella politologica. Trova invece naturale espressione nella tradizione cinematografica: in questa infatti, lo abbiamo già ricordato, si concretizza dagli inizi del Novecento il connubio tra patriottismo e spettacolo [20] . Il cinema americano ci offre quindi una buona angolatura per cogliere la riflessione statunitense sulla dicotomia tra repubblica e impero. Sennonché studiare il repubblicanesimo americano attraverso la lettura di Roma antica offerta dal cinema hollywoodiano è un'operazione speculativamente lecita, ma significa anche imboccare una strada non del tutto pervia. Il cinema infatti è un medium e una forma d'espressione, riflette la cultura che lo produce, ma anche la tradizione che l'ha preceduto, e infine non opera in un vaso chiuso: le pellicole americane possono cioè essere influenzate, imitare, addirittura copiare quelle di altre paesi.

Nel contesto dell'elaborazione di un'immagine della Roma antica bisogna quindi tener conto della cultura americana del tempo, della lunga tradizione letteraria e artistica occidentale che si decanta in quella determinata raffigurazione, infine di quanto hanno fatto le altre cinematografie occidentali [21] .

Per quanto riguarda la cultura americana, noi sappiamo che alla metà del Settecento è soggiogata dall'immagine di Roma [22] . I padri della patria conoscono la storia romana e adottano come modello Catone: George Washington gioca ad indossare i panni di Cincinnato [23] ; Cicerone diventa il prototipo della retorica legale e giudiziaria [24] . A guardar bene tutti e tre gli antichi romani appena citati sono esponenti della repubblica e in effetti è proprio questa ad essere apprezzata, mentre nessuno esalta apertamente la Roma imperiale, quella che ha spento le libertà repubblicane e perseguitato il cristianesimo. Eppure il suo fascino trova sempre nuovi corifei: il già menzionato Jefferson sviluppa un'architettura neoclassica, filtrata attraverso Palladio, che si misura soprattutto con l'architettura imperiale, il Pantheon in primis [25] .

Per quanto riguarda la tradizione artistica e letteraria che nutre i film americani sull'antica Roma essa non è del tutto autoctona, ma è ovviamente figlia della cultura europea, in particolare di quella britannica. E' ben nota la reviviscenza di personaggi romani, veri e inventati, nell'arte e nella letteratura europea medievali, rinascimentali e moderne [26] . Sono altrettanto conosciute le interpretazioni neoclassiche, in particolare quelle elaborate nell'ambito della Rivoluzione francese [27] . Sono invece meno discusse le radici della produzione di massa, soprattutto anglosassone: eppure nell'Ottocento circolano innumeri rivisitazioni romane, talvolta stemperate in un pompierismo neoclassico, spesso esaltate da un nuovo, drammatico senso della romanità, sempre rivolte a un pubblico progressivamente più ampio. A quest'ultimo si offrono nella seconda metà del secolo due scenari-base, entrambi, è necessario ribadirlo, drammatici: la città assediata dai nemici esterni, oppure la città angariata dalle autorità interne. Nel primo caso abbiamo la Roma repubblicana in lotta contro la crudele Cartagine (Gustave Flaubert, Salammbô, 1862; Emilio Salgari, Cartagine in fiamme, 1906). Nel secondo la Roma protocristiana oppressa dagli imperatori (Henryk Sienkiewicz, Quo Vadis?, 1896-1898). Entrambi gli scenari sono contraddistinti da elementi di teatralità che appaiono già sul punto di varcare i ristretti confini della pagina scritta o della superficie pittorica. Tali qualità contraddistinguono la produzione cara alla Gran Bretagna, dall'angosciante distruzione di Pompei sotto Vespasiano di Edward George Bulwer-Lytton (The Last Days of Pompei, 1834) alle messe in posa romanizzanti di Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), il celebre pittore olandese, che diviene cittadino e baronetto inglese.

La drammaticità della riformulazione ottocentesca cela un'adesione titubante al mito di Roma. I francesi, ad esempio, stanno riscoprendo il proprio passato pre-romano [28] . Fra il 1820 e il 1828 François Guizot e Amédée Thierry, fratello del più noto Augustin, esaltano i galli quali veri progenitori della Francia liberale cui appartengono. In particolare Vercingetorige diviene la figura più illustre della lotta per la libertà: è infatti colui che si è ribellato a Cesare e ha cercato di unire il proprio popolo sotto una sola bandiera. Il mito del gallo si rafforza dopo la sconfitta del 1870: gli storici sottolineano allora come Vercingetorige abbia scelto di arrendersi per far risparmiare i propri uomini e abbia sofferto in catene per sei anni, prima di essere ucciso. Durante la lunga prigionia l'eore non è mai venuto meno alla propria dignità ed è quindi rimasto una fonte d'ispirazione per il proprio popolo. E' dunque un esempio per la Francia intera, che deve risollevarsi dalla rovina e mostrare al mondo intero di essere vinta, ma non doma. Vercingetorige inizia allora a campeggiare nei manuali per le scuole francesi e al contempo affascina la storiografia accademica. La sua fortuna è infine ratificata dal successo travolgente dell'opera dedicatagli da Camille Jullian, che rimane ancor oggi un punto di riferimento [29] .

Gli italiani del periodo risorgimentale tendono a loro volta ad esaltare le antichissime glorie italiche e a sottacere il periodo romano, perché caratterizzato dalle divisioni sotto la monarchia e la repubblica e dal dispostismo nell'età imperiale e quindi inadatto a divenire un modello per un popolo alla ricerca dell'unità e della libertà [30] . Infine i cattolici ritraggono la Roma imperiale come fonte di nequizia e prototipo degli stati anticlericali per la pervicace resistenza al cristianesimo. Soprattutto nell'ambiente ultramontano francese, belga e franco-canadese sono ricorrenti le pubblicazioni sul Calvario, il martirio dei primi cristiani e la vittoria finale di Cristo. Per esempio, Il giudice franco-canadese Adolphe-Basile Routhier, già volontario nelle file degli zuavi pontifici,  scrive agli inizi del Novecento due romanzi di enorme successo: Le Centurion. Roman des temps messianiques (Lille-Paris-Rome, Société St-Augustin-Desclée de Brouwer et Cie, 1909) e Paulina. Roman des temps apostoliques (Québec, Imprimerie franciscaine missionnaire, 1918). Il primo è tradotto in italiano (Il Centurione, Roma, Desclée et Cie Editori, 1909) con una premessa del cardinale Raffaelel Merry del Val, allora segretario di stato di Pio X. Questa versione è apprezzata dallo stesso pontefice e recensita favorevolmente dall'"Osservatore Romano".

La cultura anglosassone ottocentesca ha meno remore nel raccontare la storia romana. Da tempo ha adottato i romani nella propria genealogia culturale (si veda l'uso dell'antica Roma, anche come semplice menzione, in Shakespeare) e rivendicato le proprie origini barbariche, anglosassoni appunto. Può quindi liberamente trattare di Roma, senza risparmiarle, quando necessario, le dovute critiche. Forse per questo il successo del già citato Alma-Tadema è soprattutto inglese, mentre nella Gran Bretagna dell'Ottocento fioriscono gli studi sul diritto romano, analizzato come la fonte della giurisprudenza e quindi del mondo moderni.

Per quanto riguarda infine la tradizione cinematografica, i francesi sono i primi a rendersi conto delle potenzialità dell'antica Roma e a saggiarle davanti alla macchina da presa [31] . La loro produzione è, però, esigua e volta a descrivere minuziosamente la crudeltà degli imperatori e le persecuzioni dei cristiani (Promio, Néron essayant des poisons sur des esclaves, 1896; Méliès, Les torches humaines de Justinien, 1908; Feuillade, Aux lions les Chrétiens, 1911). Ben presto le pellicole transalpine imitano lo schema del già citato Quo Vadis?, di cui appaiono in Francia ben quattro versioni tra il 1901 e il 1910.

Attorno a quest'ultima data la Roma di celluloide trova finalmente alfieri italiani: la nazione è unita, vorrebbe espandersi e quindi decide di sussumere il modello romano. Così Enrico Guazzoni sforna un film l'anno, mescolando Roma repubblicana e imperiale, Sienkiewicz e Shakespeare: Giulio Cesare, 1909; Messalina, 1909; Agrippina, 1910; Bruto, 1910; Caio Giulio Cesare, 1911; Quo Vadis?, 1912; Marc'Antonio e Cleopatra, 1913; La cospirazione di Giulio Cesare, 1914. Tra questi spicca Quo Vadis?, un drammone enfatico, che costa 500.000 lire e ne guadagna 5.000.000 e che impone le scene-clou del nuovo genere: la corsa con i carri, l'incendio della città, i cristiani gettati ai leoni, i giochi del circo. Guazzoni è presto affiancato da numerosi registi - Maggi, Caserini, De Liquoro, Frustra, Vidal, Rodolfi e Pasquali - e nascono sottofiloni d'intensa ispirazione nazionalistica. Basti pensare alle pellicole su Cartagine, liberamente tratte da Flaubert e da Salgari.

Un posto a parte merita Giovanni Pastrone (1882-1959), che nel 1913 decide di sfruttare la scia di Quo Vadis? e in un anno di duro lavoro scrive e dirige Cabiria, sempre incentrato sulla guerra contro Annibale. L'opera è lunga, quasi quattro ore di proiezione (ma nel 1931 esce una versione sonora ridotta) e costosa. Pastrone vuole gli elefanti sulle Alpi, set tunisini per le scene africane e set siciliani per le battaglie navali. Inoltre ricostruisce in studio Siracusa e Cartagine, cercando persino di rispettare i dettagli archeologici. Il film affascina gli studiosi, ma soprattutto piace a tutto il pubblico e si afferma come il capostipite del kolossal storico-mitologico.

L'operazione non ha, però, seguito per colpa della guerra: la tragedia bellica muta infatti il gusto del pubblico. Nel 1913 e nel 1914 il produttore Arturo Ambrosio ottiene grandi successi con Gli ultimi giorni di Pompei (913) e Delenda Carthago, ma nel decennio successivo Quo Vadis? (1924) di George Jacoby e Gabriellino D'Annunzio si rivela un gigantesco flop, come d'altronde Messalina (1924) di Guazzoni. In tutti gli anni Venti si salva al botteghino soltanto Gli ultimi giorni di Pompei (1926) di Carmine Gallone. Il fascismo tenta di rivitalizzare il genere, ma lo spettatore vuole ormai altri film. Alla fine apprezza solamente il satirico Nerone (1930) di Alessandro Blasetti, costruito attorno alla macchietta di Petrolini, e persino la versione sonora di Cabiria ha qualche difficoltà a farsi vedere. Il regime tuttavia insiste con la romanità e nel 1937 esce Scipione l'Africano di Carmine Gallone. Sennonché il parallelo tra le vittorie romane e la campagna d'Etiopia, gli inserti mussoliniani nei discorsi del generale romano e il tormentone del grano, unica risorsa di una sana economia, tarpano le ali all'azione e lasciano il pubblico ancora più convinto del tramonto di quel genere cinematografico [32] .

E' la fine dei film "imperiali", quelli legati all'espansione di Roma, e infatti dopo la guerra ci si volge ai cristiani perseguitati, riprendendo temi antichi e usufruendo di finanziamenti vaticani. Fabiola di Blasetti si riallaccia, per esempio, a una vicenda già sfruttata da Perego (1913) e Guazzoni (1917), ha forti appoggi cattolici ed è campione d'incassi del 1949. Tuttavia il regista non bissa l'esperienza e i suoi epigoni non sono in grado di competere con le produzioni statunitensi, di cui parleremo più oltre. Così Messalina di Carmine Gallone è solo decimo nella classifica degli incassi del 1950-1951, mentre gli altri film si perdono nelle posizioni più basse. Sembra l'ennesimo capolinea, ma il filone risorge ancora grazie alle pellicole destinate ai circuiti locali ed imperniate sui soldati e sui gladiatori. Siccome la gran parte di questi ultimi era composta da schiavi le loro imprese cinematografiche si mischiano con quelle di Spartaco: già omaggiato da Spartaco, il gladiatore della Tracia (1953) di Riccardo Freda e La rivolta dei gladiatori (1958) di Vittorio Cottafavi e ripreso, dopo il successo internazionale di Spartacus (1960) di Stanley Kubrick, in Il figlio di Spartacus (1962, Sergio Corbucci), La vendetta di Spartacus (1964, Lupo) e Il gladiatore che sfidò l'impero (1965, Paolella). Anche altri gladiatori calcano allora i set, ma sono oggi quasi del tutto dimenticati, a parte qualche ripescaggio estivo alla televisione: Il gladiatore invincibile (Momplet, 1961); I sette gladiatori (Lagaza, 1962); Il gladiatore di Roma (Costa, 1962); I due gladiatori (Caiano, 1964); Il magnifico gladiatore (Brescia, 1964); L'ultimo gladiatore (Lenzi, 1964); I dieci gladiatori (Parolini, 1964); La vendetta dei gladiatori (Capuano, 1964); Il trionfo dei dieci gladiatori (Nostro, 1965) [33] .

Nel frattempo tornano sugli schermi Giulio Cesare e le sue legioni: Grieco, La schiava di Roma (1961) e Giulio Cesare contro i pirati, 1962; Pierotti, Una regina per Cesare, 1962; Anthony Dawson (Antonio Margheriti), I giganti di Roma, 1964. Ma sono rivisitazione in chiave minore, come minori sono anche le altre pellicole che s'ispirano a vicende dell'antica Repubblica (Ferroni, Muzio Scevola e il colosso di Roma, 1963) oppure inventano nuove avventure alle frontiere dell'impero (Brignone, Nel segno di Roma, 1959; Amendola, Il ladro di Damasco, 1963).

Alla fine degli anni Sessanta due film seppelliscono il B-movie antico romano. Satyricon (1969) di Federico Fellini cancella il Petronio filo-cristiano di Quo Vadis? e presenta l'impero come ricettacolo di sessualità deviata; Scipione, detto anche l'Africano (1971) di Luigi Magni irride invece la retorica dell'"imperialismo straccione". Questa duplice satira porta, però, a un'imprevista virata verso il comico grossolano. Nel tentativo di sfruttare l'attesa del film di Fellini, Gianluigi Polidori gira infatti un Satyricon (1968) con Don Backy, mentre Mariano Laurenti dirige due anni dopo Satiricosissimo (1970) con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. l'Urbe diventa allora lo scenario ideale per farse grassocce, destinate a evolversi nello pseudo hard-core di Io, Caligola (1979) di Tinto Brass e Bob Guccione, padre di una successiva figliata porno-soft (Caligola e Messalina, 1982, di Joe D'Amato e Caligola, la storia mai raccontata, 1982, di David Hills) e di Ars amandi (1983) di Walerian Borowczyk. In genere questi film indugiano tra la nudità prosperosa (Malatesta, Le caldi notti di Poppea, 1969; Bianchi Montero, Le caldi notti di Caligola, 1977) e il turpiloquio (Castellacci e Pingitore, Nerone e Remo e Romolo. Storia di due figli di una lupa, entrambi del 1976). Infine S.P.Q.R. (1994) dei fratelli Vanzina riunisce le due tendenze, alternando i seni di Anna Falchi e le battute di Christian De Sica. Nel frattempo scenari e personaggi romani sono riciclati nel kolossal evangelico alla casareccia. Negli anni 80 infatti il piccolo (Rossi, Quo Vadis?, 1985) e il grande schermo (Damiano Damiani, L'inchiesta, 1986) sfornano operine ispirate al martirio di Cristo e dei primi cristiani e contrassegnate da funzionari romani in crisi di fronte alla nuova religione.

La produzione italiana sull'antica Roma non subisce quasi concorrenza a livello europeo. Nella prospettiva di una storia mondiale del cinema e della cultura diffusa da quest'ultimo è, però, una semplice nota introduttiva alla produzione statunitense. Questa inizia con un certo ritardo, riprendendo i suggerimenti francesi sulla crudeltà di Nerone e la persecuzione dei cristiani (Nero and the Burning of Rome, 1908, di Edwin Porter; Quo vadis?, 1913, di anonimo), sulla scia per altro anche di alcuni spettacoli del circo Barnum [34] . Questo avvio poco dinamico è paradossale in un paese nel quale continua ad essere forte il richiamo dell'antica Roma. Alcuni padiglioni dell'Esposizione di Chicago del 1892 sono nel "Roman style" e quest'ultimo caratterizza anche l'Esposizione Panamericana di Buffalo (1901) e gli edifici pubblici del periodo. Quel profluvio di colonne e marmi, rigidamente bianchi, contraddistingue anche gli scenari dei primi film, ma sul set non ha la tensione che invece innerva nelle rivisitazioni urbanistico-architettoniche. Pochi anni dopo, però, David W. Griffith suggerisce il modo di sfuggire all'impasse, abbinando a quelle colonne e alle scenografie gigantesche desunte da Pastrone attrici poco vestite e ricorrendo a storie con una solida morale cristiana. Sono così accontentati i patiti dell'antichità riletta attraverso un neoclassicismo aggiornato, i moralisti che esaltano le pristine virtù cristiane e proseguono ad esecrare l'impero e gli amanti della bellezza muliebre.

Nei decenni successivi la Roma di celluloide all'americana ospita gli adattamenti delle opere dei già citati Bulwer-Lytton e Sinkiewicz, nonché del Ben-Hur di Wallace . Lo spettatore è sedotto dall'architettura e dalle tuniche trasparenti, ma è anche avvertito che i peccatori pagano il fio delle loro malefatte, mentre i cristiani guadagnano il regno dei cieli. Tra questi film Ben-Hur: A Tale of the Christ (Fred Niblo, 1925) si rivela un ottimo investimento e pone le premesse dei successivi kolossal. Sennonché la sua versione sonorizzata (1931) non piace, perché il pubblico non vuole il riciclaggio del muto, ma opere nuove. E queste sono prodotte da Cecil B. De Mille che sfrutta il potenziale erotico della decadenza romana. I suoi film esaltano la morale cristiana, ma indugiano sulle perversioni pagane, come il bagno nel latte d'asina di Poppea (Il segno della Croce, 1932). De Mille non rifugge dalle scenografie alla Griffith, anzi la sua Roma è veramente gigantesca. Tuttavia è più freddo del suo predecessore e nel corso di una carriera lunghissima (1913-1956) impone una pratica dell'eccesso controllato, assai apprezzata dai produttori timorosi di sforare il budget senza attrarre spettatori.

La lezione di De Mille influenza i kolossal del secondo dopoguerra. Quo vadis? (Mervin Le Roy, 1950), La Tunica (Henry Koster, 1953), Giulio Cesare (Joseph L. Mankiewicz, 1953), Ben-Hur (William Wyler, 1958), Barabba (Richard Fleischer, 1962), Cleopatra (Joseph Mankiewicz, 1963) e La caduta dell'impero romano (Anthony Mann, 1964) sono in egual modo debitori al primo mago dello storico-mitologico americano. In questo revival dell'antica Roma giocano comunque più fattori: la lezione di De Mille, ma anche il contatto diretto con Roma durante la guerra, il turismo di massa e i nuovi rapporti politici con l'Italia. A tali elementi si aggiunge la mai cessata influenza architettonica. Tra le due guerre molti stadi americani sono modellati sugli anfiteatri romani: è il caso, per esempio, del Memorial Coliseum utilizzato nelle Olimpiadi di Los Angeles del 1932. Nel secondo dopoguerra inoltre l'American Academy di Roma ospita architetti affermati, che incorporano nei successivi progetti elementi tardo-romani. Così Louis Kahn si ispira alla Villa di Adriano a Tivoli e alle Terme di Caracalla. Il "Roman style" torna di moda ed è esasperato nei tanti casinò ed alberghi di Las Vegas, che vogliono riproporre, ingigantito, il lusso sfrenato dell'impero [35] .

Il kolossal degli anni Cinquanta sfrutta questa passione per la romanità, ma introduce anche una riflessione sugli Stati Uniti come nuova Roma. L'America deve difendere i confini della civiltà dai barbari comunisti, ma per far ciò rischia di tradire le proprie origini. E' infatti nata imitando la Roma repubblicana e sconfiggendo l'impero britannico, ora sta invece sostituendosi a quest'ultimo: chi la salverà dalla degenerazione che travolge ogni epigono della Roma imperiale? In tutti i kolossal serpeggia questo interrogativo. La macchina spettacolare mette in risalto la piccineria degli imperatori e dei loro funzionari. Sono ben pochi i personaggi che danno prova di vera purezza d'animo: i cristiani, naturalmente, e qualche stoico che vive ancora come nella Roma repubblicana. In alcuni film, per giunta, neanche quest'ultima è ben vista: Spartacus (Stanley Kubrick, 1960) contrappone le virtù degli schiavi all'avidità dell'élite senatoria [36] .

I kolossal sono quindi apologhi spettacolari, che invitano l'America a non tradire le proprie origini, a non cedere a un'"imperializzazione" assai pericolosa, a non dimenticare le ragioni degli schiavi (un richiamo importante quest'ultimo, nel decennio in cui iniziano le lotte per i diritti civili). Il problema è affrontato in quegli anni anche dalla fantascienza: tra il 1950 e il 1952 Isaac Asimov raccoglie in tre volumi il primo ciclo della Fondazione, redatto a partire dal 1942 basandosi su Storia della decadenza e caduta dell'impero romano di Edward Gibbon (1776-1788). Asimov evidenzia come i germi del decadimento siano insiti in qualsiasi impero. Soltanto progettando una valvola di sicurezza (la Fondazione appunto) è possibile far sopravvivere la democrazia.

La riflessione di Asimov guarda in direzione opposta a quella seguita dal paese. Negli anni Cinquanta anticomunismo, antisemitismo e razzismo si danno la mano, mentre negli anni Sessanta la Baia dei Porci e l'impegno nel Vietnam dimostrano che gli Stati Uniti non sono soltanto simili all'impero romano, ma hanno trovato i propri parti e perso le pristine virtù. Il kolossal ha fallito il suo scopo culturale e presto fallisce anche al botteghino. La già ricordata Cleopatra di Mankiewicz porta la Fox alla bancarotta e fa crollare tutto quel sistema produttivo.

La Roma imperiale e, più in generale, il kolossal in costume spariscono dagli schermi americani, a parte tarde imitazioni dei film di gladiatori all'italiana (The Seven Magnificent Gladiators di Menahem Golan e Yoram Globus, 1982) e miniserie televisive (Gli ultimi giorni di Pompei, 1984). Il peplum all'americana diventa quindi occasione di presa in giro: la Roma puzzolente di A Funny Thing Happened on the Way to the Forum (Richard Lester, 1966), il discorso di John Belushi drappeggiato in un lenzuolo durante il toga-party di Animal House (John Landis, 1978), lo schiavo nero con la radiolona sulle spalle in La pazza storia del mondo (Mel Brooks, 1981). Oppure deve accentuare la propria carica erotica come nella versione americana di Io, Caligola (1979) di Tinto Brass e Bob Guccione.

Il mito di Roma non scompare, però, del tutto. In architettura il post-modernismo si nutre di modelli romani: il Getty Museum a Malibu ricalca, per esempio, lo schema delle ville pompeiane. La saga di Guerre stellari di George Lucas (la trilogia del 1977-1983; i romanzi, fumetti e videogiochi negli anni successivi; la rimasterizzazione elettronica dei primi tre film nel 1996; la seconda, deludente, trilogia a cavallo tra il secondo e il terzo millennio e il nuovo merchandising) è l'ennesimo apologo sulla degenerazione di una repubblica caduta sotto un malvagio imperatore, per colpa di alcuni senatori venduti. Soprattutto Il gladiatore (Ridley Scott, 2000) segna il grande ritorno della lotta per la libertà condotta nelle arene di celluloide.

I film statunitensi, qui presi in esame, formano un corpus coeso, con molti rimandi interni, spesso più importanti della realtà storica per delimitare il piano della verosimiglianza condiviso da troupe e spettatori. Sono infatti stranoti gli anacronismi veicolati da questi film e ripetuti decennio dopo decennio: architettura, abiti, pettinature, gesti e oggetti assolutamente sconosciuti ai romani [37] . D'altronde la stessa valenza del discorso sull'impero (e quasi tutte queste pellicole sono ambientate nella crisi dopo la morte di Cesare oppure durante l'età imperiale, salvo quelle sul pericolo cartaginese) spinge a forzature polemiche, che poco si curano del dettaglio storico. Già negli anni Cinquanta il Nerone di Quo vadis? ritrae il senatore McCarthy, mentre Ben-Hur e Spartacus sono sceneggiati avendo in mente il Medio-Oriente sotto il protettorato americano. Ma a proposito di tali forzature merita una dettagliata analisi Il gladiatore di Ridley Scott, nel quale sono scopertamente sottolineate le citazioni del corpus filmico precedente e le licenze con la storia [38] .

Il gladiatore è uscito il 5 maggio 2000 in Nord America e ha immediatamente sbancato, ripagando i produttori dei 100 milioni di dollari investiti e premiando la capacità del regista di far rivivere un genere in decadenza. Come è noto, Scott ha rilanciato la fantascienza (Alien, 1979, e Blade Runner, 1982) e la fantasy (Legend, 1985). Ha inoltre lavorato sul romanzo (I duellanti, 1977) e il polpettone storico (1492: la conquista del Paradiso, 1992); il road-movie (Thelma & Louise, 1991) e il militare (G.I. Jane, 1999) virandoli al femminile; il poliziesco ambientato in Giappone (Black Rain, 1989) e l'avventuroso (L'albatross - White Squall, 1994).

Non sempre Scott rivitalizza il filone prescelto, tuttavia il suo modo di operare è in sostanza sempre uguale. Rispetta le vecchie regole e ne accentua all'inverosimile le possibilità visive, inoltre aggredisce immediatamente lo spettatore. Anche nel Gladiatore i primi cinque minuti sono fondamentali: la battaglia tra i romani e i germani nel 180 d.C. non è certo del tutto verosimile, ma al contempo epitomizza le battaglie degli ultimi cnquant'anni di cinema. La panoramica iniziale imprime nella mente degli spettatori lo spazio complessivo e le strategie dei contendenti; quindi le riprese dal basso, ravvicinatissime e spesso rallentate, frammentano l'azione e rendono iconici ogni movimento e ogni morte. Allo stesso tempo la brutalità delle ferite e anacronismi come l'incredibile potenza di fuoco romana (il lancio di missili infuocati è un vero e proprio bombardamento) ribadiscono che la guerra è sempre un massacro, per quanto possano essere giusti i motivi per i quali si combatte.

La battaglia e i successivi dialoghi con l'imperatore Marco Aurelio (Richard Harris) mostrano come il generale iberico Massimo Decio Meridio (Russell Crowe) non tema di battersi e soprattutto sia convinto di dover imporre la luce di Roma sulle tenebre del mondo che circonda quest'ultima. Massimo è quasi il figlio adottivo del vecchio imperatore e questi vuole incaricarlo di restaurare la Repubblica. Arrivano, però, Commodo (Joaquin Phoenix) e Lucilla (Connie Nielsen) e il primo - già pazzo, perché non amato da Marco Aurelio e innamorato della sorella (è uno dei punti più scontati della storia) - strangola l'imperatore e prende il potere.

Massimo rifiuta di servire il patricida e fugge, uccidendo i soldati incaricati di eliminarlo, ma trova la moglie e il figlio crocifissi e bruciati, la casa e i campi devastati. Sviene per il dolore ed è raccolto da una carovana araba, che lo porta in Marocco. E' l'episodio più incomprensibile dell'intera sceneggiatura, probabilmente la presenza degli arabi, l'incontro con un prigioniero africano e l'ispanicità dell'ex-generale garantiscono la non eurocentricità del film, mentre la Dreamworks e l'Universal avevano a disposizione una locazione marocchina per accompagnare quella maltese, dove sono stati ricostruiti alcuni edifici romani.

I prigionieri sono carne da macello per le arene locali; Massimo, però, li trasforma nel team vincente. In una scena passa in rassegna i suoi, come aveva fatto prima della battaglia contro i Germani; entra nell'arena da solo e uccide tutti gli avversari; poi insulta il pubblica e questo lo elegge a proprio idolo. Proximo, il padrone dei gladiatori  interpretato da Oliver Reed, decide allora di portarlo a Roma, dove Commodo festeggia la presa del potere con sei mesi di combattimenti.

Massimo s'impone anche nella capitale ed è costretto a palesarsi. L'imperatore non può, però, ucciderlo, perché il gladiatore è adorato dalla folla. Tenta quindi di truccare uno scontro, ma il nostro vince nonostante che il nemico sia aiutato da quattro tigri. Nel frattempo incontra Lucilla, terrorizzata dal fratello, e vari membri dell'opposizione senatoria. Infine, spalleggiato dalla sua squadra e da Proximo, che era stato affrancato da Marco Aurelio, fugge per sollevare i suoi antichi soldati, acquartierati a Ostia. E', però, ripreso, mentre i suoi amici sono uccisi o cadono in mano al tiranno.

A questo punto Commodo obbliga a singolar tenzone il gladiatore, dopo averlo di nascosto ferito mortalmente . Massimo, pur in fin di vita, sgozza l'imperatore, mentre i pretoriani non fanno nulla per difendere quest'ultimo. Infine, prima di raggiungere i suoi nell'aldilà, ordina di liberare i senatori arrestati. Il potere torna al senato, mentre Lucilla invita i Romani a far si che la morte di un uomo giusto offra alla città una nuova occasione, quella, cioè, di rifondare la Repubblica.

L'intera vicenda è assolutamente falsa: Commodo fu eliminato da una congiura nel 192 d.C. (e non nel 180) e la Repubblica non fu mai restaurata. I costumi, gli arredamenti, le armi, i gioielli, le pettinature, il modo di salutare, il livello di confidenza tra l'imperatore e i suoi amici o nemici, i rapporti tra le classi sociali e d'età, nonché quelli tra i sessi e tra parenti, non hanno niente a che vedere con quanto ci rivelano i documenti storici. D'altra parte Scott non si è mai misurato contro la storia, ma contro la tradizione filmica e per quanto riguarda il film "romano" all'americana (ribattezzato "sword and sandals") tale tradizione ha inevitabilmente a che fare con Shakespeare. I Romani di Gladiator indossano quindi i costumi degli attori shakespeariani, mentre Marco Aurelio è un Lear ante litteram e i suoi due figli rifanno il verso alle tre figlie del re inglese. Alla base shakespeariana Scott aggiunge ingredienti tipicamente statunitensi: il gusto, anche pacchiano, per l'architettura romana; il tema del generale contadino (George Washington che torna alle sue piantagioni) e degli imperatori debosciati (Commodo è stato presentato al pubblico statunitense come il proprietario di un harem composto da 300 donne e 300 ragazzi); la passione per i gladiatori.

A proposito di quest'ultima, basta notare come nei negozi on line di videocassette siano ancor oggi in vendita una ventina di titoli. Spartacus (1960) di Stanley Kubrick e Demetrio e i gladiatori (1954) di Delmer Daves, ma anche lo stock italico già citato, nonché il tardo e patetico Bruno Mattei, I sette magnifici gladiatori, 1983. Abbondano poi i gladiatori moderni: dal primo The Gladiator (Edward Sedgwick, 1938), ambientato nel mondo dello sport, a quelli su poliziotti (il telefilm Gladiator School di James Darren, tratto dalla serie Police Story; il folle Gladiator Cop, 1995, di Nick Rotundo), pugili delle arene clandestine (Gladiator, 1992, di Rowdy Harrington), vendicatori (il telefilm di Abel Ferrara The Gladiator, 1986, nel quale il fratello di un poveretto, ucciso da un automobilista, s'incarica di liberare le strade dai guidatori pericolosi) oppure soldati o mercenari del futuro (The Gladiators, 1969-1970, di Peter Watkins; Anno 2020 - I gladiatori del futuro, 1982, di Joe D'Amato; I guerrieri dell'anno 2072, 1983, di Lucio Fulci).

Se invece si consulta una libreria in linea, Amazon.com per esempio, si trova una quarantina di titoli, da Conan the Gladiator di Leonard e Leona Carpenter a The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster di Carlin A. Barton, importante saggio sulla psicologia collettiva dell'antica Roma, ripubblicato in economica dalla Princeton University Press nel 1999. Grazie ad un qualsiasi motore di ricerca si trovano infine nel Web quasi ventimila pagine su "Gladiators": sul film e i suoi attori, su squadre di football, su lottatori (la Gladiators World Alliance raccoglie pugili e wrestlers) e body-builders, su corsi di sopravvivenza (come quello della Gladiators Training Academy di Redwood City in California) e su associazioni di reduci.

Insomma è chiaro che la parola "gladiatore" risveglia molti echi nella cultura americana e la campagna pubblicitaria ha fatto leva su questo, grazie soprattutto al sito ufficiale del film (www.gladiator-thefilm.com), quello di Crowe (www.geocities.com/Hollywood/Cinema/1501) e allo speciale televisivo Gladiator: First Look (HBO).Tuttavia Scott ha aggiunto qualcosa di più al mero revival gladiatorio. Il suo film vuole infatti sottolineare come nel suo impero romano sia passati dalla guerra vera alla guerra "as entertainment", tentando al contempo di nascondere che quest'ultima è letale quanto la prima.

Ora, se i malvagi imperatori romani degli anni Cinquanta simboleggiavano i governanti sovietici, all'alba del secondo millenio tale richiamo è improponibile: esiste infatti un solo impero. Sono dunque gli Stati Uniti a correre il rischio di cadere nelle mani di un Commodo e di perdere i pristini valori repubblicani. D'altra parte, si pensi a Spartacus di Kubrick, la condanna della violenza militare del capitalismo è da tempo accoppiata nell'immaginario filmico americano alla rivendicazione della libertà e dell'umanità degli schiavi (e per estensione di tutti gli uomini). A questo proposito Natalie Zemon Davis, la celebre storica autrice de Il ritorno di Martin Guerre nota come Kubrick riesca a parlare di storia (o forse a far parlare la storia), pur avendo costruito il suo film sulla scarsa sensibilità culturale di un americano medio del secondo Ventesimo Secolo [39] . Non credo che si possa pagare un tale tributo a Scott, nel suo film non c'è posto per la storia, né in quanto materia di studio, né in quanto tenuta della sceneggiatura. C'è, però, una potenza visiva notevole, nonostante qualche difficoltà a raccordare le scene veramente girate e quelle costruite al computer, e una grande capacità di sfruttare attori bravissimi, primo fra tutti Russell Crowe, che è fisicamente l'ancora di tutto il film. E' il suo sguardo a dare spessore alla ricerca di vendetta e di giustizia di Massimo e a farci credere a quella Roma di bit e cartapesta.

L'abilità e l'impegno del regista, nonché gli interrogativi su repubblica e impero rispondono comunque a un diffuso interesse americano per le vicende romane. Recenti studi hanno ribadito come la cultura di élite abbia più volte discusso nel corso del secolo la figura di Seneca, il filosofo che in qualche modo ha cercato di opporsi alla tirannia di Nerone [40] . Una sia pur minima frequentazione della cultura di massa rivela invece come negli ultimi anni vi sia stata una straordinaria diffusione di romanzi ambientati nell'antica Roma, repubblicana e imperiale [41] . Molti sono polizieschi, equamente divisi tra l'età repubblicana e quella imperiale e in genere costruiti in modo di svelare i lati oscuri di entrambe. I segugi di questi romanzi sono spesso simili al Philip Marlowe di Raymond Chandler, l'investigatore californiano che svelava in The Big Sleep (1939) quanti cadaveri arricchissero i pozzi di petrolio e corrompessero l'etica americana. Le loro avventure sembrano chiosare negativamente il sogno del Marco Aurelio di Ridley Scott: perché tornare alla Repubblica per salvare l'impero americano (pardon, quello romano), se la Repubblica stessa era già marcia e proprio per questo si è trasformata in impero?

A loro guisa film e romanzi americani illustrano quindi come la riflessione sul contrasto tra impero e repubblica innervi l'evoluzione della cultura statunitense e abbia un posto fondamentale nella costruzione e diffusione dell'odierna universo di massa [42] . Tuttavia quegli stessi film e quegli stessi romanzi spiegano anche perché il repubblicanesimo non sia più una tradizione (im)portante nella cultura americana. La repubblica e l'impero sono strettamente connaturati ed entrambi sono dominati e diretti da un'élite (per definizione?) corrotta.



 

[1] Anche se già a metà dell'Ottocento molti pensatori rivelano il proprio timore dei "repubblicani rossi" e, riflettendo sulle rivoluzioni europee, iniziano a dubitare che la repubblica sia la forma politica perfetta, cfr. Gilles Pécout, Cavour visto dagli Stati Uniti, comunicazione al Seminario Internazionale, Il Regno d'Italia (1861) e il Nord America, Viterbo, Università degli Studi della Tuscia, 30 novembre 2001. Nella preparazione di questo saggio mi sono ampiamente giovato della biblioteca e delle conoscenze di Ferdinando Fasce. Inoltre Daniele Fiorentino e Gilles Pécout mi hanno fornito ulteriori indicazioni. A loro vanno quindi i miei più sentiti ringraziamenti, ferma restando la mia responsabilità per ogni eventuale errore.

[2] Cfr. i due volumi collettanei La virtù e la libertà. Ideali e civiltà italiana nella formazione degli Stati Uniti ed Etica e religione nella tradizione repubblicana. Aspetti storici e teorici, entrambi Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, rispettivamente 1995 e 1996.

[3] Eric Foner, The Story of American Freedom, New York, Norton & Co., 1998 (Storia della libertà, Roma, Donzelli, 2000).

[4] Assaf Likhovski, "Tiranny" in Nineteenth-Century American Legal Discourse: A Rhetorical Analysis, "Journal of  Interdisciplinary History", XXVIII, 2 (1997), pp. 205-223.

[5] Robert E. Shalhope, Thomas Jefferson's Republicanism and Antebellum Southern Thought, "Journal of Southerm History", XLII (1976), pp. 529-556.

[6] John Bodnar, Remaking American Public Memory: Commemoration and Patriotism in the Twentieth Century, Princeton, Princeton University Press, 1992; Ferdinando Fasce, Una famiglia a stelle e strisce. Grande guerra e cultura d'impresa in America, Bologna, Il Mulino, 1993, e La democrazia degli affari. Comunicazione aziendale e discorso pubblico negli Stati Uniti, 1900-1940, Roma, Carocci, 2000.

[7] Gary Gerstle, American Crucible: Race and Nation in the Twentieth Century, Princeton, Princeton University Press, 2001; ma vedi anche le critiche e le obiezioni in Alan Wolfe, Strangled by Roots, "The New Republic on Line", 28 maggio 2001 (http://www.thenewrepublic.com/052801/Wolfe052801). Sul ruolo della seconda guerra mondiale, cfr. Daria Frezza, Il "riarmo ideologico della democrazia" alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, in Guerra e culture tra età moderna e contemporanea, a cura di Susanna Delfino - Pierangelo Castagneto, Genova, Brigati, 2001, pp. 139-160.

[8] Wilbur Zelinsky, Nation into State: The Shifting Symbolic Foundations of America Nationalism, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1988; Edward Tabor Linenthal, Sacred Ground: Americans and Their Battlefields, Urbana, University of Illinois Press, 1991; Bonds of Affection: Americans Define Their Patriotism, acura di John Bodnar, Princeton, Princeton, University Press, 1992; Cecilia Elizabeth O'Leary, To Die For. The Paradox of American Patriotism, Princeton, Princeton University Press, 1999.

[9] Michael Kammen, Mystic Chords of Memory. The Transformation of Tradition in American Culture, New York, Knopf, 1991.

[10] Robert G. Athearn, The Mythic West in Twentieth-Century America, Lawrence, University of Kansas Press, 1986. Alcuni film western affrontano presente il tema "repubblica/impero", per esempio quelli sull'insurrezione texana contro il Messico. Vedi in particolare La battaglia di Alamo (The Alamo, 1960) di e con John Wayne. Devo questa segnalazione alla cortesia di Maurizio Viroli.

[11] Ferdinando Fasce, Guerra e spettacolo. Fronte interno e discorso pubblico negli Stati Uniti della Prima Guerra Mondiale, in Guerra e culture tra età moderna e contemporanea, cit., pp. 123-138.

[12] Il dibattito storiografico sul repubblicanesimo americano viene a galla con Robert E. Shalhope, Toward a Republican Synthesis: The Emergence of an Understanding of Republicanism in American Historiography, "William and Mary Quarterly", ser. 3, 29 (1972), pp. 49-80, ed è ampliamente analizzato in Daniel T. Rogers, Republicanism: the Career of a Concept, "Journal of American History", XXIII, 2 (1992), pp. 11-38, al quale rimando per una completa bibliografia. In italiano sono disponibili John G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Bologna, Il Mulino, 1980, e Gordon S. Wood, I figli della libertà. Alle origini della democrazia americana, Firenze, Giunti, 1996. Si vedano inoltre Maurizio Viroli, Repubblicanesimo, Roma-Bari, Laterza, 1999, e Repubblicanesimo Neorepubblicanesimo, a cura di Thomas Casadei - Sauro Mattarelli, "Il pensiero mazziniano", 3 (2000).

[13] David Montgomery, Citizen Worker. The Experience of Workers in the United States with Democracy and the Free Market During the Nineteenth Century, New York, Cambridge University Press, 1993.

[14] James R. Barrett, Americanization from the bottom up. Immigration and the Remaking of the Working Class in the United States, 1880-1930, "Journal of American History", 79, 3 (1992), pp. 996-1020.

[15] Daria Frezza, Il leader, la folla, la democrazia nel discorso pubblico americano 1880-1941, Roma, Carocci, 2001; Raffaella Baritono, La democrazia vissuta. Individualismo e pluralismo nel pensiero di Mary Parker Follet, Torino, La Rosa, 2001.

[16] Edwin A. Miles, The Young American Nation and the Classical World, "Journal of the History of Ideas", 35 (1974), pp. 259-274; Classical Tradition in Early America, a cura di John W. Eadie, Ann Arbor, Mich., Center for Coördination of Ancient and Modern Studies, 1976; Paul A. Rahe, Republics Ancient and Modern: Classical Republicanism and the American Revolution, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1992; William Haase-Meyer Reinhold, The Classical Tradition and the Americas, Berlin - New Yok, De Gruytr, 1994; Carl J. Richard, The Founders and the Classics: Greece, Rome, and the American Enlightenment, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1994.

[17] Malcolm Sylvers, Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson, Manduria, Lacaita, 1993; J.J. Ellis, American Sphinx. The Character of Thomas Jefferson, New York, Knopf, 1997. L'acquisto della Louisiana e il bombardamento di Tripoli sono attualmente studiati da Marco Sioli, che ringrazio per averne cortesemente discusso con me.

[18] Per un'introduzione e una bibliografia, cfr. Federico Romero, L'impero americano, Firenze, Giunti, 1996. Sullo scorcio del Novecento la deriva imperiale è stata giudicata pericolosa e soprattutto troppo costosa: Gore Vidal, The Decline and Fall of the American Empire, Berkeley, Odonian Press, 1992; William V. Spanos, America's Shadow: An Anatomy of Empire, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1995; Chalmers Johnson, Blowback: The Costs and Consequences of American Empire, New York, Holt & Co., 2000; Michael Hardt - Antonio Negri, Empire, Cambridge, Harvard University Press, 2000. Tuttavia gli avvenimenti dell'11 settembre 2001 hanno per il momento zittito molti critici, anche se non tutti. Comunque il crollo delle torri gemelle e la guerra in Afganistan ha rilanciato il tema del carattere "imperiale" degli Stati Uniti. Alla fine del 2001 www.amazon.com metteva in vendita ben 207 libri nei quli il tema era affrontato: 106 saggi storici, 64 saggi di altra natura, 37 romanzi.

[19] Il tema, tornato più volte sui giornali, è stato approfondito da Robert Callahan, Public Affairs Officer dell'ambasciata statunitense in Italia, al XVI Convegno Biennale Internazionale dell'Associazione Italiana di Studi Americani (America and the Mediterranean, Genova 8-11 novembre 2001).

[20] Per un'introduzione, cfr. Storia del cinema mondiale, a cura di Gian Piero Brunetta, II, Gli Stati Uniti, 1-2, Torino, Einaudi, 1999-2000.

[21] El cine y el mundo antiguo, a cura di Antonio Duplá - Ana Iriarte, Bilbao, Servicio Editorial Universidad del Pais Vasco, 1990, e Maria Wyke, Projecting the past: ancient Rome, cinema, and history, New York, Routledge, 1997.

[22] Fredric M. Litto, Addison's Cato in the Colonies, "William and Mary Quarterly", ser. 3, 23 (1966), pp. 431-449; The Classick Pages: Classical Reading of Eighteenth Century Americans, a cura di Meyer Reinhold, University Park, Pennsylvania State University Press, 1975.

[23] Garry Wills, Cincinnatus: George Washington & the Enlightenment: Images of Power in Early America, Garden City, NY, Doubleday, 1984; Meyer Reinhold, Classica Americana: The Greek and Roman Heritage in the United States, Detroit, Wayne State University Press, 1985; Stanley M. Burstein, The Classics and the American Republic, "The History Teacher", 30, 1 (1996), pp. 29-44.

[24] Stephen Botein, Cicero as Role Model for Early American Lawyers: A Case Study in Classical "Influence", "The Classical Journal", 73 (1977-1978), pp. 313-321.

[25] James S. Ackerman, Il presidente Jefferson e il palladianesimo americano, "Bollettino del Centro Internazionale di Studi d'Architettura", 6 (1964), pp. 39-49, e Thomas Jefferson e l'Italia, in La virtù e la libertà , cit.,  pp. 225-240. Per il confronto con l'Italia, cfr. Thomas Jefferson, Viaggio nel Sud della Francia e nel Nord dell'Italia, a cura di Marco Sioli, Pavia, Ibis, 1998.

[26] Robert Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford, Blackwell, 1969; Erwin Panofsky, Rinascimento e Rinascenze nell’arte occidentale (1960), Milano, Feltrinelli, 1971; Paul Oskar Kristeller, La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento (1955), Firenze, La Nuova Italia, 1975; Renaissance and Renewal in the Twelfth Century, a cura di Giles Constable - Robert. L. Benson, Cambridge, Mass., Harvard UP, 1982; Salvatore Settis, Memoria dell’antico nell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1984-1986; Peter Bondanella, The Eternal City. Roman Images in the Modern World, Chapel Hill & London, 1987; Images de l'antiquité dans la littérature française. Le texte et son illustration, a cura di Emmanuèle Baumgartner - Laurence Harf-Lancner, Paris, Presses de l'École Normale Supérieure, 1993; Rome Reborn: The Vatican Library and Renaissance Culture, a cura di Anthony Grafton, Washington, D.C., Library of Congress, 1993; Birger Munk Olsen, L'atteggiamento medievale di fronte alla cultura classica, Roma, Unione Internazionale degli Istituti, 1994; Lucilla de Lachenal, Spolia. Uso e reimpiego dell'antico dal III al XIV secolo, Milano, Longanesi, 1995; Marc Fumaroli, Rome dans la mémoire et l'imagination de l'Europe, Roma, Unione Internazionale degli Istituti, 1997; Roma antica, crisi moderna, "Alias", 4 agosto 2001, pp. 1-28.

[27] Come già la Rivoluzione americana, quella francese ama le raffigurazioni romane, talvolta accostate a quelle greche, cfr. Luciano Canfora, Ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980; Luciano Guerci, Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Sparta, Atene e i "philosophes" nella Francia del '700, Napoli, Guida, 1979; Pierre Vidal-Naquet, La démocratie grecque vue d'ailleurs. Essai d'historiographie ancienne et moderne, Paris, Flammarion, 1990, e Les grecs, les historiens, la démocratie. Le grand écart, Paris, Éditions la découverte, 2000;  François Hartog, La Révolution française et l'Antiquité, "La pensée politique", 1, 2 (1993-1994), pp. 30-61.

[28] Christian Amalvi, De l'art et de la manière d'accomoder les héros de l'histoire de France. De Vercingétorix à la Révolution, Paris, Albin Michel, 1988; Christian Goudineau, Le dossierVercingétorix, Arles, Actes Sud, 2001.

[29] Camille Jullian, Vercingétorix, Paris, Hachette, 1901; http://www.entrelacs.tm.fr/entrelac/verc0100.htm.

[31] Per un'introduzione, cfr. Classics and Cinema, a cura di Maria Wyke, Lewisburg, Bucknell University Press, 1991.

[32] Per una bibliografia sulla riscoperta mussoliniana della romanità, cfr. Friedemann Scriba, The Sacralization of the Roman Past in Mussolini Italy. Erudition, Aesthetics, and Religion in the Exhibition of Augustus' Bimillenary in 1937-1938, "Storia della storiografia", 30 (1996), pp. 19-29.

[33] Domenico Cammarota, Il cinema peplum, Roma, Fanucci, 1987.

[34] M. Wyke, Projecting the Past, cit., e Ancient Rome and the traditions of film history, http://www.latrobe.edu.au/ screeningthepast/firstrelease/fr0499/mwfr6b.htm).

[35] William L. MacDonald - John A. Pinto, Villa Adriana. La costruzione e il mito da Adriano a Louis Kahn, Milano, Electa, 1997.

[36] Sul mito e i film di Spartaco, vedi i saggi raccolti in Le battaglie di "Spartacus", "Linea d'ombra", 73 (luglio-agosto 1992), pp. 97-107, e Spartaco. La ribellione degli schiavi, a cura di Mario Dogliani, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. Materiale utile sulla pellicola di Kubrick e il romanzo di Howard Fast del 1952 in http://www.ancientsites.com.

[37] Sergio Bertelli, Corsari del tempo, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994.

[38] Giuliana Muscio, Il gladiatore: la storia sconfitta nell'arena, "I viaggi di Erodoto", 41-42 (2000), pp. 59-67.

[39] Natalie Zemon Davis, Slaves on Screen. Film and Historical Vision, Toronto, Vintage Canada 2000.

[40] Francesco Citti - Camillo Neri, Seneca nel Novecento. Sondaggi sulla fortuna di un "classico", Roma, Carocci, 2001.

[41] Il sito http://www.stockton.edu/~roman/ elenca oltre 1500 titoli disponibili in inglese.

[42] Al proposito costituisce un'interessante lettura Patrick Brantlinger, Bread & circuses: theories of mass culture as social decay, Ithaca, Cornell University Press, 1983.