Matteo Sanfilippo


Le guerre di religione in Francia e lo scenario europeo.
Momenti e personaggi


Università della Tuscia, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne
Viterbo2001

a Flavio Fiorani e Gianluca Formichi

Introduzione

Questo e-book è un primo tentativo di elaborare materiale per l'apprendimento della storia sul sito del nostro Ateneo. Inizialmente avevo pensato a un vero e proprio manuale di Storia moderna, ma la sua elaborazione sta prendendo più tempo di quello prefissato per questi primi esperimenti. Ho deciso quindi di procedere con una prima unità didattica che approfondisca alcuni aspetti di un periodo che negli ultimi anni ha riscosso un discreto successo tra gli studenti della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere.
Quanto qui elaborato deve essere considerato una versione preliminare, che sarà presto sostituita sfruttando le facilitazioni della rielaborazione digitale. In questa prima versione faccio il punto: a) sulle guerre di religione in Francia (Parte I); b) su quanto accadde nello stesso periodo in Spagna, Olanda e Inghilterrra (Parte II); c) su alcuni italiani (una duchessa, un vescovo, un granduca e un papa) che contribuirono agli sviluppi francesi (Parte III). In pratica la prima parte attira l'attenzione su un avvenimento circoscritto, la seconda ne illustra una serie di addentellati e mostra come ogni episodio debba essere interpretato alla luce di quel che avviene su uno scacchiere più vasto, la terza illustra il ruolo di alcuni individui.
Questa operazione tripartita ha tre scopi principali. In primo luogo voglio tratteggiare un periodo storico su scala europea, rispondendo all'attenzione per l'Europa del nostro Ateneo e in particolare della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne. In secondo luogo voglio utilizzare un linguaggio piano che rinunci a parte degli usuali orpelli accademici: ridurrò quindi al minimo le disquisizioni teoriche e non farò ricorso alle note, sostituite da una bibliografia alla fine di ciascuna parte. Spero così di trovare un linguaggio adatto anche a coloro che, iscritti ai corsi di laurea triennali, non hanno un particolare desiderio di approfondire lo studio della storia. In terzo luogo desidero mostrare che la scelta di una narrazione piana non impoverisce la didattica, né comporta alcuna rinuncia alla ricerca. La prima parte è basata soprattutto sulla letteratura storica in italiano, inglese e francese, mentre la seconda e la terza integrano tale letteratura con ricerche d'archivio.
Proprio i risultati del lavoro d'archivio servono a tracciare una serie di quadretti biografici che concorrono a rendere più "spessa" la narrazione storica. Questa infatti deve andare dal particolare al generale e da quest'ultimo di nuovo al particolare per rendere la complessità dell'esistenza, così come è esperita da ciascuno di noi, e al contempo per sottolineare quanto il mondo, nel quale si viveva oltre quattrocento anni fa, fosse simile e al contempo diverso dal nostro. Senza un confronto diretto con le fonti rischia infatti di sfuggire che l'umanità non vive in un eterno presente nel quale tutto si ripete in maniera eguale, salvo un certo qual complicarsi e internazionalizzarsi delle vicende a partire dal Novecento. Di fatto nell'Europa del Cinquecento la vita quotidiana si basava su regole e rituali assai distanti da quelli oggi condivisi. In compenso il confronto tra le potenze e a quello tra le fedi religiose comportava lo scontrarsi di spinte regionali, nazionali, e sovranazionali in una situazione che era già globalizzata e globalizzante. Inoltre la storia europea già registrava lo spostarsi di uomini al di fuori dei confini natii.
La prima parte dunque evidenzia le strutture psicologiche che sovrintendono alla tensione e alle spinte omicide delle guerre di religione francesi. La seconda mette in risalto l'interrelazione tra i vari stati. La terza mostrare come flussi temporanei e definitivi partecipino del turbinio degli avvenimenti e come le reti (oggi diremmo i network) migratori influenzino il o traggano vantaggio dal corso di questi ultimi. Proprio quest'ultima parte deve essere ampliata. Abbiamo infatti ancora bisogno di molto lavoro d'archivio su questi spostamenti di uomini e di donne e non è neanche ben fissato il quadro teorico necessario ad interpretarli. La presenza italiana in Francia è già presa in considerazione da numerosi studi, in primo luogo da La France italienne, XVIe-XVIIe siècle di Jean-François Dubost (Paris, Aubier, 1997), ma si stanno ancora vagliando le relazioni tra migrazioni politiche (per esempio, i fuoriusciti fiorentini) ed economiche (i parrucchieri, ristoratori e servi italiani a Parigi). Riguardo a questi incroci di motivazioni (e quindi anche di comportamenti) spero di poter aggiungere presto un capitolo su Caterina de' Medici e la sua cerchia. Esso infatti dovrebbe: 1) ampliare lo studio delle relazioni tra questa famiglia fiorentina e la Francia; 2) verificare rilievo numerico e politico dei fuoriusciti nella cerchia di Caterina; 3) visualizzare il contributo degli italiani alla storia di Francia nel secondo Cinquecento.
Conto anche di reintervenire sulla seconda parte, approfondendo la storia inglese e la figura di Elisabetta I. Tra l'altro se la terza parte evidenzia l'importanza delle migrazioni e delle reti di relazioni che tali fenomeni costruiscono, tutte e tre le parti, specie se maggiorate dalle biografie di Caterina de' Medici ed Elisabetta Tudor, mettono in luce l'importanza femminile nel secondo Cinquecento. Tra l'altro, sarebbe interessante tener conto dell'eco storico-letteraria di questi personaggi femminili. Infatti Anna d'Este, della quale parlo nella terza parte, è probabilmente la figura cui la contessa de La Fayette s è ispirata per La principessa di Clèves (1678), mentre la fama Caterina de' Medici e di Elisabetta Tudor è ancora viva in film quali La regina Margot (1994) di Patrice Chereau ed Elizabeth (1998) di Shekar Kapur.

Ringraziamenti

I testi qui raccolti nascono in buona parte come tracce di seminari, tenuti intorno alla metà degli anni 1990 nell'ambito dei corsi di Storia moderna di Giovanna Motta e poi di Gaetano Platania presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne di questo Ateneo. In seguito quelli, che qui sono divenuti i capitoli sulla rivoluzione olandese, sull'Invincibile Armata, su Filippo II e Domenico Grimaldi, sono stati rilavorati per la rivista "Storia e Dossier" (La spada e il pastorale, 90, 1994, pp. 41-44; Lo stretto fatale, 100, 1995, pp. 51-56; La rivolta dei pezzenti, 104, 1996, pp. 46-51; A quattrocento anni dalla sua morte: Filippo II, 133, 1998, pp. 40-44). La prima parte sulle guerre di religione in Francia è invece la versione originale di un testo poi ridotto per essere pubblicato come La stagione del sangue. Le guerre di religione in Francia (1559-1598), "Storia e Dossier", 98 (1995), pp. 69-95. Il capitolo su Anna d'Este è nato sviluppando una voce scritta per il Dizionario Biografico degli Italiani, ma del testo definitivo qui pubblicato è apparsa solo una versione molto ridotta in appendice al saggio appena citato sulle guerre di religione. L'intervento su Ferdinando de' Medici ha una lunga genesi. Le prime ricerche le ho svolte per il Profilo biografico di un cardinale di Santa Romana Chiesa poi granduca di Toscana: Ferdinando de' Medici, in Roma Europa: la piazza delle culture, Roma, Fondazione Roma Europa - Presidenza del Consiglio dei ministri, 1991, scritto assieme a mio padre Mario Sanfilippo. In seguito ho sfruttato il lavoro fatto nell'Archivio Segreto Vaticano e nella Biblioteca Apostolica Vaticana per redigere Ferdinando I de' Medici, parte prima: Cardinale di Santa Romana Chiesa, "Storia e Dossier", 129 (1998), pp. 32-37, e Ferdinando de' Medici, parte seconda: Granduca di Toscana, "Storia e Dossier", 130 (1998), pp. 46-51. Il capitolo qui presentato aggiorna quanto edito sulla rivista. Ho infine iniziato a studiare la biografia del cardinale Alessandro de' Medici per la voce Leone XI dell'Enciclopedia dei Papi, III, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 2000, pp. 269-277. Quel primo intervento fu scritto dietro suggerimento di Antonio Menniti Ippolito e con un consistente aiuto di Olivier Poncet. Il testo qui ripubblicato differisce da quel primo tentativo, perché riduce le pagine sull'ascesa al Soglio a favore di quelle sulla missione in Francia.
Oltre ai debiti con i già citati Motta, Platania, Mario Sanfilippo, Menniti Ippolito e Poncet, ci tengo a sottolineare la gratitudine dovuta a Giovanni Pizzorusso, con il quale ho condiviso quindici anni di ricerche e discussioni negli archivi romani. Voglio, però, dedicare questo lavoro a Flavio Fiorani e Gianluca Formichi, perché sono stati loro a dirottarmi sul secondo Cinquecento, quando mi hanno convinto a contribuire con continuità a "Storia e Dossier". Senza di loro non avrei mai approfondito questo periodo, perché negli anni universitari ero stato convinto a lavorare soprattutto sul Seicento e sull'Otto-Novecento. L'accoppiata appare oggi stravagante, ma allora rispondeva all'interesse per la nascita della modernità nella duplice crisi della transizione dal feudalesimo al capitalismo e dell'affermazione e dello sviluppo degli stati nazionali dopo la lunga fase rivoluzionaria (1775-1870).

Parte I

Le guerre di religione in Francia

L'eco delle guerre di religione

Le otto guerre di religione (1562-1563; 1567-1568; 1569-1570; 1572-1573; 1574-1576; 1576-1577; 1579-1580; 1585-1598) costituiscono una delle più importanti cesure della storia francese, assieme alla guerra dei Cento anni e alla Rivoluzione. Durante il quarantennio, che si apre con la morte di Enrico II (1559) e si chiude con l'editto di Nantes (1598), si scatena la bestialità umana in nome di una fede o di un partito, oppure di tutti e due: spesso il confine tra l'opzione religiosa e quella politica è infatti labile. I cattolici inaugurano la stagione del sangue con la strage di Vassy (1562). I calvinisti rispondono con la "michelade" di Nîmes (l'esecuzione a freddo di ottanta cattolici il 29 settembre 1567) e obbligano gli avversari a convertirsi o ad abbandonare alcune regioni. I cattolici infine firmano nel 1572 l'episodio più famoso e controverso, il massacro di s. Bartolomeo.
Queste vicende infliggono al paese ferite che non si rimarginano, anche perché riaperte nel 1685 dalla revoca dell'editto di Nantes e dalla successiva repressione dei protestanti. Nel corso del Sette-Ottocento ogni proposta di nuovi assetti politico-governativi suscita paragoni con quanto accaduto nel Cinquecento: scrittori di diversa fede religiosa e diverso credo politico ribadiscono continuamente che la Francia non deve ricadere negli eccessi di quel periodo. Qualcuno invita ogni tanto a mantenere il distacco emotivo. Nel 1829 Prosper Mérimée scrive, per esempio, che "le azioni degli uomini del secolo XVI non debbono essere giudicate alla stregua delle nostre idee". Ma gli storici e i romanzieri dei decenni successivi non accolgono tale suggerimento e leggono le guerre di religione in chiave contemporaneistica. Così Jules Michelet fa in modo che l'analisi di ogni strage provocata o permessa da Carlo IX o da Enrico III rinvii ai guasti prodotti da Napoleone III.
Dopo la caduta di quest'ultimo, si afferma nella cultura francese la tendenza a interpretare le guerre di religione come un violentissimo scontro, interno all'élite dominante: si offre quindi una lettura socio-politica, che attenua l'importanza del fattore religioso, ma non sottovaluta quella del periodo. Nel Novecento ha invece fortuna la tesi, epitomizzata da Fernand Braudel, per la quale il periodo 1559-1598 non ha influito sulle tendenze economiche e politico-diplomatiche della Francia cinquecentesca. Tale posizione opera una sorta di rimozione e esorcizza lo spettro dei massacri, sminuendo la rilevanza strutturale delle guerre di religione.
Questo processo di cancellazione è condiviso da varie posizioni culturali, tutte nutrite dei migliori sentimenti e in qualche modo ispirate alle vicende dell’entre-deux-guerres e del secondo conflitto mondiale. Ha quindi funzionato abbastanza bene nell'immediato dopoguerra, un po' meno egregiamente negli anni 1960-1980 ed è infine crollato davanti alla rinascita dell'integralismo (musulmano, cattolico, ebraico, induista, ecc.), all'esplosione dell'Europa dell'Est e alla conseguente ripresa della conflittualità politico-religiosa. Una conflittualità sempre più sanguinosa e universale, che oggi coinvolge, sia pure con episodi ancora limitati, l'Europa occidentale, il Giappone e gli Stati Uniti e che ha fatto riscoprire agli storici il peso dell'odio generato dalla contrapposizione religiosa e politica.
Tra il 1940 e il 1975 si è scritto poco sulle guerre di religione, mentre queste sono tornate alla ribalta storiografica mano a mano che aumentavano gli episodi appena accennati (vedi appendice bibliografica). Gli storici hanno allora inaugurato un dibattito sempre più serrato, che, però, non ha prodotto, come nell'Ottocento e nel primo Novecento, grandi sintesi di storia politico-religiosa, ma soprattutto monografie su personaggi, partiti, gruppi religiosi, ceti sociali. In sostanza si è cercato prima di tutto di comprendere il numero, le caratteristiche e le motivazioni dei contendenti. In questa scelta hanno influito non soltanto la necessità di aggirare la corrente braudeliana, che deteneva ancora leve del potere accademico ed editoriale, ma anche le nuove tendenze storiografiche: la riscoperta dell'elemento individuale nella storia (o quantomeno della possibilità di ovviare con le biografie alla stanchezza di un mercato librario stremato dalle grande sintesi); l'attenzione ai fattori religiosi e politici, una volta ritenuti meramente accessori.
Alcune di queste opere hanno avuto successo innestandosi in un sistema mediatico più ampio. Il filone che, dopo il 1980, ha rivalutato i Valois (a lungo considerati i "cattivi" della vicenda) ha preparato la strada al film La regina Margot (Patrice Chereau, 1994). Quest'ultimo ha rilanciato l'ennesima ristampa del romanzo di Alexandre Dumas, al quale è ispirato, e ha anche sollecitato due biografie (di buon peso scientifico) della prima moglie di Enrico IV. L'attenzione per il ruolo dei Valois ha comportato la rilettura di migliaia di fonti a stampa e archivistiche e ha fatto sì che oggi sappiamo quasi tutto sui singoli elementi del conflitto, ma ne abbiamo perso la visione complessiva. Proprio quella che cercheremo di ritrovare nelle pagine che seguono, descrivendo non soltanto i singoli attori e i singoli episodi, ma anche il palcoscenico sul quale si recita il dramma, nonché ovviamente la trama generale di quest'ultimo.

Lo scenario delle guerre di religione

Lo scenario in questione è ovviamente la Francia, ma non quella che noi conosciamo. I Valois hanno rafforzato e allargato il regno, ma esso è più piccolo dell'odierna nazione. L'Artois, le Fiandre, l'Alsazia, il ducato di Lorena, la Franca Contea sono in mano agli Asburgo, mentre parte della Provenza è controllata dal duca di Savoia. Avignone e il contado venassino appartengono al papa; il Béarn è indipendente e il suo signore si fregia del titolo di re di Navarra.
Questi confini incerti, parzialmente assestati dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559), generano costanti frizioni: con la Spagna, che ha già sconfitto la Francia nel lungo duello tra Francesco I di Valois e Carlo V d'Asburgo; con il papa, che vuole affermare la propria autorità sul clero francese; con i Lorena, i Savoia e i signori del Béarn; infine con i principati tedeschi e i cantoni svizzeri. La contrapposizione con questi ultimi è inasprita dalle differenze religiose. I principi tedeschi sono luterani, ma la loro fede è un affare di stato come quella del re francese. Inoltre la comune opposizione agli Asburgo li avvicina. A Ginevra invece batte il cuore della Chiesa riformata, che non vuole compromessi con la corona francese e cerca di penetrare in Francia, da dove Giovanni Calvino è fuggito alla metà del decennio 1530-1540.
Queste tensioni internazionali si riverberano sulle vicende francesi. Lo scontro con la Spagna ha visto la sconfitta dei Valois e mortificato le aspirazioni della monarchia e della grande nobiltà. Le energie nobiliari ora non sono più scaricate verso l'esterno e provocano un crescente attrito tra i grandi clan nobiliari. Il conflitto rischia di coinvolgere anche la corona: questa infatti ha tentato per decenni di porsi al di sopra della mischia e di sciogliersi da ogni vincolo feudale, creando una struttura statale centralizzata e affidando ad amministratori di origine borghese le più importanti cariche di governo, ma la débâcle le ha tolto credibilità e soprattutto ha ridotto le sue forze.
Le dispute con il papa si ripercuotono su una Chiesa nella quale le tendenze gallicane sono forti sin dal Trecento. Il clero regolare e secolare, gli umanisti e la corte polemizzano spesso con Roma e dimostrano curiosità, se non simpatia per la Riforma protestante, tanto più che quest'ultima si è dimostrata un pericoloso nemico degli Asburgo. Tuttavia proprio le polemiche contro la Chiesa di Roma fanno precipitare la situazione, quando le idee luterane penetrano in alcune città francesi (Bordeaux, Lione e Montpellier) tra il 1523 e il 1526. Il re non vorrebbe perseguitare i fedeli del nuovo credo religioso, condannato dalla facoltà di teologia di Parigi nel 1521; il concordato di Blois (1516) lo spinge, però, ad ascoltare il papa. A più riprese Francesco I evita la condanna di personaggi in vista, ma nel 1529 iniziano i roghi. Le esecuzioni capitali aumentano nel decennio successivo, quando le pressioni papali si accompagnano all'ira del re perché i protestanti hanno osato affiggere manifesti ad Amboise, davanti al suo castello. Calvino e i suoi, i quali hanno cercato di radicalizzare la Riforma francese, devono fuggire, mentre scattano le prime persecuzioni di massa.
Dopo il 1540 i protestanti francesi aderiscono alle tesi di Calvino. Secondo l'ambasciatore veneziano Marino Cavalli nel 1546 i seguaci di quest'ultimo sono forti a Caen, Poitiers, La Rochelle e nella Provenza. Le persecuzioni si intensificano e generano i primi massacri: 3.000 valdesi del Luberon sono uccisi per ordine del parlamento di Aix nel 1545. Due anni dopo Enrico II succede a Francesco I e inasprisce la legislazione antiprotestante. Nel 1551 e nel 1557 emana gli editti di Châteaubriant e di Conpiègne, che prevedono l'istituzione di tribunali laici (più duri di quelli ecclesiastici) e la pena di morte. Nel solo 1552 i roghi ardono ad Agen, Nîmes, Parigi, Rouen, Tolosa e Troyes. Tuttavia il numero e il peso di quelli che sono chiamati ugonotti continua ad aumentare: nel 1558 quattro-cinquemila riformati pregano appena fuori delle porte di Parigi. A quest'assemblea non partecipano soltanto artigiani o mercanti, ma anche Antonio di Borbone, parente di Enrico II e re di Navarra. L'anno successivo Anne du Bourg, consigliere del parlamento di Parigi, chiede la cessazione delle persecuzioni, inasprite dall'editto di Écouen. Il parlamentare è giustiziato alla fine del 1559, ma il suo gesto rivela la penetrazione del movimento protestante nella stessa amministrazione.
A questo data gli ugonotti hanno già iniziato a coordinare la propria azione. Il 25 maggio 1559 i pastori delle Chiese riformate francesi si incontrano a Parigi e stilano una confessione di fede unitaria, ratificata da Théodore de Bèze per la Chiesa di Ginevra, da Giovanna d'Albret (moglie di Antonio di Borbone) per quella di Navarra e da Gaspard di Coligny per quella di Francia. Nel 1560 circa due milioni di francesi, il 10% della popolazione, sono ugonotti: una minoranza quindi, ma molto concentrata in alcune zone. I centri di La Rochelle, Montauban, Montpellier e Nîmes hanno fatto proseliti nella Linguadoca, nel Delfinato, nella Provenza, nella valle della Garonna, nel Béarn, nel Saintonge, nell'Aunis e nel Poitou. Inoltre gli ugonotti sono disseminati sulla costa dalla Bretagna a Nantes, in Normandia (Caen, Dieppe e Rouen) e a Parigi (il faubourg Saint-Germain è considerato una piccola Ginevra), Lione (che fa da ponte tra Ginevra e la valle del Rodano, l'Alvernia e il Vivarais), Meaux, Orléans (dove confluiscono i nobili ugonotti dell'Angiò, della Turenna e del Berry), Rouen.
La presenza ugonotta è rilevante soprattutto nelle città, dove è radicata tra gli artigiani, i mercanti, il mondo dei tribunali e i gradini (soprattutto inferiori) delle magistrature locali. A questi ceti urbani, che sono stati i primi a convertirsi, si aggiungono anche la piccola nobiltà della Linguadoca e della Guascogna e alcuni grandi lignaggi: Borbone/Condé, Caumont, Châtillon, Larochefoucauld. Queste famiglie costituiscono la vera forza della Chiesa riformata: detengono infatti posti di prestigio - sono nel Consiglio del re e amministrano vaste province - e possono arruolare armate personali. La loro adesione religiosa non ha sempre motivazioni limpide, anzi sembra un modo di opporsi ad altri clan nobiliari o di sfidare la casa reale, ma è incontrovertibile la loro volontà di creare un territorio ugonotto, semi-indipendente, unificando i propri vasti domini signorili. In questo progetto confluiscono così idealità religiose e aspirazioni feudali.
Di fronte alla crescita protestante la maggioranza della popolazione avverte con angoscia la fine dell'unità religiosa. Molte fonti ci rivelano la repulsione che i cattolici, soprattutto quelli dei ceti medio-bassi, provano per gli ugonotti. Questi infatti appaiono loro singolarmente avulsi dai costumi tradizionali. Per i cattolici gli ugonotti non sono quindi soltanto i distruttori dell'ordine costituito (religioso e politico), ma in quanto "estranei" alla tradizione mettono in pericolo l'identità francese o per lo meno le singole identità locali. I clan nobiliari cattolici condividono questi sentimenti, inoltre desiderano riguadagnare il controllo del paese, riportando la famiglia reale al ruolo di prima "inter pares" e allontanando dai centri di potere gli ugonotti.

Inizia il dramma

La morte di Enrico II, ferito mortalmente da Gabriel de Montgomery durante il torneo per festeggiare il matrimonio di Elisabetta di Valois con Filippo II di Spagna, accelera la crisi. Francesco II è un quindicenne malaticcio dominato dalla madre, Caterina de' Medici, e dalla moglie, Maria Stuarda. Quest'ultima è nipote del cardinale Carlo di Lorena e di Francesco, duca di Guisa. La regina madre e i Guisa si alleano e scacciano i favoriti di Enrico II: Diana di Poitiers e il conestabile Anne di Montmorency. Inoltre umiliano i Borbone, che pur rimanendo nel Consiglio del re non partecipano alle decisioni più importanti.
Montmorency e i Borbone non hanno la forza di reagire subito, ma una protesta più decisa è provocata dal modo in cui i nuovi padroni di Francia fanno fronte alla catastrofe finanziaria: Enrico II ha lasciato quaranta milioni di lire di debiti, dei quali venti esigibili subito. Il cardinale di Guisa licenzia perciò gli uomini d'arme impiegati dal re defunto, sopprime le pensioni conferite e infine revoca le alienazioni del dominio regio. Il bilancio migliora, ma queste misure colpiscono una nobiltà, già impoverita dalla caduta delle entrate feudali e dall'aumento delle tasse. Gli scontenti si raccolgono attorno ai Borbone e ai fratelli Châtillon (il cardinale Odet, vescovo di Beauvais; François, signore d'Andelot, colonnello generale della fanteria; Gaspard, signore di Coligny, ammiraglio di Francia), nipoti del conestabile Anne di Montmorency.
Tutti questi nobili sono protestanti e sono impensieriti dalle persecuzioni scatenate dal cardinale di Guisa: i proclami successivi al rogo di Anne du Bourg sono ancora più rigidi dell'editto di Écouen. La nuova leadership protestante non è abituata ad arrendersi ed organizza la resistenza. Le roccheforti ugonotte sono in stato d'allarme, nonostante i consigli di Calvino che vorrebbe un'agitazione legale, sostenuta dai principi di sangue e dai parlamenti. Inoltre i pubblicisti protestanti attaccano i Guisa, accusandoli di manovrare il giovane re, e propongono di nominare reggente Antonio di Borbone.
Nel febbraio 1560 i Guisa convincono Francesco II che si profila la minaccia di un colpo di stato. In effetti dal dicembre precedente Luigi di Condé arruola fuoriusciti per imprigionare i suoi avversari. Il complotto dovrebbe aver luogo il 16 marzo, però il re e i Guisa si sono rifugiati ad Amboise. I congiurati tentano di penetrarvi, ma sono catturati e impiccati sugli spalti del castello. Caterina de' Medici vorrebbe trovare un accordo con gli ugonotti, i Guisa invece sperano di schiacciarli e accusano pubblicamente Anne de Montmorency e Luigi di Condé. La regina madre nomina cancelliere del regno il moderato Michel de L'Hospital e con l'editto di Romorantin (maggio 1560) attenua la persecuzione contro i riformati. Questi ultimi occupano Lione, ma Antonio di Borbone li convince a rendere la città e si reca dal re con il fratello, che i Guisa fanno arrestare ad Orléans e condannare a morte il 26 novembre. La Francia è sull'orlo della guerra civile, ma la morte di Francesco II congela la situazione.

Carlo IX sale al trono

Carlo IX diviene re a undici anni il 5 dicembre 1560, mentre la madre assume la reggenza, avendo convinto i Borbone e i Guisa di essere l'unica che possa garantire la pace. La reggente non può, però, fronteggiare da sola la crisi finanziaria e deve convocare gli Stati Generali, che non sono più consultati dal 1484. L'assemblea si apre ad Orléans il 13 dicembre 1560 e rivela subito il contrasto tra i tre ordini. Il Terzo Stato reclama la riforma del clero, il mantenimento delle dottrine gallicane e una tregua, quanto meno temporanea. Il clero vuole reprimere l'eresia. La nobiltà concorda con il Terzo Stato nella critica del clero e in più condanna i Guisa, fautori del disordine. Inoltre nessuno dei tre ordini vuole ripianare a proprie spese il deficit della corona e tutti chiedono che sia regolata la questione della reggenza. Michel de L'Hospital promette la soppressione della venalità degli uffici, la proibizione di inviare denaro a Roma, il ritorno all'elezione dei vescovi e infine un concilio nazionale della Chiesa francese, ma non riesce a blandire i convenuti. Caterina sospende i lavori il 28 gennaio 1561, promettendo di riaprirli in estate a Melun, e ordina di cessare le persecuzioni religiose.
Nei mesi successivi la reggente continua a operare in favore degli ugonotti: il 13 marzo fa amnistiare Condé e il 24 accorda ad Antonio di Borbone il titolo di luogotenente generale del regno. Questi compromessi non sono approvati dai cattolici: il popolo parigino impedisce ai riformati di cantare i salmi nel Pré-aux-Clercs; Beauvais si rivolta contro il vescovo Odet de Châtillon, considerato troppo tollerante verso i calvinisti. La situazione è di nuovo critica, sia sul piano internazionale che su quello interno. Elisabetta di Valois avverte infatti la madre che l'esercito di Filippo II è pronto a intervenire, se la corona di Francia si converte al protestantesimo. Inoltre, nell'aprile 1561, il duca di Guisa si allea a sorpresa con Jacques d'Albon, maresciallo di Saint-André e antico protetto di Enrico II, e con Anne de Montmorency.
Caterina prende tempo. L'Hospital riunisce in giugno-luglio il parlamento di Parigi e il Consiglio del regno (formato dai pari, dai principi di sangue e dai grandi funzionari), in modo da far affrontare Coligny, la mente degli ugonotti, e il triunvirato Guisa/Saint-André/Montmorency. Ne esce l'editto del 30-31 luglio che chiede un aiuto finanziario ai cattolici, senza proibire esplicitamente il culto protestante. Intanto Caterina decide il 20 luglio 1561 di convocare un concilio nazionale della Chiesa cattolica. L'assemblea del clero si tiene a Poissy (31 luglio-14 ottobre 1561), ma il cardinale di Lorena evita che essa prenda il nome di concilio nazionale e impone che la discussione si limiti a come correggere gli abusi e alla necessità di un prestito alla corona.
Dal 1 agosto si riuniscono anche gli Stati Generali, ma a Pontoise e non più a Melun. La nuova sede è vicina a Poissy: L'Hospital va quindi da un'assemblea all'altra, battendo cassa e impegnandosi in giochi di equilibrismo. Il clero, per esempio, non vuol rompere con Roma e non vuol sovvenzionare il re. Ma Jacques Bretagne, portaparola del Terzo Stato, primo magistrato d'Autun e uno dei capi del protestantesimo in Borgogna, propone di ammortizzare il debito francese vendendo i beni della Chiesa cattolica. L'Hospital corre a Poissy e minaccia di acconsentire a quella proposta. Il clero china la testa e negozia l'accordo ratificato il 21 ottobre 1561: si impegna a pagare una rendita annua per riscattare i propri possedimenti da qualsiasi alienazione. Grazie a questo successo economico Caterina può rintuzzare il tentativo della nobiltà di portare a venti anni la maggiore età per i re, di riservare l'organizzazione della reggenza agli Stati Generali e in via provvisoria ai principi di sangue, di stabilire il controllo degli Stati Generali sulla pace, la guerra e le alleanze.
Nel frattempo il gioco si fa ancora più complicato. La reggente vuole dimostrare che desidera veramente la pace religiosa e autorizza la presenza di sudditi non cattolici a Poissy. A sorpresa il cardinale di Lorena l'appoggia, perché i Guisa vogliono guadagnare credito presso i principi tedeschi e al contempo isolare i calvinisti. Il 22 agosto Théodore de Bèze (1519-1605, futuro successore di Calvino) si presenta a Poissy, dove colloquia con i rappresentanti cattolici fra il 9 settembre e il 18 ottobre. Il nunzio apostolico a Parigi scrive al papa che ormai la Francia è perduta e che si deve formare con la Spagna una lega cattolica antifrancese. Invece l'esponente calvinista è beffato dal cardinale di Guisa: questi infatti tergiversa sino all'arrivo di Ippolito d'Este, legato romano straordinario. L'annunzio, fatto da quest'ultimo, dell'apertura del concilio di Trento impedisce ogni accordo tra le due Chiese.
Il cardinale di casa Guisa ha evitato ogni ipotesi pacificatoria. Tuttavia la pace è richiesta da ugonotti moderati, come il già citato Jacques Bretagne, e da quei cattolici, che vengono designati come i “politici”. Questi due gruppi disdegnano la guerra e pensano che le due religioni possano convivere nello stesso stato. Caterina de' Medici persegue per il momento la stessa idea, avendo ancora bisogno degli Châtillon contro i Guisa e Filippo II. Riprende quindi i contatti con Théodore de Bèze e con Coligny e accorda agli ugonotti il permesso di celebrare il loro culto, sia pure a particolari condizioni (editto di Saint-Germain, 17 gennaio 1562). Alla fine anche Roma accetta questo compromesso in cambio della promessa che i vescovi francesi possano recarsi al concilio di Trento.
La tregua dura comunque poco. Alla fine di gennaio il parlamento, i funzionari e l'Università di Parigi protestano contro l'editto e il loro appello è subito echeggiato da Aix, Digione, Grenoble e Tolosa. Persino il re di Navarra si allinea ai triunviri contro l'editto di Saint-Germain. Gli Châtillon abbondano la corte, mentre i Guisa trattano con i principi tedeschi un'alleanza anticalvinista. Il partito della pace è schiacciato fra le due fazioni nobiliari più estremiste ed abbandonato dalla corona.

La prima guerra di religione

Il 1 marzo 1562, al ritorno da un incontro con il duca Cristoforo di Würtemberg, Francesco I di Guisa guida l'assalto a un'assemblea di ugonotti, organizzata a Vassy nella Champagne senza rispettare le norme promulgate dall'editto di Saint-Germain. Sulla scia del primo sangue (70 morti e un centinaio di feriti) altri riformati sono uccisi a Sens e a Tours, nel Maine e nell'Angiò. Il 17 marzo il triunvirato impone alla reggente e a Carlo di trasferirsi da Fontainebleau a Parigi. Caterina chiede l'aiuto di Condé, ma questi fugge dalla capitale e inizia a capitanare la rivolta protestante.
La guerra assume presto un duplice aspetto: da un lato, è lo scontro tra due fazioni nobiliari, mosse l'un contro l'altra non soltanto da fattori religiosi; dall'altro questi ultimi determinano la partecipazione di vasti strati della popolazione, che esprimono il loro odio con massacri e distruzioni. Inoltre il conflitto non è soltanto interno alla Francia. Entrambi i contendenti hanno forti appoggi internazionali: i Guisa sono sostenuti dal re di Spagna, dal duca di Savoia e dal papa; Condé e Antonio di Borbone dall'Inghilterra e da qualche principe tedesco.
Nei primi scontri sono i riformati ad avere la meglio e conquistano Angers, Blois, Lione, Orléans, Tours e Valence. Caterina, che si è alla fine allineata ai Guisa, nota tuttavia con piacere l'indebolimento dei grandi feudatari. Antonio di Borbone muore il 17 novembre 1562. Il 19 dicembre, battaglia di Dreux, il conestabile di Montmorency e il maresciallo di Saint-André cadono in mano agli ugonotti e, subito dopo, Condé è catturato dal duca di Guisa. Nel frattempo la popolazione cattolica si solleva e massacra i protestanti di Gaillac, Meaux, Sens, Tolosa e Troyes.
La prima guerra di religione minaccia di indebolire il regno nel suo complesso. Il trattato di Fossano (2 novembre 1562), firmato dalla reggente e dal duca di Savoia, rende a quest'ultimo le cittadelle che Cateau-Cambrésis aveva dato alla Francia. L'accordo di Hampton Court fra la regina d'Inghilterra e i rappresentanti di Condé e delle città di Rouen, Dieppe e Le Havre prevede che i francesi diano quest'ultima in cambio di soldati e finanziamenti e che essa resti in mano inglese, finché non sia scambiata con Calais. I triunviri accusano Condé di svendere la Francia e assediano Rouen. L'assedio si protrae senza esiti e si caratterizza per l'estrema confusione. Prima di tutto per l'eterogeneità delle forze in campo: la città è difesa da riformati francesi, inglesi e scozzesi ed è assalita dagli armati dei Guisa, da mercenari luterani (tedeschi) e calvinisti (svizzeri), da protestanti francesi entrati a far parte dell'esercito regio. In secondo luogo perché Rouen è la più importante città del regno dopo Parigi e Caterina non vuole distruggerla, quindi fa in modo che le operazioni militari vadano a rilento.
Alla fine del 1562 le due schiere sono guidate dal duca di Guisa e dall'ammiraglio di Coligny, che domina la Normandia. Il primo assedia Orléans per tagliare le comunicazioni dell'avversario, ma è assassinato da Poltrot de Méré, un nobile del Saintonge. Il sicario, torturato, cambia più volte versione e dichiara, di volta in volta, di essere stato inviato da Calvino, da Théodore de Bèze, da Condé e infine da Coligny. Comunque Caterina, liberatasi del giogo guisardo, cerca la pace, temendo che i nobili ugonotti della Linguadoca e del Delfinato si confederino e aprano un secondo fronte. Condé e Montmorency si prestano alla mediazione e, nonostante l'opposizione di Coligny, fanno ratificare la pace di Amboise (19 marzo 1563).
L'accordo prevede il rinnovo delle concessioni agli ugonotti, ma ora esse sono formulate in modo da avvantaggiare quasi esclusivamente la nobiltà protestante. Il culto è libero nelle dimore dei signori che godono dei diritti di alta giustizia; per gli altri è permesso in una sola città di ogni baliato e solamente nei quartieri periferici. I ministri riformati e lo stesso Calvino accusano di tradimento il principe di Condé, ma questi non li ascolta. Unisce invece le sue truppe a quelle di Montmorency e riconquista Le Havre, obbligando gli inglesi a rinunziare a ogni pretesa sul suolo francese (pace di Troyes, 11 aprile 1564).
Nel frattempo la situazione interna non si è del tutto acquietata. Da un lato, i nobili ugonotti non rendono i beni della Chiesa cattolica, di cui si sono impossessati. Dall'altro, gli Stati Generali di Borgogna e il parlamento di Digione minacciano la secessione, se Carlo IX si schiera con i riformati. Infine l'imperatore, il re di Spagna e il duca di Savoia criticano l'accordo di Amboise e il papa attacca L'Hospital, che ha sconfessato il cardinale di Guisa. Caterina lascia correre le polemiche interne, mentre invoca le libertà gallicane per tacitare il papa e il re di Spagna. Intanto fa dichiarare maggiorenne il re tredicenne dal parlamento di Rouen e questi dichiara agli inviati spagnoli, savoiardi, imperiali e pontifici di voler far tutto il possibile per conservare la pace religiosa (febbraio 1564).
Caterina si mette all'opera per ricompattare il fronte interno, ritenendo di aver guadagnato respiro sul piano internazionale. Assieme al giovane re visita il paese, facendo registrare parlamento per parlamento l'editto di tolleranza. Nel corso del viaggio (marzo 1564-maggio 1566) le città sono pacificate, i magistrati troppo rigidi verso gli ugonotti sono rimossi e il parlamento d'Aix è addirittura sostituito in blocco. Inoltre l'editto emanato a Roussillon il 4 agosto 1564 ripete tutti i divieti ai calvinisti, ma garantisce anche i loro diritti, mentre la grande ordinanza di Moulins (febbraio 1566) limita il diritto di rimostranza dei parlamenti, la giurisdizione autonoma delle città e le competenze dei governatori delle varie province.

La seconda e la terza guerra

La regina madre e il re pensano di avere restaurato lo status quo, ma, nel frattempo, i riformati si insospettiscono per i colloqui di Caterina con la figlia Elisabetta, moglie del re di Spagna, e con il duca d'Alba (Bayonne, 14 giugno - 2 luglio 1565). In verità quest'ultimo ha proposto un'alleanza franco-spagnola contro gli ugonotti, ma Caterina si è limitata a un assenso generico, mai confortato dai fatti. Tuttavia i rapporti con la Spagna sono ormai un problema cruciale. I nobili ugonotti spingono per un intervento francese nei Paesi Bassi a fianco dei loro correligionari ribellatisi a Filippo II. Per forzare la corona tentano quindi di rapire il re a Meaux nel settembre 1567, in seguito assediano Parigi, dove si è barricata la corte, e provocano in tutte le zone riformate violenti moti anticattolici: è in questo contesto che ha luogo la "michelade" di Nîmes. I cattolici si sentono aggrediti e temono una cospirazione calvinista internazionale: sono quindi pronti a seguire i Guisa.
Inizia la seconda guerra di religione, nella quale Montmorency muore (11 novembre 1567), difendendo Saint-Denis contro gli ugonotti e i loro mercenari tedeschi, guidati da Giovanni Casimiro, figlio cadetto dell'Elettore palatino. Il comando delle truppe regie passa a Enrico, duca d'Angiò, terzogenito di Caterina, mentre le forze regie sono irrobustite da soccorsi spagnoli e pontifici. Dopo qualche mese è chiaro che nessuno dei contendenti è in grado di imporsi militarmente e la guerra termina con la pace di Longjumeau (23 marzo 1568), che conferma i termini dell'accordo di Amboise e obbliga la corona a licenziare i mercenari stranieri.
Per gli ugonotti è una piccola vittoria, che alla lunga si rivela dannosa. La regina madre non attribuisce infatti alcuna importanza alle scelte religiose e quindi al contrario di molti cattolici non si è mai sentita minacciata dai riformati. Ora invece teme che questi mirino a disarmare la monarchia e che portino un paese indebolito allo scontro con la Spagna. Appena firmata la pace, Caterina sconfessa L'Hospital, favorevole a un accordo politico con gli ugonotti, e nomina guardasigilli Jean de Morvilliers, vescovo di Orléans. Inoltre si appoggia nuovamente ai Guisa e in particolare al cardinale, che le ha proposto di organizzare un grande "partito", da affidare a Enrico d'Angiò, figlio prediletto della Medici.
Quest'ultima spera quindi di poter pacificare la Francia, grazie alla forza dei Guisa. Nel giro di pochi mesi sorgono invece nuove difficoltà. Nel 1568 muore Elisabetta di Valois e la regina madre perde così il proprio miglior agente alla corte spagnola. Inoltre la nuova politica religiosa fa salire la tensione del paese. Nell'autunno sono emanati due editti (28 settembre e 22 dicembre) che prevedono una sola religione, quella romana, pur concedendo la libertà di coscienza. I riformati protestano e il Consiglio del re, dominato dai Guisa, decide d'imprigionare Condé e Coligny, che fuggono e si rifugiano a La Rochelle. E' l'inizio della terza guerra.
Questa volta le truppe regie vincono le battaglie di Jarnac (13 marzo 1569) e di Montcour (3 ottobre 1569): nella prima muore Luigi di Condé, ucciso a tradimento per ordine di Enrico d'Angiò. Gli ugonotti sono inizialmente ridotti sulla difensiva, ma poi Coligny riesce ad avvicinarsi a Parigi, obbligando gli avversari a trattare. La corona infatti non ha più denaro per pagare i mercenari. Per di più l'entourage della regina è preoccupato per l'espansionismo spagnolo e offeso perché Filippo II ha sposato la figlia maggiore dell'imperatore, lasciando a Carlo IX soltanto la minore. I Guisa potrebbero opporsi alla pace, ma il giovane duca Enrico diviene l'amante di Margherita di Valois, sorella del re, e quest'ultimo lo scaccia di corte: visto lo scandalo, anche il cardinale pensa più prudente recarsi a Roma. Si giunge così all'ennesima tregua: l'editto di Saint-Germain dell'8 agosto 1570 rinnova le concessioni dell'editto di Amboise e concede quattro nuove piazzeforti ai protestanti.

Dall'intervento nei Paesi Bassi alla strage di s. Bartolomeo

Nella seconda metà del 1570 crescono a corte le spinte antispagnole, ma Caterina obietta che bisogna prima trovare nuovi alleati. Tenta quindi di accasare il figlio Enrico con Elisabetta d'Inghilterra. Non essendovi riuscita, offre la figlia Margherita ad Enrico di Navarra, divenuto il capo ufficiale degli ugonotti dopo la morte di Luigi di Condé. Le manovre dilatorie di Caterina sono, però, ostacolate da Carlo IX, ormai ventenne, che aspira a regnare autonomamente, e inoltre dai parenti fiorentini. Cosimo de' Medici è elevato nel 1569 alla dignità di granduca di Firenze contro il volere della Spagna. Per difendere il proprio potere propone quindi un'alleanza antispagnola a Ludovico di Nassau (fratello di Guglielmo, principe d'Orange, il più influente fra i ribelli dei Paesi Bassi) e a Carlo IX. Quest'ultimo apprezza la possibilità e invita a corte l'ammiraglio di Coligny per discuterne.
Gaspard di Coligny arriva a Blois nel settembre 1571 e offre la restituzione delle quattro piazzeforti, concesse agli ugonotti l'anno prima, in cambio dell'impegno della monarchia a battersi nei Paesi Bassi. Egli vorrebbe intervenire subito a fianco dei suoi correligionari, ma è invischiato nei progetti di Caterina per Enrico di Navarra e Margherita Valois. Arriva a corte anche Giovanna d'Albret, che vi muore il 9 giugno 1572, probabilmente di tubercolosi (ma Caterina viene sospettata di averla fatta avvelenare dal suo parrucchiere, ovviamente italiano). Prima di questo decesso le due regine stringono comunque, l'11 aprile, gli accordi necessari per il matrimonio. Alla notizia i cattolici fremono, soprattutto a Parigi, mentre i protestanti preparano, sia pure un po' timorosi, il viaggio verso la capitale.
Nel frattempo Coligny ha continuato a sollecitare il re per l'intervento nei Paesi Bassi. Alla fine vi ha addirittura inviato un piccolo corpo di spedizione, composto da volontari che sono fatti a pezzi dagli spagnoli il 17 luglio 1572. Coligny chiede al re di vendicare la sconfitta, ma, agli inizi d'agosto, il Consiglio di Stato si oppone a ogni iniziativa antispagnola. Mentre fervono i preparativi per il matrimonio di Enrico di Navarra, Coligny inizia a raccogliere un esercito privato. Caterina teme che queste truppe siano utilizzate in Francia e non nei Paesi Bassi e, in ogni caso, ritiene rischioso lo scontro con gli spagnoli. Decide quindi (ma probabilmente lo pensa dalla fine di luglio) che l'omicidio sia l'unico modo di sbarazzarsi di un alleato scomodo. L'attentato è concordato con Enrico d'Angiò e con Anna d'Este (per quest’ultima vedi la terza parte).
I congiurati aspettano la fine dei festeggiamenti per le nozze e falliscono il colpo. Il 22 agosto 1572 il sicario Maurevert ferisce soltanto l'ammiraglio. Caterina ed Enrico d'Angiò paventano quindi una rappresaglia immediata: i capi ugonotti sono infatti ancora a Parigi, dove si sono recati per le nozze di Enrico di Navarra, assieme al loro seguito. Dopo essersi consultati con i consiglieri più fidi, rivelano tutto a Carlo IX e lo forzano a terminare il lavoro, facendo massacrare gli ugonotti nella notte tra il 23 e il 24 agosto, la notte di s. Bartolomeo. Il piano prevede l'uccisione di Coligny e dei gentiluomini che lo assistono, nonché pochi altri omicidi mirati. Invece le guardie del re e gli uomini dei Guisa (che hanno finto di abbandonare la città la mattina del 23) scatenano un massacro senza precedenti.
Coligny è trafitto e scaraventato nella strada ai piedi del duca di Guisa, i suoi compagni sono uccisi e gli altri nobili ugonotti sono trucidati al Louvre. Pochi si salvano: Enrico di Condé, figlio di Luigi, ed Enrico di Navarra, perché sono parenti del re e accettano di abiurare (il primo obbedirà il 12 e il secondo il 26 settembre); qualcun altro è nascosto da conterranei cattolici; infine chi è alloggiato nel faubourg Saint-Germain fa a tempo a scappare. Il giorno successivo il popolo di Parigi, da settimane in ebollizione, devasta tutte le case che sospetta ospitare riformati e uccide questi ultimi, dopo averli seviziati senza riguardi per l'età o per il sesso.
Il 24 agosto il re proibisce di svaligiare le magioni private e il 25 vieta i massacri indiscriminati, ma le violenze cessano soltanto qualche giorno più tardi: sino al 26 agosto la stessa famiglia reale non osa uscire dal Louvre e il 29 vi sono ancora soprassalti di furore. Il bilancio è spaventoso: 600 dimore devastate e almeno 3.000 morti (su circa 200.000 abitanti) tra i parigini, più 60 nobili giunti per il matrimonio di Enrico di Navarra. Inoltre la strage non resta confinata nella cerchia delle mura parigine: mano a mano che la notizia si diffonde nel regno, i cattolici incrudeliscono contro i protestanti di altre città. Almeno 1.000 morti sono causate dai pogrom di Charité-sur-Loire (24 agosto), Orléans, Meaux e Bourges (25 e 26 agosto), Angers e Saumur (28 e 29 agosto), Lione (31 agosto), Troyes (4 settembre), di nuovo Bourges (11 settembre), Rouen (17 e 20 settembre), Tolosa (4 ottobre), Gaillac (5 ottobre) e infine Bordeaux (30 ottobre).
Caterina non comprende la portata di quello che ha scatenato, anzi cerca di riannodare i rapporti con Ludovico di Nassau e con i luterani tedeschi, dichiarando di aver decretato l'uccisione di Coligny perché questi minacciava la sicurezza dello stato. Anche il re ripete di aver reagito a un complotto ugonotto contro la sua famiglia e, per provarlo, fa arrestare Arnaud de Cavaignes e François de Briquemault, sfuggiti al massacro parigino: torturati, i due riformati rifiutano di avvalorare l'esistenza del complotto e vengono giustiziati il 21 ottobre a Parigi.
La tesi regia è echeggiata da molti scrittori cattolici, in Francia e all'estero, ma altrettanti, tra gli ugonotti e tra gli stessi cattolici, sospettano la premeditazione da parte della famiglia reale. Nelle corti europee e soprattutto a Roma, dove il papa non è convinto dell'utilità del massacro, nasce la leggenda nera dei Valois, che avrebbero finto di appoggiarsi a Coligny e a Enrico di Navarra per attirare a Parigi gli ugonotti e sterminarli tutti. Per molti contemporanei la notte di s. Bartolomeo non è quindi frutto di circostanze insieme prevedibili e casuali, ma l'ultimo atto di un piano concertato da lunga pezza.

La risposta dei riformati

Gli ugonotti sono duramente colpiti, ma si riorganizzano con rapidità. Il massacro rafforza la loro coesione interna e allo stesso tempo li libera da ogni legame di fedeltà verso la corona. La leadership ugonotta del decennio precedente, composta da nobili militari fedeli nonostante tutto al re e abituati a pensare in termini non esclusivamente religiosi, è ora scomparsa o ha abiurato. A Montauban, a Nîmes, nelle Cevennes, a Sancerre e a La Rochelle i riformati si stringono attorno ai pastori e proclamano la lotta senza quartiere contro i Valois. In quell'area geografica si forma una repubblica protestante, ispirata direttamente dalla Chiesa riformata e sostenuta dalla piccola feudalità turbolenta. Gli ugonotti che abitano in altre regioni emigrano verso le proprie piazzeforti, oppure fuggono in Germania, Svizzera e Inghilterra.
Nel settembre 1572 la guerra riprende. Due mesi dopo tutto il Midi protestante è in armi, mentre le truppe regie cercano invano di piegare la resistenza dei centri riformati. Dal 12 febbraio 1573 Enrico d'Angiò assedia La Rochelle, ma non riesce a penetrarvi. Quando è ancora sotto le sue mura, gli viene comunicato l'elezione a re di Polonia. Con la morte nel 1572 di Sigismondo Augusto II si è estinta la dinastia degli Jagelloni e i nobili polacchi hanno imposto la monarchia elettiva. Alla corona aspirano anche lo zar Ivan IV, l'arciduca Ernesto d'Asburgo, i Vasa di Svezia: Enrico d'Angiò, per essere prescelto, ha sottoscritto un accordo (pacta conventa, 1573) che lo obbliga a difendere la libertà di religione. I Valois non possono continuare a combattere gli ugonotti e quindi il conflitto francese si conclude con la pace di La Rochelle (24 giugno 1573), che concede ai protestanti condizioni meno favorevoli di quelle del 1570, ma riconosce comunque la loro esistenza.
La partenza di Enrico per la Polonia offre uno spazio di manovra al figlio più piccolo di Caterina, Francesco duca di Alençon. Questi, sino allora emarginato dalla madre e dai fratelli, si mette alla testa dei malcontenti. Sotto quest'etichetta si raccolgono nobili cattolici che si sentono esclusi a favore dei Guisa e degli italiani legati alla regina madre, oppure ugonotti che non vogliono la dissoluzione del regno, ma il riconoscimento dei propri diritti. I malcontenti riprendono quindi alcune parole d'ordine dei già menzionati politici, inoltre desiderano la ripresa della politica antispagnola, una volta cara ai Valois. Carlo IX decide di soddisfarli e appoggia nell'inverno del 1573 Ludovico di Nassau, ma il tentativo fallisce.

La morte di Carlo IX

L'intervento nei Paesi Bassi è una delle ultime decisioni del re, che muore il 30 maggio 1574. Caterina riprende le redini del regno e sollecita il pronto rientro di Enrico dalla Polonia, mentre contro di lei si scatena l'odio degli ugonotti e il disprezzo dei malcontenti. Enrico di Valois fugge dal suo regno polacco nella notte tra il 18 e il 19 giugno, fa quindi tappa a Vienna, Venezia, Padova, Ferrara, Mantova, Torino e infine giunge a Lione, dove si incontra, il 6 settembre 1574, con la madre. Quest'ultima è scontenta della lentezza con cui si muove il figlio, nonché della sua decisione di sposare una nobile francese di non distinta casata.
La situazione francese non è infatti particolarmente favorevole al nuovo re. Sin dal mese precedente Henry de Montmorency, maresciallo di Damville e governatore della Linguadoca, ha confederato i cattolici scontenti e gli ugonotti del sud-ovest. Damville è accusato, forse a torto, di aver partecipato a un complotto per liberare il duca di Alençon ed Enrico di Navarra, virtualmente prigionieri a corte, e ha giocato d'anticipo. Ora non soltanto chiede la conferma dei suoi privilegi, ma propugna anche la riforma della monarchia e disconosce i diritti dell'erede di Carlo IX.
Enrico si fa consacrare a Reims e spera di isolare Damville. Invece il 15 settembre 1575 il duca di Alençon fugge dal Louvre, aiutato dalla sorella Margherita, e si accorda con il governatore della Linguadoca e con Enrico di Condé, che ha riacquistato da tempo libertà di movimenti. Sarebbe forse possibile evitare la guerra concedendo qualche privilegio al fratello cadetto del re e a Damville, ma Caterina preme per una soluzione di forza.
Scoppia così la quinta guerra di religione. L'esercito del re è formato soprattutto di mercenari stranieri; quello dei ribelli da soldati francesi, inoltre gode dell'appoggio del già citato Giovanni Casimiro, che invade la Champagne assieme a Condé. Il 10 ottobre 1575 Enrico di Guisa blocca i ribelli a Dormans e tuttavia i confederati continuano ad avvicinarsi a Parigi, mentre la corona non ha denaro per pagare i suoi mercenari. Enrico III e Caterina devono quindi accettare la pace di Étigny (7 maggio 1576). Il successivo editto di Beaulieu concede: al duca di Alençon il ducato d'Angiò, di cui prende il titolo, la Turenna e il Berry; a Damville il governo della Linguadoca; a Condé la piazzaforte di Saint-Jean-d'Angély; agli ugonotti la libertà di culto, tranne a Parigi, e otto fortezze; a Giovanni Casimiro un riscatto di 6.000.000 di lire tornesi e una pensione annua di altre 40.000 lire, oltre a nove signorie in Borgogna, il ducato d'Étampes e il feudo di Château-Thierry.
L'autorità della corona regredisce di secoli: la Francia torna a sfaldarsi in grandi e piccoli potentati. Per giunta, Enrico di Borbone e la Navarra tornano al protestantesimo, vista la debolezza di Enrico III. Anche i cattolici più intransigenti si rivoltano contro il re, accusato di aver ceduto senza combattere. Sin dagli anni 1560-1570 i cattolici hanno formato leghe locali (ad esempio ad Angers, Digione, Bourges e Troyes) per contrastare gli ugonotti: ora queste associazioni si organizzano su scala più grande. Jean d'Humières, governatore di Péronne, non si sottomette a Condé, nuovo governatore della Piccardia, e assieme ad altri funzionari e nobili fonda la Lega piccarda. Parigi formicola di associazioni di mestiere e di gruppi della borghesia cittadina (soprattutto funzionari e uomini di legge) che formano milizie per lottare contro gli eretici: nasce una Lega, che si distingue per i tratti antiaristocratici. In Borgogna, Champagne, Linguadoca e Nivernais i nobili cattolici organizzano altre associazioni cattoliche e preparano una nuova guerra. Il capo naturale del leghismo cattolico è Enrico, duca di Guisa. Questi dichiara di discendere da Carlo Magno e si comporta da monarca: tratta direttamente con Filippo II, che aiuta nel 1577 nei Paesi Bassi e dal quale ottiene in cambio forti sovvenzioni.
Enrico III tenta di imitare la strategia della madre nel decennio precedente e di strappare la mano ai Guisa: si propone quindi come capo naturale delle forze cattoliche, tanto più che sta svanendo l'opposizione da parte dei malcontenti, guidati dal fratello minore. Il 6 dicembre 1576 gli Stati Generali si riuniscono a Blois. Questa volta c'è un solo rappresentante riformato: gli altri vogliono il ristabilimento dell'unità religiosa e politica e l'espulsione dei pastori protestanti. Formalmente la maggioranza si dichiara per una restaurazione pacifica, ma la guerra è già iniziata nel Saintonge, nelle Alpi e nelle Cevennes.
Il fronte cattolico non è comunque compatto. Il Terzo Stato resiste alle pressioni degli altri due ordini, che sono con lui soltanto nel rifiutare soldi per il re, e fa capire che la Lega esagera. Alcune città importanti, come Amiens e Chalons, hanno infatti iniziato a opporsi alle prepotenze dei leghisti. Il Terzo Stato ottiene alla fine una legislazione che rafforzi l'autorità delle istituzioni e della nobiltà di roba. La grande ordinanza "sur le fait de la police générale du royaume" prevede, per esempio, la riorganizzazione dell'economia francese, che dovrebbe essere amministrata da una sorta di servizio statale controllato da funzionari di origine borghese. Tale progetto non è ovviamente realizzato, anche se è in parte reiterato (e cambiato) dagli editti del 1577, 1579 e 1581: resta comunque come monumento e testimonianza delle aspirazioni del patriziato urbano. Mostra infatti come le finalità politiche di questo ceto siano, almeno per il momento, differenti da quelle della nobiltà di spada.
Nel frattempo prosegue la sesta guerra di religione iniziata sotto tono nel 1576. Tutti i raggruppamenti si suddividono ulteriormente e aumenta la tendenza all'anarchia generalizzata e alla distruzione di ogni autorità. Paradossalmente sono gli ugonotti a pagarne le spese, nonostante la loro apparente compattezza ideologica: in realtà per resistere ai Guisa si sono impegnati in una serie di alleanze che li ha portati molto lontani dalle originarie aspirazioni religiose e che li ha legati ad alleati assai infidi. Il duca d'Angiò li abbandona, prende loro La Charité-sur-Loire e devasta Issoire, la Ginevra dell'Auvergne. Anche Damville si schiera dalla parte del re. Per giunta i figli di Coligny e gli abitanti di La Rochelle non vanno d'accordo con Enrico di Navarra e permettono a Carlo di Lorena, duca di Mayenne e cadetto dei Guisa, di riprendere Brouage, il porto del sale. Il 15 settembre 1577 gli ugonotti accettano la pace di Bergerac, a loro sfavorevole: l'editto di Poitiers permette di nuovo il loro culto soltanto in una città per baliato.

Proseguono gli intrighi

Alla fine del decennio 1570-1580 la Francia è divisa secondo cesure regionali, religiose, politiche e sociali che si sommano o si oppongono tra loro, in modi spesso dettati dalle situazioni locali e dalle strategie dei singoli clan nobiliari. Il re e Caterina de' Medici stimolano l'anarchia generale in modo da indebolire equamente alleati e nemici. E' questo il periodo nel quale la corte francese si guadagna l'attenzione degli specialisti del pettegolezzo e in effetti gli argomenti scandalistici abbondano: i favoriti (e non soltanto dal punto di vista politico) del re e i loro duelli contro gli uomini dei Guisa, del nuovo duca d'Angiò e del re di Navarra; lo "squadrone volante" delle dame al servizio di Caterina e i loro amori, spesso calcolati per corrompere un avversario o per convincere un alleato titubante; l''attitudine "scandalosa" di Margherita, ancora moglie del re di Navarra, ma non per questo disposta a rinunciare alla propria autonomia esistenziale e soprattutto intellettuale. I cattolici intransigenti e gli ugonotti non hanno che da sbizzarrirsi per vilipendere la cerchia di Enrico III.
Enrico di Navarra diviene alla fine il capo del partito ugonotto, tuttavia non cessa di far intendere ai cattolici moderati la propria disponibilità a ogni compromesso. Nel frattempo Caterina tenta di legare con tutti e sfrutta la figlia Margherita come messaggero di pace o elemento di tensione. Nel 1578 il re intraprende un viaggio per la Francia, a imitazione di quello di Carlo IX nel decennio precedente. Tra l'autunno di quell'anno e la fine della primavera del successivo visita tutte le province meridionali e convince Enrico di Navarra a non attaccare direttamente la corona. Il buon esito di questi incontri favorisce la monarchia in occasione della settima guerra di religione, originata dalle lotte tra i favoriti del re e da una nuova fuga del duca di Angiò. Questa volta non si combatte soltanto tra ugonotti e cattolici, ma tra centri regionali in lotta per la preminenza: è il caso per esempio della Provenza, divisa tra due fazioni che hanno poco a che vedere con gli schieramenti nazionali. Inoltre la logica delle alleanze religiose salta completamente: così i protestanti del Delfinato ignorano i propri confratelli e trattano con il duca di Savoia e con Filippo II.
Il conflitto è concluso dalla pace di Fleix (26 novembre 1580), che permette al duca di Angiò di cercare nuove avventure nei Paesi Bassi e alla regina madre di lanciarsi nell'arena portoghese. Dopo la morte di Sebastiano, ultimo re del Portogallo, Caterina tenta di dimostrare di essere l'unica erede legittima di Alfonso III (defunto nel 1279!). Tale pretesa non ha alcuna base, ma i portoghesi accettano l'appoggio francese contro le mire espansionistiche spagnole. Le manovre della regina madre e quelle del duca di Angiò spingono la Francia in rotta di collisione con la Spagna e contrastano i disegni dei Guisa.

La stretta finale

La morte improvvisa del duca di Angiò il 10 giugno 1584 spezza le trame dei Valois per annettersi i Paesi Bassi e il Portogallo, allo stesso tempo crea gravi problemi dinastici. Enrico III è chiaramente incapace di avere un erede diretto e i suoi tre fratelli sono morti senza prole. Gli unici eredi della corona sono dunque Enrico di Navarra e il cardinale Carlo di Borbone. Il primo ha dal punto di vista genealogico le carte in regola, ma è il capo dei protestanti: i leader cattolici, sobillati dai Guisa, formano dunque la Santa Unione per impedirgli l'accesso al trono.
Il duca di Guisa stringe ulteriormente i rapporti con la Spagna e sottoscrive tra il 31 dicembre 1584 e il 2 gennaio 1585 un patto segreto a Joinville. La potente casata si impegna a combattere le manovre dei Valois e a imporre come successore di Enrico III il cardinale di Borbone; Filippo II si impegna a pagare 50.000 scudi mensili alle truppe dell'Unione. Forte di questo accordo, Enrico di Guisa lancia a Péronne un proclama in nome del cardinale di Borbone (30 marzo 1585) e condanna tutti coloro che minacciano la religione cattolica e lo stato, siano essi ugonotti, “politici”, cioè cattolici moderati e favorevoli a un compromesso, favoriti del re o il monarca stesso.
Il 7 luglio Enrico III cede ai Guisa: con il trattato e l'editto di Nemours ritratta ogni norma a favore dei riformati e offre all'Unione piazzeforti, governatorati, pensioni e pagamento di mercenari. Gli ugonotti sono politicamente in una posizione di stallo, ma il 9 settembre una bolla pontificia cancella Enrico di Navarra e Condé dalla discendenza del re cristianissimo. Il parlamento di Parigi insorge contro l'intromissione di Sisto V nella politica francese e una raffica di pamphlet ugonotti contrari al papa trova ascolto persino tra i cattolici gallicani.
Nel dicembre 1586 Caterina tenta di trattare personalmente con Enrico di Navarra, proponendogli di tornare al cattolicesimo. Dopo aver ricevuto un rifiuto, rientra a Parigi e convince Enrico III a schierarsi sino in fondo con i Guisa. La Francia si divide in due: il nord-est è guisardo e il sud-ovest ugonotto. Inizia l'ultima guerra di religione, che coinvolge tutta l'Europa occidentale. Le truppe di Enrico di Navarra sono pagate con denaro inglese e danese e al loro fianco combattono gli svizzeri e i tedeschi arruolati dal solito Giovanni Casimiro. Le sorti dei Guisa sono invece legate alla Spagna, mentre Enrico III estorce finanziamenti e truppe al pontefice.
Il re di Navarra disperde le forze avverse a Coutras il 20 ottobre 1587. I Guisa tuttavia non cedono e nell'arco di un mese vincono a Vimory e ad Auneau, nel Gâtinais. Nel frattempo Enrico III e Caterina cercano di intavolare trattative segrete con Enrico di Navarra e diventano sempre più sospetti agli occhi dei cattolici e soprattutto del popolo parigino. Nel maggio del 1588 quest'ultimo accoglie trionfalmente Enrico di Guisa e stringe d'assedio il Louvre: il 12 Caterina convince Enrico III a fuggire a Chartres. Enrico di Guisa è in apparenza il padrone di Parigi, ma la città si dà un proprio ordinamento, poco disponibile alle strategie dei grandi di Francia.
Caterina resta nella capitale e opera per riannodare i rapporti tra il duca di Guisa e il re: quest'ultimo acconsente a nominare il primo suo luogotenente generale (editto del 15 luglio 1588), a riconoscere Carlo di Borbone come parente più prossimo, a condannare nuovamente il culto calvinista e ad indire una riunione degli Stati Generali. Caterina ed Enrico III accettano questo accordo, perché pensano che l'Inghilterra stia per essere invasa dall'Invincibile Armata. L'inattesa sconfitta spagnola rende libertà d'azione al re, che licenzia i ministri legati alla madre e ai Guisa e durante la riunione degli Stati Generali (settembre-ottobre) si mostra poco incoraggiante verso il futuro dell'alleanza franco-spagnola. Infine il 23 dicembre alcuni suoi fedeli uccidono nel castello di Blois Enrico di Guisa e catturano il fratello cardinale, che spacciano il giorno successivo. Nel frattempo sono arrestati il cardinale di Borbone e alcuni esponenti della Lega cattolica. Caterina è sorpresa dalla manovra del figlio, ma è gravemente malata e si spenge il 5 gennaio 1589.
Enrico III è ormai affrancato da ogni tutela e nell'aprile 1589 incontra a Tours Enrico di Navarra. Intanto Parigi non gli apre le porte e si trasforma in una repubblica cattolica retta dal Consiglio dei Sedici (dal numero degli "arrondissements" della città), che provvede a una violenta epurazione dei sospetti di simpatie ugonotte. Navarra e Enrico III avviano la riconquista della Francia e muovono alla volta di Parigi. Le forze cattoliche tentano invano di opporsi: Sisto V ordina che il re si rechi a Roma, pena la scomunica; la Sorbona dichiara che la Francia è sciolta da ogni obbligo di fedeltà verso un monarca che ha tradito la vera fede; il duca di Mayenne raccoglie le forze dell'Unione cattolica. Tutto sembra inutile: le truppe ugonotte e quelle regie si schierano attorno a Parigi, ma il 1 agosto 1589 Jacques Clément pugnala Enrico III.
L'ultimo dei Valois muore designando Enrico di Navarra come suo successore. I leghisti rispondono consacrando il cardinale di Borbone come Carlo X; questi, però, è prigioniero di Enrico IV, re di Navarra e di Francia, che lo ha ereditato dal Valois. Il nuovo re controlla perciò il gioco dinastico, gli sfugge invece gran parte del regno, anche se l'appoggio dei soldati suoi e del suo predecessore, nonché di 4.000 inglesi, e i copiosi sussidi versatigli dalle Province Unite dall'aprile del 1588 gli permettono di prepararsi a conquistare la Francia.
Enrico IV si rivela ottimo stratega. Sul piano diplomatico promette di farsi istruire alla religione cattolica e riserva ai cattolici il comando delle principali roccaforti (dichiarazione di Saint-Cloud, 4 agosto 1589). Sul piano militare prende Dieppe, un mese dopo la morte di Enrico III; quindi respinge Mayenne ad Arques (21 settembre 1589) e punta su Parigi, ma è a sua volta fermato dal rientro di Mayenne. Si muove allora alla volta di Tours: da questa città attacca poi Le Mans, Laval, Lisieux, Honfleur e prepara il blocco di Rouen e una nuova spedizione su Parigi. Il 9 maggio 1590 muore il cardinale di Borbone e cinque giorni dopo Enrico, ormai senza rivali dinastici, spezza ad Ivry l'armata dell'Unione. Stringe quindi d'assedio Parigi, dove l'8 agosto scoppia una sommossa per aprirgli le porte. La rivolta è guidata dai più rispettabili borghesi: il consiglio dei Sedici reagisce con durezza e alcuni capi (o pretesi tali) degli insorti sono giustiziati, mentre altri fuggono. Tutto ciò non basterebbe a salvare la città, senza l'intervento del re di Spagna, preparato sin dal settembre dell'anno precedente. Alla fine di luglio Alessandro Farnese, duca di Parma, lascia i Paesi Bassi alla testa di 20.000 uomini: il 19 settembre giunge a Parigi e la strappa ad Enrico.

La guerra con la Spagna

Dopo la vittoria Farnese rientra nei Paesi Bassi, ma truppe spagnole restano in Francia e tengono in scacco Enrico IV. Tuttavia lo sforzo economico è devastante per Filippo II. Il monarca spagnolo ha versato alla Santa Unione 1.000.000 di corone tra il 1582 e il 1587 e 2.000.000 tra il 1588 e il 1590; nel quinquennio successivo ne elargisce 2.500.000. A queste aggiunge il sussidio al duca di Savoia, che dal 1589 riceve 5.000 corone al mese, affinché rivendichi di essere nipote di Francesco I e occupi tutta la Provenza, e le spese per una guarnigione di 1.000 uomini a Parigi e per le truppe di stanza in Savoia, Linguadoca, Franca Contea e in Bretagna, dove un altro Guisa, Filippo Emanuele, duca di Mercoeur, gli ha aperto le porte. La corona iberica si rovina e, per controllare la Francia, rischia di perdere i Paesi Bassi. Inoltre il suo intervento coagula attorno ad Enrico IV quei francesi, anche cattolici, che non vogliono vedere il proprio paese smembrato dagli spagnoli.
Filippo II vorrebbe infatti unire la Piccardia alle Fiandre spagnole e assegnare la Bretagna all'infanta e la Provenza a Carlo Emanuele di Savoia. A tal scopo pensa di tacitare Enrico di Navarra, concedendogli il Béarn e la Guascogna. Il navarrino dovrebbe, però, divenire suo vassallo. Enrico non accetta e prosegue a battersi, sostenuto da Elisabetta d'Inghilterra, dalle Province Unite, dalla Svizzera e dai principi tedeschi del Brandenburgo, Sassia, Würtemberg, Assia e Palatinato. Nel frattempo reitera le sue avances ai cattolici.
Questi ultimi iniziano a dividersi, tanto più che Sisto V, prima di morire, ha rivelato le sue perplessità riguardo alle aspirazioni spagnole. Inoltre il duca di Mayenne, che mira alla corona francese, teme che Filippo II la voglia per la figlia. Contemporaneamente non si sente molto sicuro di Parigi: nel novembre 1591 il Consiglio dei Sedici decreta l'impiccagione di alcuni magistrati e afferma in modo esplicito che è il popolo a fare i re. Mayenne impicca gli istigatori di quei processi e per tutto il 1592 combatte proprio coloro che sono più decisamente avversi a Enrico IV, ma che a questo punto minacciano le ambizioni dinastiche dei Guisa.
Alla fine del 1592 il duca spera di risolvere l'intrico sposando l'infanta. Inoltre decide di promuovere gli Stati Generali per suffragare le proprie aspirazioni. L'assemblea si tiene al Louvre nel gennaio 1593, ma molte province non inviano rappresentanti, perché vogliono il ritorno alle antiche libertà. Inoltre, proprio durante gli Stati Generali, si viene a sapere che Filippo II sta trattando il matrimonio della figlia con l'arciduca Ernesto d'Austria: se Isabella di Spagna riceve in dote la corona francese, la Francia diverrà una provincia asburgica. Questa prospettiva incrina l'alleanza fra i Guisa e il re spagnolo.
Nell'aprile 1593 si incontrano a Suresne i rappresentanti dei Guisa e di Enrico IV: alla riunione partecipa anche una delegazione parigina venuta espressamente per promuovere la pace. Pierre d'Épinac, arcivescovo leghista di Lione, e Roland de Beaune, arcivescovo filo-realista di Bourges, valutano congiuntamente la possibile conversione del re ugonotto. Inoltre il 28 giugno il parlamento di Parigi chiede al duca di Mayenne di opporsi alle manovre spagnole. Filippo II intravede il pericolo e offre la figlia ai Guisa, ma Beaune lo brucia sul tempo e, il 25 luglio, riceve a Saint-Denis l'abiura di Enrico IV.
Buona parte degli ugonotti prosegue ad appoggiare il proprio antico leader, mentre ampi settori della nobiltà e della borghesia cattolica si decidono a sostenere Enrico contro gli spagnoli. Il 27 febbraio 1594 è quindi consacrato re dalla Chiesa cattolica francese e il 22 marzo Parigi gli apre le porte. La folla, che lo acclama, richiede a gran voce l'allontanamento dei soldati valloni e spagnoli di stanza in città. Quando il sovrano giunge a Notre-Dame, le truppe di Filippo II fuggono. Infine il 22 aprile la facoltà di teologia della Sorbona, che sino ad allora ha sempre o quasi appoggiato la Lega, riconosce a Enrico il titolo di re cristianissimo.
Il nocciolo duro della Lega resiste e conta sul rifiuto del papa di accettare la conversione di un eretico relapso. Inoltre si affida al pugnale dei sicari, ma Enrico sfugge al tentativo di Jean Châtel. Il parlamento di Parigi approfitta dell'avvenimento per ottenere l'espulsione dei gesuiti (l'attentatore è un loro ex-allievo) e per invitare tutti i francesi a sostenere il nuovo re. Il fallito attentato coagula quindi un protonazionalismo antispagnolo e antiromano, ormai ampiamente diffuso tra le élite nobiliari e borghesi. Attenua inoltre le prevenzioni contro gli ugonotti e permette una convivenza se non pacifica, quanto meno non troppo bellicosa.
Il 17 gennaio 1595 la Francia dichiara guerra alla Spagna. Enrico IV sconfigge gli spagnoli e le truppe del duca di Mayenne, governatore della Borgogna, a Fontaine Française. Gli stessi gesuiti capiscono che il vento è girato e appoggiano la richiesta dei cardinali d'Ossat e Du Perron di togliere la scomunica al re di Francia. Il papa acconsente: il 17 settembre 1595 assolve il sovrano francese e demolisce le ultime speranze dell'Unione. I capi della Lega, i duchi di Mayenne e di Guisa in testa, iniziano a trattare. Nell'estate 1595 Guisa consegna a Enrico IV Reims e poi comanda in nome del re la riconquista della Provenza. Tra la fine del 1595 e l'anno successivo le città aprono le loro porte al lo sire in cambio di privilegi di vario tipo. La nobiltà si accorda egualmente con il nuovo sovrano, talvolta spinta, come in Guascogna, Guienna, Limousin e Périgord, dalla rivolta dei contadini esasperati per i lunghi anni di guerra.
Quest'ultima non è, però, finita. Filippo II riprende l'offensiva e gli spagnoli calano dai Paesi Bassi su Cambrai e Calais: nel marzo 1597 conquistano Amiens e minacciano la stessa Parigi. Nel settembre dello stesso anno il duca di Mayenne e il duca di Biron riconquistano, però, Amiens in nome del re, mentre le truppe spagnole attestate in Bretagna sono alla fame. Agli inizi del 1598 Mercoeur, l'ultimo dei Guisa ad appoggiare gli spagnoli, tratta con Enrico IV il matrimonio della propria figlia e di César de Vendôme, figlio del re e di Gabrielle d'Estrée. Il 2 maggio 1598 il trattato di Vervins ratifica l'insuccesso di Filippo II. La Savoia tenta da sola di difendere le proprie conquiste, ma è alla fine obbligata a cedere (pace di Lione, 1601).

Conclusione

Il dopoguerra non si rivela facile. Una congiuntura economica e demografica favorevole ha permesso al regno di non soffrire troppo il primo trentennio di guerre, ma l'ultimo decennio del secolo ha segnato l'inizio della crisi. Il lento decrescere della produzione agricola, aggravato dalle distruzioni di guerra, porta l'arresto demografico e la recessione economica. L'inflazione aumenta e divora la sicurezza (già minima) dei poveri. Inoltre la situazione religiosa non è del tutto tranquilla. Enrico IV accorda agli antichi correligionari un parziale riconoscimento della libertà di culto e il possesso di alcune piazzeforti (editto di Nantes, 13 aprile 1598). Tuttavia gli ugonotti non stanno meglio, né sono più tranquilli di quanto lo fossero nel 1576 dopo la pace di Étigny. Sul fronte cattolico le concessioni ai riformati (e la speculare riammissione dei gesuiti) irritano i parlamenti che si sentono esautorati e resistono a lungo prima di iscrivere gli articoli dell'editto di Nantes.
In mezzo a queste difficoltà Enrico IV dimostra una grande abilità. Mira, in primo luogo, a rimettere in piedi la struttura economica: si guadagna così l'appoggio dei ceti produttivi, dai borghesi delle città commerciali alla popolazione delle campagne. Sfrutta inoltre l'aspirazione generale alla pace e all'unità per reprimere ogni forma di agitazione sociale, dal banditismo rurale alle pretese signorili. Impone infine la costruzione di uno stato accentrato, in grado di contrastare ogni tentativo (feudale, borghese o contadino) di separatismo.
Al fianco del re due calvinisti, Maximilien de Béthune, duca di Sully dal 1606, e Barthélemy Laffémas, mettono ordine nelle spese, riducono il debito, ricreano il tesoro e organizzano un embrione di esercito nazionale, arruolando i veterani delle guerre civili, che costano meno dei mercenari e sono più sicuri. Inoltre bonificano, costruiscono strade, facilitano gli investimenti nella terra (diminuendo la tassa sulla proprietà fondiaria) e al contempo operano per la nascita di una manifattura di stato, nonché avviano la colonizzazione del Nuovo Mondo. Insomma la Francia si avvia a divenire una grande potenza.
Tuttavia le acque non si calmano del tutto. Da una parte, le tensioni religiose covano sotto le ceneri, anche se gli ugonotti sono molto diminuiti di numero (sono 1.250.000 contro i 2.000 di quaranta anni prima). Dall'altra, l'opposizione a Enrico III ha fatto meditare sulla possibilità, anzi la necessità, di uccidere i re che non rispettino i propri doveri. Questi due elementi confluiscono nell'atto di François Ravaillac, che pugnala nel 1610 Enrico IV, temendo una congiura contro i cattolici sul modello (rovesciato) della strage di s. Bartolomeo. La morte del re rilancia le tendenze separatiste, religiose e nobiliari, e ripiomba la Francia in contrapposizioni che spariscono soltanto sotto Luigi XIV, a scapito di ogni forma di tolleranza politica e religiosa.
A ben guardare l'editto di Nantes segna quindi soltanto la fine della fase più acuta del conflitto tra cattolici e protestanti. In realtà lo scontro non è risolto neanche dalle dragonnades di Luigi XIV: riesplode durante la rivoluzione francese e innerva vari episodi della vita politica francese dell’Otto e del Novecento secolo (si pensi alla campagna presidenziale tra Chirac e Jospin e al continuo scontro tra i due durante il mandato del primo). D'altronde nelle stesse guerre di religione del Cinquecento si possono scorgere alcune costanti della storia francese, che trovano origini nei secoli precedenti: le tendenze centrifughe e i contrasti dei clan nobiliari, ma anche la rivendicazione di autonomia politica e religiosa dell'area occitanica, in particolare la Linguadoca, contro l'accentramento voluto dall'Ile de France. Lo iato di alcuni secoli fra lo sviluppo dell'eresia catara e quello della chiesa riformata non permette alcun raffronto diretto, ma è comunque interessante notare come le rocche albigesi e quelle protestanti spesso coincidano.
Potremmo quindi rovesciare uno degli assunti di Braudel e affermare che la notte di s. Bartolomeo non spezza lo sviluppo della Francia, proprio perché in qualche modo ne enuclea una delle tendenze più profonde: la contrapposizione geografica, politica e religiosa fra le élite del paese, ma anche la loro tendenza ad allearsi di fronte ad una minaccia esterna. Per i cattolici gli ugonotti sono antropologicamente alieni, per gli occitanici gli uomini del nord sono degli stranieri; tuttavia entrambi preferiscono un re francese - qualsiasi cosa voglia dire questo aggettivo in un'epoca che non conosce la nostra accezione di nazionalità - a uno spagnolo.

Nota bibliografica

La bibliografia sulle guerre di religione in Francia è enorme; limitiamoci quindi alle opere più recenti. Per il Cinquecento francese in generale, si può iniziare con: Howell A. Lloyd, La nascita dello stato moderno nella Francia del Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1986; F.J. Baumgartner, France in the Sixteenth Century, New York, St. Martin's Press, 1995; Emmanuel Le Roy Ladurie, Lo Stato del re. La Francia dal 1460 al 1610, Bologna, Il Mulino, 1999. Per i Valois: Jean Jacquart, François Ier, Paris, Fayard, 1981; E. Bourassin, Charles IX, Paris, Arthaud, 1986; Pierre Chevallier, Henri III, Paris, Fayard, 1985; Mack P. Holt, The Duke of Anjou and the Politique Struggle During the Wars of Religion, London-New York, Cambridge University Press, 1986. I personaggi femminili della famiglia reale sono molto studiati: basti ricordare le biografie di Caterina de' Medici di Ivan Cloulas (tr.it., Firenze, Sansoni, 1980) e Jean Orieux (tr.it., Milano, Mondadori, 1987) e quelle di Margherita di Valois di Éliane Viennot (tr.it. Milano, Mondadori, 1994) e Janine Garrisson (Paris, Fayard, 1994). Per lo scontro tra clan nobiliari: Nancy Lyman Roelker, Queen of Navarre: Jeanne d'Albret, 1528-1572, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1968; J. Shimizu, Conflict of Loyalities: Politics and Religion in the Career of Gaspard de Coligny, Admiral of France, 1519-1572, Genève, Droz, 1970; Jean-Marie Constant, Les Guise, Paris, Hachette, 1984; Raymond A. Mentzer, Blood and Belief: Family Survival and Confessional Identity Among the Provincial Huguenot Nobility, West Lafayette, Purdue University Press, 1994. Per l'opposizione tra nobiltà e Corona: Arlette Jouanna, Le devoir de révolte. La noblesse française et la gestation de l'État moderne, 1559-1661, Paris, Fayard, 1989, e Un programme polique nobiliaire: les Mécontents et l'État (1574-1576), in L'état et les aristocraties (France, Angleterre, Écosse) XIIe-XVIIe, a cura di Philippe Contamine, Paris, Presses de l'École Normale Supérieure, 1989, pp. 247-277. Per Enrico IV sono utili le biografie di Jean-Pierre Babelon (Paris, Fayard, 1982) e Janine Garrisson (Paris, Seuil, 1984), nonché Ronald S. Love, The Symbiosis of Religion and Politics. Reassessing the Final Conversion of Henri IV, "Historical Reflections/Reflexions Historiques", 21, 1 (1995), pp. 27-56.
Per l'importanza del fattore religioso, si ricorra a Denis Crouzet, Les guerriers de Dieu, Seyssel, Champvallon, 1990. Per la Chiesa riformata: Jean Delumeau, La Riforma, Milano, Mursia, 1975; Janine Garrisson, Histoire des protestants en France, Toulouse, Privat, 1977, e Protestants du Midi (1559-1598), ivi, 1980. Per Parigi e la Lega: F.J. Baumgartner, Radical Reactionaries: The Political Thought of the French Catholic League (1588-1594), Genève, Droz, 1976; Élie Barnavi, Le parti de Dieu, Paris-Louvain, Nauwelaerts, 1980; Robert Descimon, Qui étaient les Seize?, Paris, Klincksieck, 1983; Denis Richet, De la Réforme à la Révolution, Paris, Aubier, 1991; Jean-Marie Constant, La Ligue, Paris, Fayard, 1996. Thierry Wanegffelen, Ni Rome ni Genève. Des fidèles entre deux chaires en France au XVIe siècle, Paris, Honoré Champion, 1998, studia coloro che non si vollero schierare né con il papa, né con Calvino. Sulla percezione cattolica dei protestanti, confronta W.J. Naphy, Catholic Perceptions of Early French Protestantism: The Heresy Trial of Baudichon de la Maisonneuve in Lyon, 1534, "French History", 9, 4 (1995), pp. 451-477.
Sulle guerre in generale è utilissimo Édits des guerres de religion, a cura di André Stegmann, Paris, Vrin, 1979. Si vedano inoltre: Pierre Miquel, Les guerres de religion, Paris, Fayard, 1980; Henri Lapeyre, La Francia dei Valois e le guerre di religione, in La Storia, V, L'età moderna, 3, Stati e Società, Torino, UTET, 1986, pp. 123-143; M. Pernot, Les guerres de religion en France (1559-1598), Paris, SEDES, 1987; la riedizione di Georges Livet, Les guerres de religion, Paris, PUF, 1988; Janine Garrisson, Guerre civile et compromis, 1559-1598, Paris, Seuil, 1991 (Nouvelle Histoire de la France, II); Mack P. Holt, The French Wars of Religion 1562-1629, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. Sulla notte di s. Bartolomeo: Janine Garrisson, La Saint-Barthélemy, Bruxelles, Complexes, 1987; Jean-Louis Bourgeon, Pour une histoire enfin de la Saint-Barthélemy, "Revue Historique", 282 (1989), pp. 83-142, e L'Assassinat de Coligny, Genève, Droz, 1992; Barbara Diefendorf, Beneath the Cross. Catholics and Huguenots in Sixteenth Century Paris, Oxford, Oxford University Press, 1991; Marc Venard, Arrêtez le massacre!, "Revue d'histoire moderne et contemporaine", 39 (1992), pp. 645-661; Denis Crouzet, La Nuit de la Saint-Barthélemy. Un Rêve perdu de la Renaissance, Paris, Fayard, 1994. Sulla dimensione internazionale del conflitto e la risonanza del massacro: M.N. Sutherland, The Massacre of Saint Bartholomew and the European Conflict, 1559-1572, London, MacMillan, 1973; Geoffrey Parker, The Dutch Revolt, London, Penguin, 1985; Robert M. Kingdom, Myths about the St. Bartholomew's Day Massacres, 1572-1576, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988. Sulle aspirazioni antispagnole di molti francesi, si veda Myriam Yardeni, La conscience nationale en France pendant les guerres de religion (1559-1598), Paris, Louvain, 1971. Per la questione delle libertà gallicane, si ricorra ad Aimé-Georges Martimor, Le gallicanisme, Paris, PUF, 1973. Sull'editto di Nantes la bibliografia è ricchissima; citiamo solo due opere apparse per il quattrocentenario: Janine Garrisson, L'Édit de Nantes. Chronique d'une paix attendue, Paris, Fayard, 1998; Coexister dans l'intolérance: l'Édit de Nantes (1598), a cura di Michel Grandjean e Bernard Rousset, "Bulletin de la Société d'histoire du protestatisme français", 144 (1998). Sul regno di Enrico IV, vedi infine Mark Greengrass, France in the Age of Henri IV, New York, Longman, 1995.
In italiano non si è pubblicato molto sulle guerre di religione, ma i pochi lavori di italiani sono di ottima qualità: Vittorio De Capraris, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, Napoli, ESI, 1959; Corrado Vivanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1963. Per i rapporti tra il papato e la Francia durante le guerre di religione si vedano i voll. V-X della Storia dei Papi di Ludwig von Pastor, le voci Caterina de' Medici, Renato Birago, Camillo Capilupi, Anna, Ippolito e Luigi d'Este del Dizionario Biografico degli Italiani, nonché Pierre Hurtubise, Comment Rome apprit la nouvelle de la Saint-Barthélemy, "Archivum Historiae Pontificiae", 10 (1972), pp. 187-209 e i volumi della serie "Acta Nuntiaturae Gallicae" edita dall'Ecole Française e dall'Università Gregoriana di Roma. In particolare, tra questi ultimi, si consulti la Correspondance du nonce en France Antonio Maria Salviati (1572-1578), a cura di Pierre Hurtubise e Robert Toupin, Rome, Université Pontificale Grégorienne-École Française de Rome, 1975. Sempre di Hurtubise si cerchi Mariage mixte au XVIe siècle. Les circostances de la première abjuration d'Henri IV à l'automne de 1572, "Archivum Historiae Pontificiae", 14 (1976), pp. 103-134. Un'altra fonte sulla notte di s. Bartolomeo è stata curata da John Tedeschi: Tommaso Sassetti, Il massacro di San Bartolomeo, Roma, Salerno, 1995. Sull'azione e la corrispondenza dei nunzi in Francia durante le ultime fasi delle guerre di religione, si può partire da Anne-Cécile Tizon-Germe, Juridiction spirituelle et action pastorale des légats et nonces de France pendant la Ligue (1589-1594), "Archivum Historiae Pontificiae", 30 (1992), pp. 159-230. Per il dibattito politico ispirato dalle guerre, si leggano l'introduzione di Saffo Testoni Binetti a Stephanus Junius Brutus, Vindiciae contra Tyrannos. Il potere legittimo del principe sul popolo e del popolo sul principe, Torino, La Rosa, 1994, e Michel de L'Hospital, Pace religiosa e ordine politico, a cura di Luigi Gambino, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1995, nonché le pagine relative in Quentin Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, II, Bologna, Il Mulino, 1989, e Paolo Prodi, Il sacramento del potere, Bologna, Il Mulino, 1992.
Sulla rete è disponibile abbastanza materiale, soprattutto bibliografie, testi d'epoca e cartine: per una buona ricerca si può partire da http://www.lepg.org.

Parte II

Spagna, Olanda e Inghilterra

Come abbiamo visto l'andamento delle guerre di religione francesi non è soltanto determinato dagli avvenimenti interni, ma subisce prepotentemente l'influsso di quelli esterni al regno. In primo luogo la politica di Filippo II, ma anche i due fronti che vedono questi impegnato contro gli inglesi e gli olandesi. L'incastro di questi elementi è stato variamente saggiato dalla letteratura storiografica otto-novecentesca, tuttavia vale qui la pena di ripercorre le linee principali della strategia del sovrano spagnolo e poi vedere come quest'ultima non abbia funzionato, soprattutto nel caso inglese e olandese. A proposito della rivoluzione olandese, verranno riassunte le vicende della Rivoluzione sino al 1598, mentre per il conflitto fra Spagna e Inghilterra l'attenzione sarà focalizzata sul solo, emblematico episodio dell'Invincibile Armata.

Filippo II

La morte di Filippo II (1527-1598) chiude il secolo dell'espansione spagnola. Il regno iberico va allora dal Vecchio al Nuovo Mondo. In Europa comprende la penisola iberica, Napoli e Milano, e i Paesi Bassi. In Africa è attestato a sud-est e sud-ovest dello stretto di Gibilterra. Nelle Americhe occupa il subcontinente centro-meridionale, il Messico e la Florida. In Asia include le Filippine. La maggior parte di questo impero è frutto delle conquiste e delle strategie matrimoniali dei re precedenti. Filippo vi ha soltanto aggiunto il Portogallo e le Filippine. In compenso ha dovuto continuamente difendere i propri domini dalle pressioni interne ed esterne.
Al tradizionale nemico francese, temuto persino durante le guerre di religione (vedi la prima parte), si sono infatti aggiunti altri agguerriti avversari. I Paesi Bassi in rivolta hanno impegnato le armate di Filippo in una guerra senza fine, che, per sventura dei successivi re spagnoli, continuerà sino alla metà del secolo successivo (vedi più avanti). Gli inglesi hanno sfidato pervicacemente Filippo, depredandone galeoni e avamposti americani. Infine hanno preso le parti degli olandesi nel 1585 e inflitto alla Spagna una significativa sconfitta sul mare (vedi più avanti). L'impero ottomano è stato infine il nemico più lontano, ma anche più pericoloso. Ha continuato a minacciare traffici e terre spagnole persino dopo la sconfitta di Lepanto (1571): ha infatti conquistato nel 1574 Tunisi e nel 1576 quasi tutto il Marocco. La sua sola presenza ha vincolato la Spagna alla difesa del Mediterraneo e le ha impedito di schiacciare gli olandesi e gli inglesi.
Le spinte centrifughe non sono state meno dannose. La stessa rivolta olandese è in fondo espressione di esse, ma non va dimenticato che tutta la vicenda iberica è allora contraddistinta dalla turbolenza interna: si pensi al brigantaggio catalano o alla resistenza aragonese. Inoltre tutti i domini spagnoli chiedono maggiori privilegi o un miglior trattamento politico-fiscale: è il caso ancora dei Paesi Bassi, ma anche delle proteste italiane, in particolare siciliane. Infine le colonie americane hanno sempre preteso di essere aiutate, senza mai rinunciare alle rivendicazioni autonomistiche (si pensi all'agitazione endemica in Perù e all'insurrezione messicana del 1565) e soprattutto al contrabbando, che lede i diritti economici della madrepatria.
Proprio la vicenda americana ci mostra quale è stato il vero problema di Filippo II. Egli ha dovuto infatti amministrare un impero assai vasto, le cui componenti a malincuore hanno contribuito alle enormi spese amministrativo-militari. La sola campagna navale di Lepanto è costata 800.000 ducati alla Spagna e 400.000 all'Italia spagnola. La difesa del Mediterraneo ha comportato bilanci oscillanti tra i 700.000 ducati e il milione e mezzo. Per l'esercito nei Paesi Bassi si è arrivati a spendere più di 3.700.000 ducati l'anno. Infine la sconfitta dell'Invincibile Armata ha vanificato un investimento di oltre dieci milioni di ducati.
Per secoli gli storici hanno spiegato che i tesori americani hanno permesso alla Spagna di finanziare la strenua difesa dei propri confini. Tuttavia i diplomatici veneziani del tempo sono convinti che i domini nelle Americhe non rendevano quanto serviva a Filippo: "la nuova Spagna detta il Perù, et altre isole, che son situate fuor dello stretto di Gibilterra, dette l'Indie, sono ricchissime e d'oro e d'argento, e di perle, mà con tutto ciò non danno a S. M.à maggior' benefitio, che di 500 mila scudi l'anno" (Antonio Tiepolo).
L'America offre alla madrepatria giusto quello che la Spagna stessa produce, anzi meno. Michele Soriano calcola nel 1560 che le entrate della Corona iberica sono pari a cinque milioni di scudi (quindici anni più tardi sono aumentate di appena mezzo milione, ma nel 1598 raggiungono i nove milioni settecento mila): mezzo milione viene dalle Indie tutte (e quindi Soriano vi include anche il frutto dei domini nel Pacifico), un altro mezzo dalla Spagna, due dai possessi italiani - equamente ripartiti fra Milano e Napoli - e due dai Paesi Bassi e dalle Fiandre. L'Italia e i Paesi Bassi sono perciò la chiave di volta dell'impero, sborsando quattro milioni sui cinque annualmente incassati.
I veneziani sottolineano quanto questa cifra sia lontana dai sei milioni di uscita necessari nei rari anni di pace. Il bilancio imperiale è quindi sempre in rosso e il deficit cresce, quando Filippo difende i suoi domini. D'altra parte rinunciare a tale difesa comporterebbe la perdita di cospicue entrate, soprattutto nel caso dei Paesi Bassi. Filippo II cerca allora di rastrellare denaro aumentando le tasse sino al 140% e indebitandosi. Purtroppo i prestiti alla Corona erodono implacabilmente le entrate, tanto che alla morte del re gli interessi sul debito pubblico sono pari all'85% di quelle.
Filippo è probabilmente impreparato a gestire una situazione così esplosiva. Il padre lo ha fatto educare in Spagna per frenare le rivendicazioni di quest'ultima, che non voleva un regnante straniero. Filippo II manca quindi del respiro europeo di Carlo V, inoltre la sua educazione è molto ritardata, tanto che a sette anni non sa leggere, né scrivere. Agli inizi degli anni 1540 Filippo è comunque un perfetto spagnolo: nel 1543 diviene reggente di Spagna e si sposa con Maria di Portogallo, rinnovando l'alleanza già ratificata dalle nozze del padre e della madre Isabella. Il suo orizzonte è quindi ristretto alla sola penisola iberica. Nel 1548 Carlo decide perciò di farsi raggiungere dal figlio nei Paesi Bassi e di completarne l'istruzione politica.
Nel frattempo la prima moglie di Filippo è morta (1545), dando alla luce il figlio Carlos. Il reggente di Spagna è quindi utilizzabile per nuovi accordi dinastici. Carlo V pensa allora di farlo sposare con una principessa francese, ma nel frattempo lo manda a vedere l'Italia, la Germania e i Paesi Bassi.
Il matrimonio francese non riesce e nel 1554 Carlo V fa sposare il figlio con Maria Tudor, regina d'Inghilterra. Nel 1555 gli affida i Paesi Bassi e nel 1556 lo designa re di Spagna, anche se Filippo rimane in Europa settentrionale sino al 1559. Spera infatti di mantenere il controllo dell'Inghilterra, che tuttavia gli sfugge, quando la moglie spira nel 1558. In quell'anno muore anche Carlo V, dopo un biennio di convulse lotte contro i francesi. Filippo riesce a conchiudere la pace a Cateau-Cambrésis in una posizione di netto vantaggio, ma deve ormai decidere da solo.
Il suo lungo regno ha caratteristiche diverse da quello paterno. In primo luogo Filippo non ha i domini asburgici, né il titolo imperiale, che vanno allo zio Ferdinando. In secondo luogo non vuole essere un sovrano itinerante, come era stato il padre, e accentra a Madrid il controllo di tutti i territori regi. In terzo luogo è deciso a governare da solo. Accentra quindi tutto nelle proprie mani. In breve la mole di lavoro diviene enorme e dal 1573 Filippo deve farsi aiutare da un segretario particolare, che smista la corrispondenza in arrivo e risponde alle questioni di minor importanza. In ogni caso varie testimonianze sottolineano come il re passi allo scrittoio otto o nove ore ogni giorno.
Nel 1570 Filippo sposa Anna d'Austria, che muore dieci anni più tardi dopo avergli dato sette figli, tra i quali sopravvive soltanto il futuro Filippo III. La situazione dinastica non è quindi delle più sicure. Inoltre il re è in difficoltà su molti fronti. In particolare teme di perdere il controllo religioso della Spagna: per questa ragione, a partire dal 1570, appoggia con sempre maggior decisione l'Inquisizione (lotta ai conversos, gli ebrei convertitisi, e ai cripto-protestanti) e la persecuzione dei moriscos (insorti nel 1569 e deportati nel 1571). Con lo stesso impegno sostiene nelle colonie i missionari che tentano di estirpare i culti indigeni.
In questo periodo inizia a paventare congiure familiari contro il legittimo erede.
In precedenza ha già provveduto al primogenito Carlos. Questi era affetto da gravi turbe psichiche, che peggioravano ad ogni assenza del padre. Nel 1560 si ammala gravemente, forse di malaria. Poi perde la vista per una caduta dalle scale e la recupera grazie a un'operazione cranica, che, però, ne aggrava i problemi mentali. Filippo si allontana allora dal figlio, disperando di farne un re: Carlos reagisce abbandonandosi a terribili scoppi d'ira. Infine si prepara a fuggire, forse alla volta dei Paesi Bassi (1567), ma il padre lo fa rinchiudere. Il principe intraprende lo sciopero della fame e i suoi carcerieri lo lasciano morire d'inedia.
Dopo la dipartita di Carlos, Filippo si preoccupa soprattutto del fratellastro Giovanni d'Austria. A tal scopo ricorre ad Antonio Perez, che utilizza Juan de Escobedo, segretario di don Giovanni, per impedire qualsiasi tentativo di usurpare il potere. Senonché Escobedo inizia a ricattare Perez, minacciando di rivelare tutto, e nel 1578 il re ordina di pugnalarlo, dando il via a una penosa querelle. Perez è accusato di essere il mandante dell'omicidio, ma il sovrano lo fa condannare solo a una pena pecuniaria. Nuove rivelazioni compromettono, però, la posizione di Perez, che nel 1590 è condannato a morte. Riesce, però, a fuggire nella natia Aragona e accusa Filippo di aver ordito nell'ombra l'assassinio di Escobedo. Il tentativo di farlo tacere con la forza provoca la sollevazione dell'Aragona: deve intervenire l'esercito, che doma la rivolta nell'ottobre del 1591. Perez passa in Francia, dove muore in miseria nel 1611: ha, però, nel frattempo pubblicato più versioni delle Relaciones sulle male azioni del re.
Tali avvenimenti non contribuiscono al buon nome del sovrano, tanto più che la crescita del debito pubblico e l'aumento delle imposte si accompagnano a una nuova crisi agricola e al progressivo impoverirsi del paese. Il malcontento popolare genera sommosse e persino nella capitale scoppiano tumulti. La situazione non è migliore sul fronte internazionale. Filippo non è infatti riuscito a piegare inglesi, olandesi e turchi. Inoltre la sua vita si chiude sulla pace di Vervins, che riconosce nuovamente alla Francia lo status di grande potenza.
Gli stessi spagnoli criticano il re appena morto. Inoltre le Relaciones di Perez diffondono in tutta Europa il ritratto di un sovrano meschino e crudele. Questo stereotipo è oculatamente sviluppato dagli scrittori francesi e inglesi del secolo successivo, magari aggiungendovi qualche accusa tratta dall'Apologia (1581) di Guglielmo d'Orange. Nel tardo Settecento due tragedie, Filippo di Vittorio Alfieri (1783) e Don Carlos di Friedrich Schiller (1787), confermano l'immagine negativa del personaggio. Nel secolo successivo è quindi facile siglare la sua definitiva condanna. Per gli storici anglo-protestanti diviene dunque il despota per antonomasia e questo giudizio influenza la cultura novecentesca. E' infatti ripreso dagli storici e reiterato dai romanzieri, che, a loro volta, servono di base a film di successo che esaltano i corsari inglesi di Elisabetta, come difensori della libertà.
Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, Fernand Braudel e Geoffrey Parker sottolineano le difficoltà di governare un impero di quelle dimensioni e cercano di cancellare i tratti più grotteschi del tradizionale ritratto di Filippo II. Più recentemente una parte della storiografia spagnola, ispirata dal revanscismo del nuovo governo di destra, ha tentato di rivalutarlo per aspetti, quali la centralizzazione e il cattolicesimo integralista, che erano stati condannati dagli storici liberali. Ne è seguita la riproposizione dell'antico stereotipo, sia pure a potenzialità rovesciata. Per molti versi Filippo II resta quindi un personaggio storico ancora da scoprire.

La rivoluzione olandese

Nella prima metà del Cinquecento i Paesi Bassi sono una parte dell'eredità borgognona che Carlo V ingrandisce e unifica. Essi comprendono 17 province, il cui territorio complessivo corrisponde agli odierni Belgio, Olanda, Lussemburgo più alcune regioni della Francia Settentrionale: Fiandre francesi, Hainaut e Artois. Queste ultime costituiscono tre province distinte cui si aggiungono altre regioni di analoga grandezza (Brabante, Limburgo, Lussemburgo, Zelanda, Olanda, Gheldria, Overijssel, Frisia) e i territori di alcune città (Anversa, Groninga, Malines, Namur, Utrecht, Zutpen).
L'intero territorio è retto da un organismo federativo, gli Stati Generali, che ha sede a Bruxelles, dove alloggia anche il governatore generale nominato da Carlo V. Le decisioni degli Stati Generali devono, però, essere ratificate dai singoli Stati provinciali, composti dai deputati della nobiltà, del clero e delle città locali. Inoltre le singole province sono a loro volta rette da un governatore (stathouder) con autonomi poteri.
Sotto Carlo V i Paesi Bassi godono di una notevole autonomia e di un forte prestigio: essi hanno infatti assistito il suo acquisto del trono imperiale e i grandi esponenti della loro nobiltà sono tra i consiglieri dell'imperatore. Quest'ultimo d'altronde è, per cultura e affetti familiari, un borgognone e quindi più vicino ai Paesi Bassi che alla Spagna. Tali legami sono evidenti nella stessa scelta del governatore generale: a Bruxelles delega infatti la zia Margherita di Asburgo, anche lei allevata nel ricordo della grandezza borgognona.
Come abbiamo visto, Filippo II è invece educato in Spagna e non considera i Paesi Bassi come il centro della propria eredità. Li ritiene piuttosto un ricco dominio periferico, da sfruttare come meglio gli aggrada. Dopo la sua ascesa al trono spagnolo, gli aristocratici dei Paesi Bassi non contano più niente a corte, mentre nelle loro province aumenta la pressione fiscale spagnola.
Dopo il trattato di Cateau-Cambrésis (1559), i Paesi Bassi divengono per gli spagnoli una marca di frontiera da presidiare senza tanti riguardi verso la popolazione locale. Questa soffre quindi doppiamente le vessazioni di una guarnigione insolente e irrispettosa degli antichi privilegi della grande nobiltà locale. La tensione sale quando il nuovo governatore generale, Margherita di Parma, sorellastra di Filippo II, chiama sì alcuni nobili a far parte della sua giunta, ma di fatto segue soltanto i consigli di una ristretta cerchia designata dal re spagnolo.
La nobiltà e il patriziato urbano sono allora progressivamente emarginati dai centri di potere e paventano la crescente intolleranza religiosa. Da decenni infatti nei Paesi Bassi settentrionali si è diffuso il calvinismo, ma l'autonomia locale ha impedito l'applicazione rigida delle leggi contro l'eresia. Filippo e Margherita di Parma non rispettano invece la moderazione tradizionale e il loro attacco stimola la resistenza dei riformati e minaccia di far esplodere una situazione sino allora abbastanza tranquilla.
Le prime proteste sono eminentemente politiche. I grandi signori - tutti cattolici, come il conte di Egmont, il conte di Hoorn e Guglielmo di Nassau, principe d'Orange - si scontrano con il principale consigliere di Margherita di Parma, Antoine de Granvelle, cardinale-vescovo di Malines, e ne ottengono nel 1564 l'allontanamento. A questo punto essi si aspettano l'ammorbidimento della legislazione anti-protestante e maggior rispetto dei propri privilegi, ma nel 1565 Filippo II ordina d’intensificare la repressione e fa capire che non è disposto a dar loro retta.
Tra il 1565 e il 1566 alcuni esponenti del fronte nobiliare cercano di incontrare il re, ma ogni confronto viene evitato dal re di Spagna e dai suoi rappresentanti. I nobili dei Paesi Bassi sono anzi ingannati e irrisi: il 3 aprile Carlo di Berlaymont, consigliere della governatrice, li definisce pubblicamente "pezzenti" (gueux). Il mancato accordo con le autorità regie spinge i nobili cattolici a trattare con la borghesia calvinista del Nord. Due giorni dopo l'insulto, il 5 aprile 1566 è firmato il compromesso di Breda, cui segue, il 14 luglio dello stesso anno, l'alleanza di Saint-Trond, vero e proprio accordo antispagnolo tra cattolici e calvinisti. Il conte di Egmont cerca ancora una volta di raggiungere il re, ma il suo tentativo di mediazione cade nel vuoto. La protesta è ora pronta ad esplodere e i suoi esponenti si autodefiniscono "pezzenti", a simboleggiare il loro reciso rifiuto di ogni compromesso.
In realtà l'alleanza tra cattolici e calvinisti non funziona al meglio. Nell'agosto 1566 i calvinisti scatenano un violento moto che non minaccia tanto gli spagnoli, quanto i cattolici. Nell'arco di qualche mese la violenza spontanea si coagula in una parvenza di sollevazione armata, che Filippo II decide di reprimere duramente. Nel 1567 giunge quindi nei Paesi Bassi Fernando Alvarez di Toledo, duca d'Alba, uno dei migliori generali spagnoli.
Guglielmo di Orange, nel frattempo avvicinatosi ai riformati, abbandona i Paesi Bassi e si rifugia in Germania, dove cerca di formare un vero esercito. La grande aristocrazia cattolica spera ancora di trattare con i rappresentanti della Spagna, ma l'armata del duca d'Alba è un esercito invasore che non vuole dar quartiere ad alcuno. Il suo generale teorizza infatti la terra bruciata come metodo per spengere qualsiasi spinta antispagnola e anticattolica.
Il duca non ha soltanto l'autorità di un governatore generale, ma anche il titolo di vicerè e pieni poteri per estirpare l'eresia. Non rispetta quindi l'autonomia dei governi provinciali, che anzi guarda con sospetto per aver protetto quello che egli ritiene un pericoloso moto ereticale. Non tratta perciò con la nobiltà locale e crea un tribunale speciale, definito dagli olandesi Bloedraad (consiglio sanguinario), che condanna a morte quasi 8.000 persone. Tra questi vi sono anche i conti d'Egmont e di Hoorn, accusati di essere i principali responsabili della sommossa e decapitati sulla Piazza Grande di Bruxelles il 5 giugno 1568.
La stessa Margherita di Parma teme che si sia andati troppo oltre, alienandosi completamente i Paesi Bassi. Il duca d'Alba tiene duro e respinge con facilità un nuovo sollevamento, provocato dal rientro dell'Orange. Alla fine del decennio i Paesi Bassi sembrano quindi in mano alla Spagna e nel 1570 Filippo II concede ai ribelli il perdono solenne, in cambio di nuovi gettiti fiscali. In realtà la rivolta cova ancora. I seguaci di Guglielmo d'Orange hanno le loro roccaforti sulle coste della Zelanda e da qui muovono all'arrembaggio dei galeoni spagnoli di ritorno dalle Americhe. Inoltre la Spagna è nel mirino di varie potenze straniere, che, non potendola attaccare direttamente, appoggiano finanziariamente i ribelli.
Nel 1572 questi ultimi occupano il porto di La Brielle, alla foce della Mosa; poco dopo, appoggiati da corsari francesi e inglesi, bloccano anche la foce dell'Escaut. Nel frattempo l'ammiraglio di Coligny, capo carismatico degli ugonotti francesi, cerca di convincere il suo re ad inviare un'armata al fianco dei "pezzenti". Sperando in questo aiuto, Guglielmo d'Orange si impadronisce di Mons e Valenciennes. Gli spagnoli hanno buon gioco a respingere questi attacchi, ma al nord le province dell'Olanda e della Zelanda proclamano l'Orange loro stathouder e si scrollano di dosso il gioco spagnolo.
Come sappiamo, la notte di s. Bartolomeo decima la leadership degli ugonotti francesi e provoca la morte di Coligny. Per gli spagnoli scompare quindi il pericolo di un attacco alle spalle e il duca d'Alba può avviare la riconquista delle province settentrionali (1572-1573). L'armata spagnola si distingue ancora una volta per la sua ferocia: Malines, Zupten, Naarden e Haarlem sono espugnate e i loro abitanti sono fatti letteralmente a pezzi.
Tuttavia gli spagnoli non riescono a piegare le province ribelli: non possono infatti impiegare nella regione grandi forze, essendo allo stesso tempo impegnati contro i turchi. Inoltre Filippo ha bisogno di denaro per tener fede a tutti i suoi impegni: pensa quindi di diminuire la pressione militare in cambio dell'aumento di quella fiscale. Il duca d'Alba viene quindi sostituito dal più morbido marchese di Requesens. Senonché nel 1576 il nuovo governatore generale muore senza aver pacificato la regione. Viene sostituito da don Giovanni d'Austria, il fratellastro del re, che lascia, però, ai rivoltosi il tempo di riorganizzarsi. L'8 novembre 1576 le province cattoliche e quelle calviniste formano l'Unione di Gand, che prevede l'indipendenza nazionale e la libertà religiosa.
Resosi conto del pericolo, don Giovanni offre nel 1577 la partenza delle truppe spagnole in cambio del ritorno del paese al cattolicesimo e all'obbedienza verso il re, ma Guglielmo d'Orange rifiuta e guida i confederati alla lotta aperta. A Bruxelles il potere passa nelle mani di un comitato rivoluzionario e il principe d'Orange è nominato luogotenente generale dei Paesi Bassi. Tuttavia ancora una volta il fronte antispagnolo non è realmente omogeneo. I calvinisti del Nord tentano infatti di sfruttare la situazione per sradicare il cattolicesimo dalle Fiandre. Giovanni d'Austria approfitta di queste divisioni e blocca Anversa, mentre si avvicina da sud un'armata spagnola condotta da Alessandro Farnese. Un attacco di tifo porta via il fratellastro di Filippo II, il 1 ottobre 1578, proprio mentre progettava di riacquisire il parziale controllo dei Paesi Bassi, varcare la Manica, liberare Maria Stuart e conquistare l'Inghilterra, togliendo così ogni rifornimento ai calvinisti olandesi.
Comunque i cattolici, che si vedono tra l'incudine calvinista e il martello spagnolo, decidono di organizzarsi autonomamente e di trattare con la Spagna. Le province a maggioranza cattolica (Artois, Fiandra, Hainaut e Wallonie) formano nel 1578 l'Unione di Arras, che si propone di arrivare alla libertà religiosa auspicata dalla Pace di Gand e di raggiungere un compromesso con Filippo II. In risposta il 6 gennaio 1579 i calvinisti formano l'Unione di Utrecht, che raggruppa Olanda, Zelanda, Frisia, Groningue, Utrecht, Gheldria e Overijssel. L'Unione rifiuta ogni accordo con la Spagna e proclama la Repubblica delle Province Unite.
La contrapposizione tra i due schieramenti passa attraverso un ultimo tentativo di mediazione internazionale. Già nel 1578 le province vallone hanno chiesto a Francesco, duca d'Angiò e fratello di Enrico III di Francia, di prendere il comando degli Stati Generali ribelli. Nonostante l'opposizione di Guglielmo d'Orange, il francese è pronto ad accettare, ma la situazione internazionale lo obbliga infine a rinunciare. Nel 1580 Angiò diviene comunque signore delle Province Unite, su suggerimento proprio del principe di Orange, ma non sfrutta questa posizione per accerchiare gli spagnoli, anzi varca la Manica per corteggiare la regina Elisabetta. Nel frattempo Alessandro Farnese guadagna definitivamente la fiducia le province cattoliche e si va alla divisione del paese. Il 2 luglio 1581 l'Atto dell'Aia proclama l'indipendenza delle Province Unite, rette dallo stathouder generale, Guglielmo d'Orange, fermo restando il rispetto dell'autonomia delle singole province. Le province meridionali, quelle dell'Unione di Arras, formano invece i Paesi Bassi spagnoli.
Nel 1582 il duca d'Angiò rientra, ma la sua avventura volge rapidamente al termine, coinvolgendo tra l'altro la Francia in una fallita invasione dei Paesi Bassi (1583), e quindi muore nel 1584. Nello stesso anno viene assassinato Guglielmo d'Orange e la situazione volge a vantaggio della Spagna. La regina d'Inghilterra propone allora la candidatura del conte di Leicester a guida delle Province Unite. Il tentativo non riesce e nel frattempo Alessandro Farnese porta avanti la riconquista dei territori ribelli: nel 1584-1585 assedia e cattura Anversa; nei due anni successivi riprende possesso di quasi tutta l'area centrale degli antichi Paesi Bassi.
Nel 1587 i domini spagnoli comprendono non soltanto le province dell'Unione di Arras, ma anche Bruxelles, Namur, il Brabante, la regione di Anversa. Farnese potrebbe addirittura schiacciare le province settentrionali, se il suo re non lo implicasse in una serie di sfortunate imprese internazionali contro l'Inghilterra e contro la Francia. Intanto i maggiori funzionari spagnoli nei Paesi Bassi si scontrano fra loro per la preminenza, Bruxelles è in preda all'anarchia e in molte guarnigioni i soldati si ammutinano, chiedendo le paghe arretrate.
Questi avvenimenti facilitano la riorganizzazione delle Province Unite. Queste sono rette dal pensionario generale Johann van Oldenbarnvelt e dallo stathouder Maurizio di Nassau, figlio di Guglielmo d'Orange. Maurizio è un eccellente uomo d'arme e con l'aiuto del cugino Guglielmo-Luigi, stathouder di Frisia e Groningue, ristruttura le armate ribelli. Le sue forze conseguono quindi importanti vittorie sulla Mosa e sul Reno e, nel 1591-1594 e nel 1597 riconquistano tutto il nord-est.
Ormai comunque la guerra nei Paesi Bassi è inestricabilmente legata allo scacchiere internazionale. Francia e Inghilterra sono impegnate a schiacciare la tracotanza spagnola e a sostenere le Province Unite. Filippo II accetta infine il fatto compiuto e nel 1598, poco prima di morire, ratifica implicitamente l'indipendenza delle province settentrionali, donando i Paesi Bassi spagnoli alla figlia Isabella e al genero Alberto, arciduca d'Austria, con la clausola di un ritorno alla Spagna se la coppia morisse senza eredi diretti.

L'Invincibile Armata

La sconfitta dell'Invincibile Armata è quasi sempre raccontata in termini drammatici. La disfatta spagnola nell'estate del 1588 ha avuto infatti grande importanza nella storia dell'Occidente: ha assicurato all'Inghilterra la definitiva supremazia sui mari; ha rivelato la debolezza spagnola; ha rafforzato la determinazione olandese a liberarsi dal giogo ispanico; infine ha convinto Enrico III di Francia che non era necessario sottomettersi ai Guisa, alleati di Filippo II. Tuttavia l'avvenimento non ha avuto in sé nulla di grandioso: il tentativo spagnolo è in realtà fallito per l'insipienza della sua preparazione piuttosto che per l'abilità dei marinai inglesi o per le tempeste nell'Atlantico.
Probabilmente la flotta inglese, che non era per numero di navi inferiore a quella spagnola, avrebbe comunque vinto, ma gli ammiragli di Elisabetta non hanno avuto modo di mostrare la loro maestria. I loro avversari erano infatti condannati alla sconfitta dall'assenza di un piano strategico, da navi mal ristrutturate e dalla mancanza di viveri. Nessun contemporaneo e pochi storici successivi hanno, però, amato concentrarsi su questi aspetti poco eroici. Si è quindi preferito attribuire la sconfitta spagnola all'abilità degli inglesi - ritenuti tradizionalmente inferiori per numero - e allo scatenarsi degli elementi: in particolare i venti contrari e il mal tempo normale nel nord dell'Atlantico alla fine dell'estate sono stati visti come un giudizio divino, sfavorevole al tetro e dispotico monarca spagnolo. D'altra parte non era forse possibile giustificare altrimenti un insuccesso così clamoroso, per giunta dopo una preparazione durata alcuni anni.
Le difficili relazioni tra Filippo II, re di Spagna, e i Tudor rimontano infatti al sesto decennio del secolo. Come già menzionato, il 27 luglio 1554 il ventiseienne arciduca Filippo sposa Maria Tudor, trentottenne regina d'Inghilterra. Il matrimonio è combinato dal padre dello sposo, l'imperatore Carlo V, che vuole accerchiare la Francia, già minacciata a ovest (Spagna), sud (Italia) ed est (impero germanico e Paesi Bassi).
Il futuro sovrano spagnolo si reca allora in Inghilterra e tenta invano di mettere incinta la moglie. Nel frattempo la guerra mossa alla Francia porta alla sconfitta inglese e alla perdita di Calais, appena quattro mesi dopo il matrimonio. Filippo si trattiene ancora per qualche tempo in Inghilterra e poi raggiunge il padre nei Paesi Bassi. Quando Carlo V abdica, l'arciduca diviene re di Spagna, dove infine rientra, e non vede più la moglie. Tuttavia non rinuncia ai piani paterni e, alla morte di Maria (1558), vorrebbe sposare Elisabetta Tudor. Quest'ultima elude le proposte matrimoniali dell'ex-cognato e riporta il proprio paese alla religione anglicana nell'inverno 1558-1559.
Filippo continua tuttavia a chiedere alla regina inglese di convertirsi al cattolicesimo e di rinnovare l'alleanza con la Spagna. In un secondo tempo le propone persino di divenire la moglie del figlio dell'imperatore Ferdinando. Intanto, assieme ai cugini d'Austria, protegge l'Inghilterra dalle folgori di Roma. Elisabetta approfitta di queste buone disposizioni per aiutare gli ugonotti francesi contro il loro re e i ribelli dei Paesi Bassi contro quello di Spagna. Inoltre le sue navi non si fanno scrupolo di contrabbandare e depredare nelle acque dell'America spagnola.
La Spagna tenta allora timide ritorsioni, ma è evidente la sua inferiorità navale. Filippo cerca quindi nuovi mezzi per addomesticare Elisabetta e pensa a un matrimonio tra il suo primogenito, il folle e deforme don Carlos, e Maria Stuart, regina di Scozia e legittima erede al trono inglese agli occhi di tutti i cattolici. La regina scozzese è, però, imprigionata nel 1567 dai suoi stessi nobili e abdica a favore del figlio Giacomo. Nel 1568 riesce a fuggire, ma si mette sotto la protezione di Elisabetta e quindi fuori dalla portata spagnola.
A questo punto i rapporti tra la potenza iberica e quella inglese sono sempre più tesi, mentre gli strali cattolici si appuntano contro la regina, anche se con risultati poco eclatanti. Nel 1569 scoppia in Inghilterra una rivolta di nobili cattolici e Pio V interviene a favore dei ribelli scomunicando Elisabetta il 25 febbraio 1570. La rivolta è invece sconfitta e la scomunica pone in una difficile situazione i cattolici, divisi tra la fedeltà a Roma e quella al loro paese. Nel decennio successivo persino i cattolici esiliati tentano di appianare questo contrasto e cercano un accordo con la loro regina. Nel frattempo Filippo II prima spera di poter in qualche modo sottomettere l'Inghilterra e poi, nel 1574, propende per un riavvicinamento. Ancora una volta, però, le sue manovre non hanno esito: Elisabetta prosegue ad appoggiare gli ugonotti francesi e i ribelli olandesi con l'argento depredato agli spagnoli.
Nel 1578 don Giovanni, il vincitore di Lepanto, fratellastro di Filippo II e governatore dei Paesi Bassi spagnoli, progetta, come già ricordato, di varcare la Manica, liberare Maria Stuart e conquistare l'Inghilterra. Don Giovanni muore poco dopo, ma il suo piano resta impresso nella mente degli strateghi spagnoli. Tuttavia essi ritengono che non basti attaccare dai Paesi Bassi, ma che questa mossa debba essere appoggiata da una flotta salpata dalle coste spagnole. Dopo la conquista del Portogallo nel 1581, Alvaro Bazán, marchese di Santa Cruz, suggerisce al re che Lisbona offre il porto necessario per organizzare la spedizione contro l'Inghilterra.
Per il momento Filippo non è intenzionato a organizzare realmente una spedizione. Paventa infatti che la deposizione di Elisabetta porti sul trono Giacomo Stuart, re di Scozia, sospettato di simpatie per la Francia. Per evitare tale pericolo fa quindi costruire dai suoi esperti un albero genealogico che gli permetta di rivendicare la corona d'Inghilterra: i genealogisti di corte non lo deludono e dimostrano che, da parte materna, egli discende da due nipoti di Edoardo III (1312-1377). A questo punto riprende in considerazione il piano propostogli dal marchese di Santa Cruz, ma non riesce a decidersi.
Nel frattempo i suoi ambasciatori a Londra appoggiano vari tentativi di assassinare Elisabetta ed entrano in contatto con Maria Stuart. Quest'ultima fa loro pervenire il 20 maggio 1586 una rinuncia ai propri diritti sul trono inglese in favore del sovrano spagnolo. Ora Filippo II medita seriamente d'invadere l'Inghilterra, ma il marchese di Santa Cruz gli propone un piano che richiede 150 navi da guerra e 360 ausiliarie, 90.000 uomini e 2.200 pezzi di artiglieria. Il costo totale si aggira sui 4 milioni di ducati, una cifra troppo elevata per le casse spagnole. Il re ripiega quindi sul vecchio progetto di don Giovanni d'Austria e propone ad Alessandro Farnese, duca di Parma e governatore dei Paesi Bassi spagnoli, di organizzare l'invasione. Farnese non è molto convinto e la discussione sui dettagli organizzativi va per le lunghe. Senonché il 18 febbraio 1587 Maria Stuart è decapitata e nello stesso anno Francis Drake affonda la flotta spagnola ancorata nel porto di Cadice. Filippo si sente apertamente sfidato e ordina quindi ai suoi sottoposti di accelerare i preparativi. Inoltre decide che l'attacco deve essere portato congiuntamente dal marchese di Santa Cruz, sia pure con una flotta ridotta, e dal duca di Parma.
Quest'ultimo è più che mai certo che non si possa invadere l'Inghilterra, ma non dichiara la sua opposizione ai piani del re, poiché quest'ultimo appare sicuro della buona riuscita del duplice sbarco. Bernardino de Mendoza, ambasciatore spagnolo a Parigi, gli ha infatti inviato i rapporti di fuoriusciti inglesi, che, per guadagnarsi la paga d'informatori, esaltano l'esasperazione del popolo inglese, stanco della dispotica regina. Filippo II è quindi convinto che basti la semplice apparizione della flotta spagnola per scatenare la rivolta e non si preoccupa della possibilità che l'Inghilterra possa difendersi.
Tutta la preparazione dell'attacco è inficiata da questa convinzione e dalla contemporanea, sotterranea resistenza del Farnese. Inoltre il re non conosce i problemi della guerra sul mare e pretende di preparare tutto a tavolino. Nei suoi ordini non è chiaro come l'armata dei Paesi Bassi possa varcare la Manica, né si capisce cosa dovrebbe fare la flotta una volta in vista dell'Inghilterra. In ogni caso egli vuole che le sue navi salpino da Lisbona il prima possibile e ordina addirittura di partire in pieno inverno. Il marchese di Santa Cruz si oppone tenacemente a questa eventualità e rimanda di settimana in settimana la partenza. Contemporaneamente il duca di Parma cerca di far intendere che la spedizione dai Paesi Bassi non può avere buon esito senza un adeguato numero di vascelli per trasportare i soldati. Ma il re non si dà per vinto e si dice certissimo dell'appoggio divino.
Il 30 gennaio 1588 il marchese di Santa Cruz muore e al suo posto è chiamato don Alonso Perez de Guzmán, duca di Medina Sidonia. Questi cerca di rifiutare l'incarico, ma è l'unico ad avere quarti di nobiltà tali da poter sostituire il marchese di Sanza Cruz senza sollevare obiezioni. Inoltre gli è stata affidata negli anni precedenti la difesa del commercio delle Indie e quindi ha già avuto a che fare con alcuni dei più famosi capitani inglesi. Per tutti e per il re per primo egli è l'uomo giusto al momento giusto.
La flotta spagnola salpa infine da Lisbona l'11 maggio 1588. E' composta da 130 navi: 65 galeoni e grandi navi da guerra, 25 olche (navi da carico baltiche), 32 battelli più piccoli (per lo più pinasse da usare per le comunicazioni), 4 galeazze napoletane (bastimenti a vela e a remi) e 4 piccole galee portoghesi (anch'esse a remi). E' numericamente imponente e apparentemente invincibile, ma non priva di difetti. La Spagna non ha rinunciato a difendere le sue postazioni navali nell'America, nel Mediterraneo e nel Pacifico. Molte navi da guerra, tra le quali l'ammiraglia stessa, sono state di conseguenza requisite ai portoghesi e non sono adeguatamente riattrezzate. Altri legni erano originariamente destinati a compiti non militari: soltanto 21 galeoni e 4 galeazze sono effettivamente navi da guerra, il resto sono bastimenti per il trasporto di granaglie nel Mediterraneo o nel Baltico, ristrutturati con l'aggiunta di castelli da combattimento a prua e a poppa e armati. Questi navigli sono molto lenti e soprattutto non sono capaci di manovrare in spazi ristretti.
In ogni caso l'Armata è effettivamente la flotta più grande sino allora messa in mare dalla Spagna e porta sui suoi ponti un esercito di oltre 30.000 uomini: 146 gentiluomini e 238 ufficiali, accompagnati complessivamente da 728 domestici; 8.052 marinai; 18.973 soldati; 2.088 rematori per le galee e le galeazze; 167 cannonieri; 180 religiosi; una dozzina di medici e chirurghi e 62 infermieri. L'Armata trasporta inoltre 2.431 pezzi d'artiglieria e 123.000 palle di ferro, nonché viveri per sei mesi di navigazione: 11.000 barili di acqua dolce e 14.000 di vino; 11 milioni di libbre di gallette, 600.000 di carne di porco sotto sale, 800.000 di formaggio e altrettante di riso. A questo carico bisogna aggiungere altre vettovaglie (olio, aceto, fagioli, ceci) e il necessario per invadere l'Inghilterra: armi, scarpe, fiasche per la polvere da sparo, affusti di cannone per le battaglie campali e persino 40 muli e numerosi cavalli. Tutte le navi sono quindi sovraccaricate.
La partenza è impeccabile, ma l'ammiraglia non ha ancora raggiunto il mare aperto, che il vento gira e la marea blocca la flotta, che resta ferma per altri quindici giorni. Durante questa sosta forzata il duca di Medina Sidonia e i suoi collaboratori leggono le istruzioni ricevute alla partenza. Secondo il re essi dovrebbero far rotta sulla Cornovaglia, imboccare la Manica senza accettare battaglia e ricongiungersi con le forze del duca di Parma, una volta raggiunto il porto di Margate. I capitani spagnoli palesano al loro comandante alcune perplessità. In primo luogo non sono sicuri di poter calare le ancore a Margate, inoltre si chiedono come il Farnese possa varcare il canale. Il duca di Medina Sidonia incarica allora l'ammiraglio Luis Martínez de Recalde di scrivere al re, chiedendo maggiori chiarimenti e criticando sottilmente il piano iniziale. L'ammiraglio suggerisce con tatto che la flotta dovrebbe prendere terra nella zona dei Downs, oltre Margate, e di lì proteggere la traversata degli uomini del duca di Parma. Questi, però, dovrebbe procurarsi da solo le imbarcazioni necessarie.
Il 30 maggio la flotta esce in mare aperto senza che sia giunta una risposta dal re. La rotta è verso capo Finisterre, ma i venti contrari allontanano l'Armata dalla meta. La navigazione è estremamente penosa, perché i castelli da combattimento, apposti alle navi mercantili, impacciano le virate e rendono impossibile navigare contro vento. Nel frattempo il duca di Medina Sidonia scrive al Farnese di non potergli venire incontro a Dunkerque, dove egli ipotizza che il generale possa portare le sue truppe, né di potergli fornire fanti di appoggio: l'Armata ha infatti bisogno di tutti gli uomini imbarcati. Il duca di Parma, che conta su 16.000 uomini e non ha battelli per la traversata della Manica, scrive indignato al re, ma questi non trasmette la lettera a Medina Sidonia, che perciò si convince che l'armata dei Paesi Bassi sia numerosa e soprattutto dotata di proprie navi.
Come se non bastasse, quando la flotta giunge in vista di Finisterre il 14 giugno, i capitani scoprono che le provviste imbarcate si stanno già deteriorando e che i barili d'acqua perdono: i fornitori portoghesi hanno bellamente truffato gli uomini del re o si sono accordati con loro per vendere derrate avariate e barili scassati. Il duca di Medina Sidonia chiede alle autorità di terra viveri e acqua, ma non riceve risposta. Per quattro giorni incrocia al largo di Finisterre, poi decide di entrare con 40 navi nella baia di La Coruña, dove spera di trovare rifornimenti. Gli altri legni restano al largo e la notte tra il 19 e il 20 sono dispersi da un'improvvisa burrasca. La situazione è ormai grottesca e il 24 Medina Sidonia scrive al re chiedendo di sospendere l'operazione. Dopo 10 giorni arriva in risposta l'ordine di salpare entro il 10 luglio, a meno che non manchino troppe navi. L'Armata riesce a ricomporsi, ma il 10 la partenza è rimandata sino al 12, perché troppi vascelli sono ancora danneggiati.
Nel frattempo la flotta inglese si è pericolosamente avvicinata. Essa non è inferiore per numero e per grandezza delle navi a quella spagnola. Conta infatti 140 vascelli: 35 grandi legni e pinasse della regina, altrettanti di armatori privati dediti alla pirateria e 70 mercantili armati in fretta. Alcune navi inglesi sono molto vecchie, più vecchie mediamente di quelle spagnole: sono, però, state riattrezzate con attenzione e non imbarcano acqua, né hanno problemi di navigazione. Inoltre almeno dieci vascelli sono di qualità decisamente superiore: appartengono infatti alla classe di navi da guerra race-built, costruite cioè per ingaggiare veloci confronti sul mare e non appesantite dai castelli da combattimento. Infine la flotta inglese è superiore per numero e qualità dei cannoni: questi sono per di più facili da ricaricare, grazie all'affusto montato su ruote, mentre le navi spagnole hanno difficoltà a bissare la prima bordata.
Gli inglesi potrebbero risolvere lo scontro attaccando al largo di La Coruña, ma non si muovono con sufficiente rapidità: non sono abituati a una flotta di tale entità e inoltre gli ordini della regina sono vaghi. Per decidere la strategia migliore Charles Howard, Lord di Effingham e Grande Ammiraglio, consulta Francis Drake, John Hawkins, Martin Frobisher e Thomas Fenner. Drake, che nel 1587 ha attaccato Cadice, convince gli altri ad andare incontro all'Armata e a bloccarla in mare aperto, ma il 20 luglio il vento gira in favore degli spagnoli e obbliga gli inglesi a rientrare alla base. Due giorni dopo gli spagnoli salpano alla volta della Cornovaglia, ma il 26 il vento cade di nuovo e il 27 si scatena una piccola tempesta, che affonda quattro galee e un galeone. Il 29 luglio le vedette spagnole avvistano finalmente la costa inglese e il giorno successivo le due flotte si incontrano al largo di capo Eddystone. Gli inglesi manovrano in modo di tenersi sopravvento, ma gli spagnoli si schierano in maniera che gli avversari non possano incunearsi tra le loro fila. Ne consegue un guardingo fronteggiarsi, interrotto da qualche salve di artiglieria.
Dopo la scaramuccia il duca di Medina decide di avanzare nella Manica e Lord Howard di tallonarlo per impedirgli di sbarcare. Le due flotte procedono quindi di conserva, mentre l'ammiraglio spagnolo invia una pinassa a contattare il Farnese. Il duca di Parma, però, non risponde e il duca di Medina avanza alla cieca, non sapendo dove possa avvenire il ricongiungimento delle forze spagnole e perdendo altre navi per incidenti di navigazione. Il 2 agosto viene nuovamente impegnata battaglia: lo scontro è senza esito, ma rivela che gli spagnoli non sono in grado di abbordare gli inglesi. Questi ultimi scoprono invece di poter danneggiare gli avversari, adottando la formazione in linea di fila nota fin dal secolo precedente, ma sino ad allora poco sfruttata, che permette di impegnare tutti i pezzi di una fiancata.
Il 3 agosto è giorno di tregua. Medina aspetta invano una risposta dal Farnese. Gli inglesi invece si riforniscono di palle di cannone e di polvere da sparo. Il 4 dividono la flotta in quattro squadre, affidate a Howard, Drake, Frobisher e Hawkins, e tentano di accerchiare il nemico. Gli spagnoli decidono allora di sbarcare sull'isola di Wight, ma la marea ancora debole e i venti contrari impediscono la manovra, mentre gli inglesi iniziano ad attaccare. L'Armata riprende la navigazione lungo la Manica e gli inglesi ritornano a distanza di sicurezza, ormai sicuri di avere in pugno la situazione e di dover soltanto aspettare il momento propizio per distruggere l'avversario senza subire perdite.
Il duca di Medina prosegue a mandare messaggi al Farnese, chiedendogli di intervenire, ma il duca di Parma invia a Filippo II tutte le lettere scrittegli dall'ammiraglio, specificando di non poter soccorrerlo e di non poter uscire in mare, se non sono allontanate la flotta inglese e quella olandese. Infine Medina Sidonia decide di attraccare a Dunkerque, ma i piloti gli rivelano che i bassi fondali, le dimensioni minime dell'unico canale navigabile e le postazioni olandesi impediscono l'entrata dell'Armata. Quest'ultima cala dunque le ancore 24 miglia al largo di Dunkerque, mentre gli inglesi si fermano fuori tiro. Le navi spagnole sono disposte in fila orizzontale in piena corrente e così, la notte del 7 agosto, gli inglesi affidano a quest'ultima otto navi incendiarie, che non mietono vittime, ma obbligano gli spagnoli a salpare e ad impegnare battaglia, la mattina successiva, sottovento e con le spalle alla costa. Ancora una volta lo scontro è brevissimo, tuttavia gli spagnoli perdono tre navi e seicento uomini, più un numero imprecisato di feriti e ingenti danni a molte navi.
L'Armata riesce comunque a sganciarsi, ma a causa dei venti deve intraprendere il periplo delle isole britaniche per poter rientrare in Spagna. Inoltre gli spagnoli temono di essere spinti sulle coste irlandesi a loro ignote: decidono quindi di doppiare le Shetland per poi puntare verso capo Finisterre, tenendosi sempre molto al largo. Gli inglesi inseguono l'Armata sino a Newcastle: qui attraccano, avendo compreso il piano nemico e ritenendo che l'Atlantico basti a sistemare una flotta così malconcia. Di fatti il 21 agosto le navi spagnole iniziano a disperdersi per il vento. La maggior parte di loro non è infatti adatta alla navigazione atlantica e nessuna è stata carenata durante l'estate: la loro tenuta è quindi pessima, tanto più che sono ancora sovraccariche di cannoni, salmerie e animali da carico e da guerra. Muli e cavalli sono gettati in mare, assieme a quanto non serve per la navigazione, ma molti vascelli si aprono letteralmente in due e sono inghiottiti dai flutti.
In queste condizioni alcuni capitani tentano di riguadagnare le Orcadi, le Shetland o la Scozia, oppure fanno vela direttamente sull'Inghilterra: chi ci riesce, attende per mesi di essere riscattato e rimpatriato. Altri puntano o sono spinti dai venti verso l'Irlanda, dove lord William Fitzwilliam, il governatore inglese, è avvertito il 18 settembre del loro possibile arrivo. Egli ordina di sterminare i nemici e mantiene questa decisione, anche quando scopre che si tratta di naufraghi, più che di invasori. Non tutti gli spagnoli sono vittime degli inglesi; la popolazione locale non si mostra più clemente. Complessivamente 3.000 membri dell'Armata sono uccisi dagli inglesi e altrettanti periscono per mano degli irlandesi o annegano.
Parte della flotta riesce comunque a rientrare in Spagna. Il 24 settembre il duca di Medina Sidonia giunge in vista di Santander. Nelle settimane successive arrivano altre navi. Una lista stesa verso la metà di ottobre mostra che alla fine sono rientrate 65 navi, la metà di quelle partite da Lisbona alla fine di maggio. Iniziano allora a diffondersi le differenti versioni sull'avvenimento. Gli spagnoli insistono sulle sfortunate circostanze atmosferiche (in realtà assolutamente prevedibili). Gli inglesi elaborano il mito della grande e definitiva vittoria navale.
La partita invece non è chiusa e Filippo II invia altre tre flotte contro l'Inghilterra: nel novembre 1596 una nuova Armata parte alla volta dell'Irlanda ed è travolta da una tempesta; la stessa sorte colpisce la spedizione che doveva sbarcare in Cornovaglia l'anno successivo; infine un terzo convoglio percorre nel 1598 la Manica e porta soccorso alle armate spagnole nei Paesi Bassi. L'Inghilterra è in vantaggio sui mari, ma per la vittoria definitiva deve attendere ancora quasi un secolo e mezzo.

Nota bibliografica

Per un quadro delle lotte europee nel secondo Cinquecento sono ancora validi J.H. Elliott, Europe divided 1559-1598, London, Fontana, 1968, e Corrado Vivanti, Lotta politica e pace religiosa nell'Europa del '500, Torino, Einaudi, 1974. Sulla conflittualità e gli sviluppi dell'arte bellica sono invece utili: John R. Hale, Guerra e società nell'Europa del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza 1987; Geoffrey Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 1990; Piero Del Negro, Guerre ed eserciti da Machiavelli a Napoleone, Roma-Bari, Roma-Bari, Laterza, 2001. Il libro di Parker ha scatenato un vivo dibattito, per il quale si veda l'appena citata opera di Del Negro, nonché Joël Cornette, La révolution militaire et l'État moderne, "Revue d'histoire moderne et contemporaine", 41 (1994), pp. 696-709, e The Military Revolution Debate: Readings on the Military Transformation of Early Modern Europe, Boulder, Co., Westview, 1995. Brian M. Downing, The Military Revolution and Political Change. Origins of Democracy and Autocracy in Early Modern Europe, Princeton, Princeton University Press, 1992, ha fatto della rivoluzione militare l'asse privilegiato della storia europea nell'età moderna. Sulla stessa linea, ma meno radicali, sono Jeremy Black, A Military Revolution? Military Change and European Society, Atantic Highlands NJ, Humanities Press, 1991, e Frank Tallett, War and Society in Early-Modern Europe, 1495-1715, London-New York, Routledge, 1992. A cura di Black sono recentemente usciti due volumi, nei quali si possono trovare ulteriori indicazioni: European Warfare, 1453-1815, New York, St. Martin's Press, 1999, e War in the early modern world, Boulder Co., Westview Press, 1999. Per un sussidio sul Web, si digiti l'indirizzo dell'Internet History Sourcebooks Project (www.fordham.edu/halsall/).
Le biografie di Filippo II e le opere di sintesi sul suo periodo sono numerose e soprattutto famose, vedi per esempio: Geoffrey Parker, Un solo re, un solo impero: Filippo II di Spagna, Bologna, Il Mulino, 1985, e Ferdinand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986. Mía J. Rodríguez-Salgado, Metamorfosi di un impero: la politica asburgica da Carlo 5. a Filippo 2. (1551-1559), Milano, Vita e Pensiero, 1994, puntualizza i rapporti tra la strategia paterna e quella di Filippo. Gli scopi di quest'ultimo sono ulteriormente precisati da: Henry Kamen, Philip of Spain, New Haven-London, Yale University Press, 1997; Geoffrey Parker, The Grand Strategy of Philip II, New Haven-London, Yale University Press, 1998; Felipe II (1527-1598). Europa y la Monarquía Católica, a cura di José Martínez Millán, Madrid, Editorial Parteluz, 1998. Un suggestivo quadro della politica estera spagnola è offerto da H.G. Koenigsberger: L'Europa occidentale e la potenza spagnola, in Cambridge University Press, Storia del Mondo moderno, III, La controriforma e la rivoluzione dei prezzi (1559-1610), a cura di Richard Bruce Wernham, Milano, Garzanti, 1968, pp. 651-691, e Politicians and Virtuosi. Essays in Early Modern History, London, Hambledon Press, 1986. Sul Web sono a disposizione il sito dell'Escorial, che contiene anche materiali su Filippo e sull'Armata (http://www.escorial.com), e quello degli studiosi che hanno promosso i centenari di Filippo II e Carlo V (http://www.felipe2carlos5.es). La Brigham Young University dello Utah sta raccogliendo e mettendo in linea lettere e altri materiali inediti del sovrano spagnolo (http://lib3.byu.edu/~rdh/phil2/).
Per la situazione nel Mediterraneo e lo scontro con i turchi, confronta: Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze, Olschki, 1974; I Turchi, il Mediterraneo e l'Europa, a cura di Giovanna Motta, Milano, Angeli, 1998. Per l'espansione spagnola nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, si consulti J.H. Elliott, La Spagna imperiale, Bologna, Il Mulino, 1982. Raffaele Puddu (Il soldato gentiluomo, Bologna, Il Mulino, 1982, e I nemici del re. Il racconto della guerra nella Spagna di Filippo II, Roma, Carocci, 2000) approfondisce l'aspetto psicologico-culturale della guerra nell'impero spagnolo. Per i riflessi italiani, vedi La Espada y la Pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del convegno internazionale di Pavia, Viareggio-Lucca, Baroni Editore, 2000. Per un tema specifico, quello della Lombardia spagnola, confronta inoltre: Mario Rizzo, Militari e civili nello Stato di Milano durante la seconda metà del Cinquecento. In tema di alloggiamenti militari, "Clio", XXIII. 4 (1987), pp. 563-596, e Competizione politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse nell'Europa cinquecentesca. Lo stato di Milano nell'età di Filippo II, in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di Elena Brambilla e Giovanni Muto, Milano, Unicopli, 1997, pp. 370-387; Lombardia borromaica Lombardia spagnola 1554-1659, a cura di Paolo Pissavino e Gianvittorio Signorotto, Roma, Bulzoni, 1995. Per la Sicilia spagnola, si guardi invece Domenico Ligresti, L'organizzazione militare del Regno di Sicilia (1575-1635), "Rivista Storica Italiana", CV (1993), pp. 647-678.
Per l'immagine anche storiografica della Spagna del secondo Cinquecento, si parta da Spagna: immagine e autorappresentazione, a cura di Giuliana Di Febo, "Dimensioni e problemi della ricerca storica", II (1995). Contengono spunti fondamentali Anthony Pagden, Spanish Imperialism and the Political Imagination, New Haven-London, Yale University Press, 1990, e Governare il mondo. L'impero spagnolo dal XV al XIX secolo, a cura di Massimo Ganci e Ruggiero Romano, Palermo, Società italiana per la storia patria, 1991. Le citazioni dei nunzi veneziani sono tratte dall'Archivio Segreto Vaticano, Fondo Bolognetti, vol. 24.
Per inquadrare la rivoluzione olandese nello sviluppo europeo moderno e contemporaneo, si confronti Charles Tilly, Le rivoluzioni europee 1492-1992, Roma-Bari, Laterza, 1993, e Alberto Tenenti, Dalle rivolte alle rivoluzioni, Il Mulino, Bologna, 1997. Per un'introduzione generale alla rivoluzione olandese, vedi Geoffrey Parker, The Dutch Revolt, London, Penguin, 1990. Lo stesso autore (The Army of Flanders and the Spanish Road, 1567-1659, Cambridge, Cambridge University Press, 1972) esplora la logistica spagnola nel conflitto. Sulla nascita e la crescita della repubblica olandese, consulta Jonathan I. Israel, The Dutch Republic. Its Rise, Greatness, and Fall 1477-1806, Oxford, Clarendon Press, 1995. Un'interessante prospettiva sui contatti fra Olanda e Inghilterra è indicata da Raingard Esser, News Across the Channel. Contact and Communication Between the Dutch and Wallon Refugees in Norwich and Their Families in Flanders, 1565-1640, "Immigrants and Minorities", 14, 2 (1995), pp. 139-152. Matthew C. Waxman, Strategic Terror: Philip II and Sixteenth-Century Warfare, "War in History", 4, 3 (1997), pp. 339-347, approfondisce le ragioni che ispiravano la crudeltà spagnola.
Sulla disastrosa impresa della flotta spagnola, che doveva conquistare l'Inghilterra, è disponibile in italiano il libro, un po' troppo giornalistico, di David Howarth, L'Invincibile Armada, Milano, Mondadori, 1984. Una valutazione più scientifica è offerta da C.J.M. Martin e Geoffrey Parker, The Spanish Armada, New York, Norton, 1988. I principali risultati di questo studio, basato su fonti d'archivio e archeologiche, sono riassunti dallo stesso Parker in un capitolo del già citato La rivoluzione militare. Sempre sugli scontri navali, vedi ancora di Parker Ships of the Line 1500-1650, in The Cambridge Illustrated History of Warfare, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. Un quadro generale, datato ma molto ben scritto, è offerto da Carlo Maria Cipolla, Vele e cannoni, Bologna, Il Mulino, 1983. Lo studio più aggiornato è invece Jan Glete, Warfare at Sea, 1500-1650: Maritime Conflicts and the Transformation of Europe, London-New York, Routledge, 2000.
Tornando alla strategia navale spagnola, vale la pena di consultare ancora R.A. Strandling, The Armada of Flanders. Spanish Maritime Policy and European War, 1568-1668, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, mentre sullo svilupppo della flotta inglese si guardi D. M. Loades, The Tudor Navy. An Administrative, Political and Military History, Aldershot, Scolar Press , 1992. Paul E.J. Hammer, Myth-Making: Politics, Propaganda and the Capture of Cadiz in 1596, "The Historical Journal", 40, 3 (1997), pp. 621-642, esplora un versante particolare dello scontro anglo-spagnolo. Peter Pierson, Commander of the Armada: the seventh duke of Medina Sidonia, New Haven-London, Yale University Press, 1989, presenta il punto di vista spagnolo, mentre R.B. Wenham, The return of the Armadas: the last years of the Elizabethan war against Spain 1595-1603, Oxford, Oxford University Press, 1994, descrive il proseguimento dello scontro anglo-spagnolo.
Per comprendere appieno la capacità di resistenza inglese, bisogna riflettere sulla progressiva ascesa di quel paese. Un buon punto di partenza è la lettura di due classici, quali Christopher Hill, La formazione della potenza inglese, Torino, Einaudi, 1977, e Conrad Russell, Alle origini dell'Inghilterra moderna, Bologna, Il Mulino, 1988. Bisgona, però, tener presente che il loro punto di vista è contrapposto. La letteratura storica su Elisabetta I è vastissima, tanto che la sola Library of Congress di Washington scheda quasi duecento volumi su di lei. Per quel che ci riguarda, basta qui citare due opere recentissime: Susan Doran, Elizabeth I and foreign policy, 1568-1603, London-New York, Routledge, 2000, e Miriam Greenblatt, Elizabeth I and Tudor England, New York, Bedmark Books, 2001. Si tenga inoltre conto che Elisabetta è una star della rete con le oltre 60.000 citazioni. Tra queste vale la pena di ricordare il sito http://www.elizabethi.org, dilettantesco, ma ricchissimo di materiale (bibliografie, notizie, link), e The Works of Elizabeth I (poesie, traduzioni, discorsi e lettere) a http://www.luminarium,org/renlit/elizabib.htm.

Parte III

Personaggi italiani sulla scena francese

Nelle due parti precedenti l'Italia è entrata solo di straforo. In questa il suo ruolo non sarà maggiore, tuttavia si cercherà di mostrare che alcuni personaggi di origine italiana hanno giocato un ruolo importante, o per lo meno significativo nel contesto di quegli anni. In questo caso la ricerca è soltanto agli inizi, come menzionato nell'introduzione, ma già indica piste da esplorar. Meritano infatti di essere ristudiate le relazioni tra le casate francesi e quelle italiane, nonché la presenza in Francia di così tanti italiani. Inoltre gli Archivi Segreti Vaticani si rivelano uno straordinario forziere, nel quale si trova un vero tesoro di informazioni sulla Francia delle guerre di religione, nonché sugli italiani oltralpe. Infine si intuisce che nell'ambito della presenza italiana, dobbiamo affrontare anche le vicende dei diplomatici e degli amministratori inviati dalla Santa Sede a Parigi o ad Avignone.

Anna d'Este

La vita di Anna d'Este (Ferrara, 16 novembre 1531 - Parigi, 17 maggio 1607) ci rivela la vicenda quasi romanzesca di una donna, mandata in terra straniera per ragioni dinastiche, che sa ritagliarsi un proprio spazio diplomatico e sentimentale in mezzo alle guerre di religione francesi.
Nell'estate del 1547 Enrico II di Francia invia Lancelot de Carle a Ferrara per sondare il duca Ercole II. In particolare l'uomo del sovrano francese deve proporre al duca il matrimonio tra sua figlia Anna d'Este, cugina germana del re di Francia, e Francesco di Lorena, figlio di Claudio di Guisa. Ercole II tergiversa, accampando la giovane età della figlia. In realtà il duca l'ha già rifiutata a Orazio Farnese, nipote del pontefice Paolo III, e sta tentando di darla in sposa a Sigismondo II, erede al trono polacco. Vista la situazione Enrico II decide d'intervenire personalmente e, nell'agosto dell'anno successivo, convoca in Piemonte il duca di Ferrara, che è infine convinto dalla promessa che il pagamento della dote sarà anticipato dalla corona francese. Il 15 settembre è quindi celebrato il matrimonio per procura, mentre le nozze vere e proprie devono attendere il 16 dicembre 1548.
Anna si trasferisce così in Francia, dove funge da emissaria del padre. Nel frattempo dà al marito sette figli e una figlia. Impegnata dalle gravidanze, che si succedono quasi senza soluzione di continuità, la giovane ferrarese rimane ai margini della corte francese, pur legandosi con Caterina de' Medici, consorte di Enrico II. Lentamente, però, si avvicina al marito che inizia a seguire nelle campagne militari e negli incontri diplomatici. Alla fine degli anni 1550 rompe addirittura con la famiglia paterna, ritenendo che essa non compia quanto necessario per sostenere l'ascesa francese dei Guisa.
Il 1 marzo 1562 Anna è a fianco del marito, quando questi dà il via al massacro dei protestanti di Vassy. La duchessa dichiara in seguito di temere una rappresaglia, ma i Guisa la invitano a non preoccuparsi. Invece, neanche un anno dopo, Francesco di Lorena è mortalmente ferito dal protestante Jean Voltrot. Anna accorre al capezzale dello sposo, che le consiglia di a rimettersi alle decisioni del re. Il 26 settembre 1663 la giovane vedova accusa invece pubblicamente Gaspard de Coligny di essere il mandante di Voltrot. Carlo IX, il figlio di Caterina de' Medici ed Enrico II, desidera, però, arrivare alla pace e non vuole ascoltare le accuse di Anna. Anzi questa è obbligata a riconciliarsi con il Coligny.
In cuor suo Anna non rinuncia a vendicarsi, ma nel frattempo decide di trovare un altro marito, che la metta al riparo da nuovi attacchi. Così nel 1566 sposa Giacomo di Savoia, duca di Nemours, un uomo d'arme da sempre legato ai Guisa. Dal nuovo matrimonio nascono altri due figli e la vendetta pare allontanarsi per sempre. Ma nel 1572 Caterina de' Medici, all'insaputa di Carlo IX, chiede ad Anna di eliminare Coligny. La duchessa di Nemours ne discute con i figli di primo letto ed Enrico di Lorena, suo primogenito e duca di Guisa, le suggerisce di uccidere di sua mano il loro avversario. La duchessa non si fida, però, della propria abilità di tiratrice e assolda un sicario, che, come abbiamo visto nella prima parte, riesce soltanto a ferire Coligny. La responsabilità di Anna è lampante, tanto che la duchessa teme un'immediata e violenta ritorsione. Senonché Coligny è trucidato assieme alla maggioranza dei protestanti francese nella già menzionata notte di s. Bartolomeo.
Negli anni successivi Anna ritrova dunque la tranquillità e può dedicarsi alle faccende familiari, complicate dalla necessità di contemperare i desideri e le richieste dei figli di primo letto e di secondo letto, nonché di un figlio illegittimo del secondo marito. Nel frattempo si riavvicina a Caterina de' Medici e nel 1579, per favorirla, seda il contenzioso tra il cardinale Luigi d'Este, suo fratello, e Giano Fregoso, vescovo di Agen. In cambio Caterina fà ratificare a Enrico III la cessione della contea di Tenda a Emanuele Filiberto di Savoia, cugino del duca di Nemours.
Anna scopre allora che grazie al fratello cardinale può proporsi quale mediatrice tra la corte francese e la Santa Sede. Iniziò per lei un periodo di notevole prestigio, che la vede addirittura manovrare per far succedere al fratello Alfonso II, duca di Ferrara, il nipote Carlo di Lorena, figlio di Enrico duca di Guisa. La morte del marito nel 1585 e quella del fratello Luigi nel 1586 gettano all'aria questi piani e Anna si trova nuovamente nei guai.
Caterina de' Medici inizia infatti a osteggiare le mire di Anna per i due figli avuti dal duca di Nemours. Allo stesso tempo, i figli di primo letto radicalizzano la propria posizione antiprotestante, contro il volere della madre. Nel dicembre 1588 Anna viene a sapere che Enrico III di Francia vuole uccidere Enrico di Guisa. Avverte il figlio nella notte tra il 22 e il 23 dicembre, ma questi non vuole crederle. La mattina successiva cade così sotto il pugnale dei sicari del re ed è seguito il giorno dopo dal fratello, il cardinale Luigi di Lorena. Enrico III fa inoltre arrestare Anna, il figlio primogenito del defunto duca di Guisa e Charles-Emmanuel de Savoie. Quest'ultimo riesce a fuggire, mentre la duchessa è imprigionata nel castello di Blois, quindi trasferita in quello di Amboise e infine liberata.
Tornata a Parigi si rende conto che lo spazio di manovra è molto ridotto e che la guida dei Guisa è ormai in mano al duca di Mayenne. Forse per questo appare meno combattiva del solito nella divisione dei beni del cardinale Luigi d'Este. Nel frattempo i figli di primo e di secondo letto di Anna si affrontano violentemente per godere la parte dell'eredità toccata alla madre.
Nel 1595 si spenge Charles-Emmanuel de Savoie. Due anni dopo con la morte senza eredi di Alfonso II si estingue invece il ramo principale della famiglia d'Este. Nonostante queste disgrazie, agli inizi del nuovo secolo la vecchia duchessa è ancora al centro della ragnatela diplomatica che collega Roma e Parigi. E' quindi trattata con riguardo dal nuovo re, Enrico IV.
Nel 1602 Vincenzo Ungarino, segretario del nunzio a Parigi, scrive che la vecchia duchessa sta perdendo la risolutezza che l'ha contraddistinta in gioventù. Nel 1604 altre fonti segnalano l'inizio del decadimento mentale. Negli ultimi anni della sua vita Anna si chiude nel palazzo parigino dei Nemours, dove infine muore il 17 maggio 1607. Ha nel frattempo chiesto e ottenuto che il suo cuore sia portato al castello di Joinville e posto accanto al primo marito. Il suo corpo è invece sepolto a Notre-Dame di Annecy nella tomba del secondo marito. Le sue viscere sono infine inumate nella chiesa des Augustins a Parigi, dove è letto un appassionato elogio funebre di Severin Bertrand.
L'eco di questo elogio, rafforzata da quanto aveva detto su di lei il signore di Brantôme, nelle Vite delle dame galanti (1583-1584), e di un sonetto di Pierre de Ronsard rimane viva a lungo e ispira le lodi postume alla bellezza e al coraggio della duchessa. E' stato anche ipotizzato che Marie Madeleine, contessa de La Fayette, si sia ispirata ad Anna d'Este per raffigurare la protagonista di La principessa di Clèves (1678). La bellezza di Anna d'Este è testimoniata dai numerosi ritratti che la duchessa si è fatta fare nel corso della sua vita. Essi tuttavia non rendono conto dell'abilità con la quale Anna d'Este ha saputo destreggiarsi, mantenendo fede agli impegni presi con la famiglia paterna e agli obblighi contratti con le famiglie dei due mariti.

Domenico Grimaldi

Domenico Grimaldi nasce a Genova nella prima metà del Cinquecento da una delle più importanti famiglie locali. Suo padre, Giambattista, ha combattuto per Carlo V e numerosi suoi fratelli servono la corona spagnola. Domenico è invece avviato alla carriera ecclesiastica, ma non per questo abbandona le tradizioni familiari: anzi, servendo la Chiesa, ha modo di combattere sia sul mare, sia sulla terra.
Nell'inverno del 1570 Pio V lo incarica di approntare le galere per la guerra ai turchi e, quale commissario della flotta pontificia, Grimaldi segue Marcantonio Colonna nella campagna navale, che porta alla vittoria di Lepanto. Il giovane commissario pontificio combatte così a fianco dei fratelli, che hanno armato due galere della squadra genovese. La sua campagna non è, però, gloriosa. Le sue lettere a Roma rivelano soprattutto le preoccupazioni di chi deve occuparsi del vettovagliamento e tratta con i mercanti siciliani, veneziani e ragusani per ottenere vino e viveri al prezzo più basso. Inoltre Grimaldi è accusato da Marcantonio Colonna d'incompetenza e obbligato a discolparsi davanti al cardinale Tolomeo Galli, segretario di stato di Gregorio XIII. Riesce a scusarsi adducendo a motivo della scarsità delle vettovaglie, i pochi fondi affidatigli
In ogni caso il papa apprezza l'impegno del giovane genovese, che, al ritorno a Roma, è nominato referendario delle due segnature e diviene un funzionario della curia pontificia. Il suo destino si allontana quindi dai campi di battaglia, ma pochi anni dopo torna a calcarli in Francia. Quest'ultima è allora divisa, come abbiamo visto, dalle guerre di religione e gli ugonotti minacciano i possedimenti avignonesi del papa. Il 18 marzo 1577 Grimaldi è quindi nominato rettore del Contado venassino e gli è confidata l'autorità straordinaria di commissario per il tempo della guerra. Suo compito precipuo è quello di fermare le aggressioni ugonotte. Il genovese mostra di meritare la fiducia accordatagli e, dopo aver convocato a Carpentras la nobiltà cattolica, guida un'armata italo-francese alla conquista di Menerbes, roccaforte ugonotta.
Negli anni successivi si dedica alla difesa dei confini del Contado venassino e al mantenimento dell'ordine interno. In particolare cerca di prevenire le discordie fra i nobili locali e a tal scopo interrompe ai primi del 1580 un duello alle porte di Carpentras. Uno dei due contendenti, Esprit Suquet, signore di Maizan, protesta con vemenza e poca cordialità; per tutta risposta Grimaldi lo stende con un colpo di piatto.
Ripresosi, Suquet sfida il genovese, chiedendo di lavare con il sangue l'offesa subita. Il funzionario pontificio deve ovviamente declinare la sfida e ricorre al cardinale d'Armagnac, co-legato di Avignone, per far calmare Suquet. Quest'ultimo finge di accondiscendere e chiede addirittura scusa al rettore del Contado venassino, ma in realtà medita la vendetta. Poco tempo dopo Grimaldi scorta, assieme al fratello Tommaso e a venti cavalieri, Henri de Valois-Angoulême, figlio naturale di Enrico II. Appena fuori Avignone, Suquet piomba con i suoi sulla piccola scorta e, grazie al numero preponderante, uccide quattro cavalieri e Tommaso Grimaldi. Domenico si difende bravamente e riesce a salvarsi, nonostante che gli abbiano abbattuto il cavallo.
Rientrato in città, organizza l'inseguimento dell'assalitore, ma questi abbandona i possedimenti pontifici e al rettore del Contado venassino non resta che sequestrargli i beni. La vicenda spaventa moltissimo i superiori di Grimaldi, che è richiamato a Roma nel maggio 1580. Tenta allora di ottenere un nuovo incarico in curia, ma dopo soltanto due mesi è rimandato in Francia, non senza, però, essere riuscito a strappare la promessa di nuovi benefici. Di fatti l'anno successivo è nominato vescovo di Savona, ma gode soltanto delle rendite di questa diocesi, perché rimane rettore del Contado venassino sino al 1584. Soltanto il 20 febbraio 1584 è infatti sostituito in questa carica dal suo uditore e luogotenente, Pompeo Rocchi. Tale avvicendamento non permette, però, al nostro vescovo di tornare in Italia, ché anzi il suo ruolo nel Contado diviene ancora più importante.
Proprio agli inizi del 1584 il già citato Tolomeo Galli suggerisce a Girolamo Ragazzoni, nunzio in Francia, di affidare Avignone a Grimaldi, nel frattempo trasferito alla diocesi di Cavaillon, visto che non riusciva a seguire adeguatamente Savona, troppo distante dal Venassino. L'occasione per promuovere Domenico si presenta nell'autunno del 1584, quando muore Baldassarre Boschetti, comandante delle truppe avignonesi. Il cardinale Galli scrive nuovamente a Ragazzoni e gli fa sapere che il comando deve essere affidato a Grimaldi, se il re di Francia è d'accordo. Enrico III, interpellato nel gennaio 1585, risponde che quel posto spetta a un soldato e Ragazzoni ribatte che Grimaldi proprio quello è, come dimostrano i suoi precedenti a Lepanto e nella lotta contro gli ugonotti. Il nunzio alla fine la spunta, grazie all'aiuto della regina madre, che apprezza molto il genovese, e nel gennaio del 1585 quest'ultimo diviene comandante delle truppe avignonesi. Nel giro di pochi mesi è quindi designato vice-legato, nonché arcivescovo di Avignone.
In quest'ultima qualità segue con attenzione i problemi della chiesa locale: fonda un seminario e indice tre sinodi diocesani nel 1586, 1589 e nel 1592. Tuttavia i suoi interessi e i suoi doveri più impellenti restano sempre in ambito amministrativo-militare. Le cronache ci tramandano così il ricordo di un vescovo che preferisce la corazza alle vesti ecclesiastiche e che si preoccupa della costruzione di forti piuttosto che di quella delle chiese. D'altro canto la situazione militare non è in quel momento favorevole. Gli ugonotti del Delfinato hanno infatti ripreso a premere su Avignone; inoltre alle loro minacce si assommano quelle cattoliche. Enrico III ha infatti incaricato Jean de Nogaret, duca di Épernon, e suo fratello Bernard, duca di La Valette, di riconquistare Oranges, caduta in mano degli ugonotti, ma i due pensano di mettere a sacco la stessa Avignone. Grimaldi è avvertito del pericolo nel settembre 1586 e ricorre a Caterina de' Medici per giungere a un accordo con i Nogaret nell'ottobre dello stesso anno.
Il pericolo di un sacco da parte cattolica è evitato, ma da allora Jean de Nogaret si guarda bene dal proteggere Avignone. Il vice-legato si deve quindi impegnare in prima persona per rafforzare la difesa dei possessi pontifici. In accordo con Sisto V, intavola trattative con Enrico di Montmorency e, tramite questi, con gli ugonotti della regione, riuscendo infine a ottenere una tregua agli inizi del 1589.
A questo punto Grimaldi pensa di poter restare per sempre ad Avignone, ma nel frattempo Roma ha ricevuto numerose critiche contro il suo operato. Da una parte, gli viene rinfacciato di mostrarsi troppo ben disposto verso il Montmorency, accusa della quale gli è facile difendersi, ricordando a Sisto V le istruzioni ricevute. Dall'altra, è accusato di aver "defraudato il denaro della camera". Quest'imputazione è più grave, anche perché accompagnata da una serie di pasquinate in francese, nelle quali si ribadisce che Grimaldi si preoccupa soltanto di "succer le sang du pais pour senrichir [sic!]". Da Roma è quindi avvertito che sarebbe stato nominato un nuovo vice-legato e che deve tenersi pronto a rientrare.
Il ritorno è, però, rinviato a causa del pericolo ugonotto. Grimaldi continua a fortificare i dintorni di Avignone, dove resta sino all'anno successivo. Il 23 giugno 1589 scrive infine al cardinale Montalto che la situazione si è stabilizzata e che il vescovo di Cavaillon, il fido Pompeo Rocchi, può sostituirlo. Nel frattempo è stato nominato il nuovo vicelegato, Domenico Petrucci, vescovo di Bisignano, che il 23 luglio dello stesso anno arriva a Nizza, dove, però, è bloccato per almeno un mese. Non è quindi chiaro quando esattamente sia avvenuto il passaggio delle consegne e quando Grimaldi sia infine partito per Roma.
Il nuovo vice-legato trova subito le prove che il suo predecessore si è in effetti arricchito al di là del lecito, o comunque dell'usuale. In particolare ricostruisce la storia di come Grimaldi sia stato nominato dal re di Francia abate commendatario di St-Pierre Montmajeur d'Arles, che vale almeno 4.000 scudi. Il precedente abate si era infatti rifugiato ad Avignone, dopo aver messo incinta una suora. Grimaldi lo aveva protetto e gli aveva fatto ottenere la diocesi di Tolone, pretendendo in cambio la commenda della ricca abbazia. A Roma si decide di non tener conto delle accuse di Petrucci e si provvede a ratificare nel febbraio 1590 la nomina dell'arcivescovo di Avignone ad abate di St-Pierre Montmajeur. Il papa ha di nuovo bisogno dei suoi servizi di uomo d'arme e non vuole scontentarlo.
Nei domini pontifici in Italia il banditismo è allora entrato in una fase acuta e Sisto V ha deciso che Grimaldi è l'uomo in grado di pacificare le Marche. L'arcivescovo di Avignone quindi non perde il suo arcivescovato e i vari benefici ed è nominato governatore delle Marche. Nel 1590 elegge quindi Ascoli a sua residenza e da questa città muove contro le formazioni dei banditi, concludendo vittoriosamente la sua campagna nella primavera del 1591.
A questo punto Grimaldi conta di rimanere in Italia e pare di capire che abbia persino sperato di divenire cardinale. E' invece rimandato ad Avignone, dove la situazione è di nuovo peggiorata dal punto di vista militare e da quello amministrativo. Nell'aprile del 1592 rientra quindi nella sua arcidiocesi e riprende il vecchio incarico di vice-legato. Questa volta, però, deve affrontare un nemico più implacabile di tutti quelli, che ha sino allora piegato: nel giro di pochi mesi un cancro allo stomaco lo porta alla tomba. Il 1° agosto i fratelli, Francesco e Giacomo, lo fanno tumulare nella cattedrale, dove una lapide ricorda i suoi trascorsi militari.
Le scarne parole dei fratelli - che non ricordano la data di nascità o l'età di Domenico, ma sottolineano le sue imprese di guerra - sono probabilmente il migliore epitaffio per un vescovo, che in fondo è stato soprattutto un soldato. Una volta riconosciuto questo non bisogna tuttavia sottovalutare il rilievo della carriera amministrativa di Domenico Grimaldi e soprattutto la sua importanza nell'ambito della storia avignonese. Per quindici anni ha retto le sorti di Avignone e del Contado venassino, passando da una carica all'altra e talvolta cumulandone più di una. Questa forte centralizzazione dell'amministrazione avignonese è il frutto di una situazione eccezionale, ma permette anche a Roma d'imporre definitivamente la figura dei vice-legati, spariti durante la lunga legazione del cardinale Charles de Bourbon, come gerenti della città e di preparare il passaggio dal legato di origine francese a quella dei legati italiani. Grimaldi, cumulando l'autorità civile, quella militare e quella ecclesiastica, non ha infatti rivali all'interno del dominio avignonese, se non quelli causati dalla gelosia della nobiltà locale.
I successi di Grimaldi - che comunque conosce anche smacchi cocenti, basti pensare all'assassinio del fratello - non sono dovuti soltanto alla guerra, ma anche ai contatti diplomatici che egli sa instaurare. In occasione di un incontro con il re nel 1584, il cardinale Galli consiglia al nunzio Ragazzoni di portarsi dietro il genovese, perché questi era "assai informato de li humori et del procedere del paese, et è amato da tutti li ministri di S. M.tà in quelle parti". Grimaldi ha saputo infatti sfruttare i legami tra la propria famiglia (un ramo della quale regge ancora oggi il principato monegasco), Genova e il Mezzogiorno francese per rafforzare il controllo di Roma su Avignone. Tale situazione era vantaggiosa per Roma e per i Grimaldi, non a caso Domenico è sempre coadiuvato da qualcuno dei suoi numerosissimi fratelli, ma lo era anche per Genova. Avignone è infatti un importante centro d'informazioni importanti e funziona da relé tra Parigi e le capitali italiane. Di conseguenza nei secoli successivi molti genovesi chiedono e ottengono il posto di vice-legato ad Avignone.

Ferdinando de' Medici

Sin dalla nascita nel 1549 Ferdinando de' Medici appare destinato al palcoscenico internazionale. Figlio di Cosimo I e Leonora di Toledo, è tenuto a battesimo da Ferdinando d'Asburgo, fratello dell'imperatore Carlo V e re di Boemia e d'Ungheria. Senonché è soltanto il quintogenito e quindi, per il momento, tutti gli onori sono per i fratelli maggiori: Francesco, che deve succedere al padre; Giovanni, destinato a divenire cardinale; e Garzia, cui spetta il patrimonio materno. Ma la sorte ha in serbo per lui ben altre possibilità.
Nell'ottobre del 1562 Cosimo va a caccia in Maremma e porta con sé Giovanni, Garzia e Ferdinando. Tutti e tre i figli sono colpiti dalla malaria, ma soltanto il più giovane sopravvive. Alcune malelingue sussurrano che quell'adolescente dall'aria un po' ottusa ha fatto fuori i fratelli maggiori per incamerare i loro beni. Altre voci asseriscono invece che Garzia avrebbe ferito mortalmente Giovanni e poi sarebbe stato ucciso dal padre.
Quest'ultimo ignora i pettegolezzi e decide che Ferdinando deve prendere il posto di Giovanni nel collegio cardinalizio. In un primo tempo Pio IV si oppone, adducendo la malaria contratta dal giovane, ma infine acconsente. Il 6 gennaio 1563 Ferdinando è quindi creato cardinale; è, però, troppo malato per recarsi a Roma, dove giunge solamente l'anno successivo. Nel frattempo il padre ha lasciato a Francesco il governo degli affari correnti. Il vecchio granduca non abbandona comunque il giovane cardinale e cerca di fargli avere un posto di prestigio nella Curia. Ferdinando invece non è così desideroso d'impegnarsi nella vita romana. Torna spesso a Firenze e soprattutto non prende i voti: decisione che più tardi sarà considerata una delle prove che egli ha scientemente pianificato l'eliminazione di tutti i suoi fratelli.
Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV e Ferdinando agisce allora come portaparola del padre, che vorrebbe influenzare l'elezione del nuovo pontefice. Il cardinale è, però, troppo poco addentro alle faccende romane per contare veramente. Di conseguenza non riesce a impedire l'ascesa al soglio pontificio di Pio V Ghislieri, avverso ai Medici.
A questo punto Cosimo teme addirittura per la sicurezza del figlio e lo richiama a Firenze. Dopo poco, tuttavia, i rapporti tra il papa e i Medici si distendono e Ferdinando è rimandato a Roma, dove inizia il suo apprendistato politico. Il giovane cardinale adesso risiede stabilmente nel palazzo di famiglia a Campo Marzio, all'angolo tra piazza Firenze e via dei Prefetti, e si dimostra all'altezza delle aspettative paterne. In poco tempo conquista la fiducia della cerchia di Pio V e in particolare si lega a Michele Bonelli, nipote e consigliere del papa.
Nel conclave del 1572 sfrutta le sue nuove amicizie per sbarrare la strada ad Alessandro Farnese e appoggiare l'ascesa di Gregorio XIII Boncompagni. Il nuovo papa lo ascrive alla Congregazione per le strade e le fontane, una posizione che gli tornerà utile in seguito. Inoltre il patto elettivo rende strettissimi i legami tra le due casate. Nel 1576 Ferdinando organizza il matrimonio di Giacomo, figlio del pontefice, e Costanza Sforza di Santa Fiora. Il 28 settembre dell'anno successivo Giacomo lo accompagna al battesimo dell'unico erede di Francesco de' Medici.
Quest'ultimo è intanto divenuto il secondo granduca di Toscana. Il 21 aprile 1574 Cosimo I de' Medici è infatti morto e ha lasciato a Ferdinando metà del palazzo Firenze a Roma e una rendita vitalizia di 80.000 scudi l'anno. Un appannaggio assai gradito, perché il cardinale mantiene un treno di vita dispendioso - nelle scuderie ha ben 100 cavalli - che gli serve per spiccare nella Curia. Inoltre, sempre per distinguersi, versa pingui offerte all'Arciconfraternita della SS. Trinità dei Pellegrini, della quale è cardinale protettore.
La sua esistenza non è comunque improntata ai soli valori del lusso e della beneficenza. Egli è un protagonista della vita cittadina, anche nei suoi aspetti più misteriosi. Nel 1576, mentre rientra di notte, è, assalito e ferito assieme a un suo staffiere; un altro suo accompagnatore è invece ucciso. Una vendetta dei Farnese? Una tentata rapina? Un regolamento dei conti? Una risposta alla violenza esercitata altre volte dal turbolento seguito del Medici? Le fonti non sciolgono i dubbi, ma i gusti del cardinale offrono altre possibili spiegazioni. Ferdinando ama infatti le compagnie femminili, anche quelle che dovrebbe evitare, perché protette da familiari gelosi, e soprattutto il gioco. Il 27 agosto 1575 Gregorio XIII si vede costretto a biasimarlo pubblicamente per aver perso 30.000 scudi al gioco e lo invita a un comportamento più idoneo alla porpora cardinalizia. Visto che c'è, lo esorta anche a prendere gli ordini sacri. Il Medici non segue i consigli del pontefice, anzi qualche anno più tardi si prende addirittura la rivincita sul figlio di Gregorio XIII e, che nel luglio 1583, lo alleggerisce, assieme a Orazio Ruccellai e al cardinale Maffei, di ben 150.000 scudi.
Ferdinando non è comunque soltanto un gaudente spendaccione. Con il tempo diventa anche uno dei maggiori mecenati romani. Pure in questo campo il suo avversario è il cardinale Farnese. Questi spende somme enormi nella chiesa del Gesù, nel completamento del palazzo di famiglia, nell'acquisto dell'antica villa suburbana di Agostino Chigi (detta da allora la Farnesina), negli Orti Farnesiani sul Palatino e soprattutto nella villa-castello di Caprarola. Ferdinando al contrario non disperde i suoi sforzi e cerca qualcosa che gli dia la massima pubblicità.
Il suo interesse per l'arte inizia in sordina nel 1566, quando fa intagliare i soffitti di Santa Maria in Domnica con le imprese della Vergine. Sei anni più tardi fa affrescare a Jacopo Zucchi le volte del palazzo di famiglia. Commissiona inoltre allo stesso pittore la Messa di San Gregorio, nella quale si fa effigiare, per l'altare dell'oratorio (oggi si trova nella sacrestia) della SS. Trinità dei Pellegrini in via delle Zoccolette.
Nel decennio successivo si volge anche ai libri di pregio. Nel 1584 fa costruire la Tipografia Orientale, che affida al famoso incisore Giovan Battista Raimondi. Nello stesso anno manda Girolamo e Giambattista Vecchietti alla ricerca di codici asiatici. Nel 1586 invia invece Giovan Battista Britti in Etiopia. Inoltre domanda a Filippo Sassetti di procurargli manoscritti dall'India. Molte di queste richieste sono esaudite e alcune delle opere riportategli sono oggi fra i tesori della Biblioteca Apostolica Vaticana, di quella Mediceo-Laurenziana e della sezione Magliabechiana della Nazionale di Firenze. Sassetti inoltre rifornisce il cardinale di stoffe e sementi indiane.
L'acquisto nel 1576 della villa del cardinale Ricci al Pincio è il colpo più spettacolare, nel campo della magnificenza e del mecenatismo. Essa è già una delle più famose residenze romane, ma Ferdinando la ingrandisce, tra il 1577 e il 1585, e trasforma il giardino in un museo all'aperto. Nel 1583 acquista a tal scopo il gruppo delle Niobidi, da poco ritrovate in una vigna della villa Altieri sull'Esquilino. Nel 1584 compra anche la collezione di antichità che orna il palazzo Valle, allora di proprietà dei Capranica. Nel 1587 compra per 200 scudi la conca antica di marmo granito che era dei frati di San Salvatore in Lauro. La risonanza è altissima. Nel 1579 Gregorio XIII si fa ospitare nella villa. Nel marzo 1580 essa è visitata da Montaigne, che la giudica una delle più belle di Roma. Infine l'inviato di Mantova decreta che è senza dubbio la più bella di tutta la città.
Ferdinando è ormai molto conosciuto ed è in grado di affrontare da pari a pari lo scontro finale con Alessandro Farnese. Scontro che si complica per alcuni risvolti boccacceschi. Nel 1585 viene infatti appeso alla statua di Pasquino un cartello sibillino: "il Medico cavalca la mula Farnese". Per i romani ben informati è un'evidente allusione alla tresca tra il Medici e Clelia Cesarini, figlia illegittima del cardinale Farnese. Quest'ultimo ha allora 75 anni: la successione a Gregorio XIII è quindi la sua ultima chance di divenire papa. Tra i due cardinali si scatena una lotta serrata, che coinvolge anche i partiti spagnolo e francese.
Questo duello è di fondamentale importanza per Firenze. Il granduca paventa infatti di essere preso nella morsa dei Farnese, che possiedono il ducato di Parma e Piacenza a nord della Toscana e il ducato di Castro a sud. Francesco de' Medici non dubita delle capacità di Ferdinando, ormai ritenuto da molti il più intelligente fra tutti i cardinali. Tuttavia teme il suo carattere impetuoso e il suo disprezzo per chi non sia di sangue principesco. Gli affianca allora il proprio segretario Belisario Vinta e spera che quest'ultimo sappia tenerlo a freno.
Ferdinando si comporta invece benissimo e recupera una situazione apparentemente compromessa. Alessandro Farnese guadagna subito l'appoggio di Filippo Boncompagni e dei cardinali spagnoli; però, il Medici gli contrappone il cardinale Alessandrino e Marco Sittich, capo dei cardinali fatti da Pio V. I due avversari sono ora in posizione di stallo, ma Ferdinando riesce a convincere il cardinale Madruzzo, appena giunto a Roma, dell'improponibilità del Farnese. Madruzzo si adopera quindi presso gli altri membri del partito spagnolo, affinché non sostengano la candidatura farnesiana.
A questo punto si mormora che Felice Peretti potrebbe divenire papa, ma il Farnese è sicuro che Ferdinando non possa avallare questa scelta. Francesco Peretti, nipote di Felice, è stato ucciso da Paolo Giordano Orsini, cognato di Ferdinando. Quindi, sostenendo Peretti, il Medici rischia di far condannare un congiunto. Alessandro Farnese sottovaluta, però, Ferdinando che gioca il tutto per tutto per eliminare il suo avversario. Il cardinale fiorentino si accorda con i colleghi d'Este, Bonelli e Altemps e appoggia l'elezione di Sisto V Peretti il 24 aprile 1585.
Questa mossa è indubbiamente coraggiosa e mette a tacere per sempre Alessandro Farnese. Tuttavia il futuro è ora incerto per i Medici e i loro congiunti. Inizialmente tutto procede per il meglio. Gli Orsini sono perdonati dal nuovo papa. Ferdinando è promosso al titolo di S. Eustachio ed è nominato presidente della commissione per il ripristino dell'Acqua Alessandrina, in virtù del suo precedente incarico alle strade e fontane.
Proprio da questa nomina nascono, però, i primi screzi. Il papa ha fretta di realizzare il progetto, che da lui prenderà il nome di Acqua Felice, ma Ferdinando è contrario a spese esagerate e soprattutto a lavori affrettati. Nel 1585 Sisto V comanda al cardinale di acquistare una vena d'acqua, che scaturisce dal monte al di là del "Pantano de' Grifi", e di utilizzarla per rifornire la piazza antistante S. Maria degli Angeli: due anni dopo l'ordine non è ancora eseguito. L'acquedotto Felice è infine realizzato con le economie desiderate dal Medici, il quale si scontra più volte con il papa. Quest'ultimo comunque concede nel 1587 alcune once dell'Acqua Felice al cardinale, che così risolve, una volta per tutte, il rifornimento idrico della villa sul Pincio. La stessa sceneggiatura si ripete quando Ferdinando entra nella commissione per l'erezione dell'obelisco di piazza di San Pietro. Quasi naturalmente Sisto V e il Medici patrocinano due progetti diversi. Questa volta è, però, il papa ad avere la meglio, forse perché Ferdinando non ha in questo campo un interesse materiale da difendere.
I dissensi tra Felice Peretti e Ferdinando de' Medici divengono presto numerosi e violenti. Tuttavia il secondo non abbandona la posizione di privilegio nella Curia, anzi si rivela attivo collaboratore della politica estera del papa, in particolare per quanto concerne la difesa del cattolicesimo in Polonia e i rapporti con la Spagna. Nonostante gli screzi, il 7 gennaio del 1587 Ferdinando ottiene il titolo cardinalizio di S. Maria in via Lata e diviene il primo dei cardinali diaconi.
Stravince quindi su tutta la linea, ma i Farnese si prendono l'ultima vendetta. Il 27 giugno 1587 Ferdinando è invitato a una partita di caccia alle rondini nei pressi di Ponte Milvio. Mentre è fuori Roma, il cardinale Farnese obbliga Clelia Cesarini a seguirlo a Ronciglione. Alla fine dell'estate l'amante di Ferdinando è scortata da ben 150 armati nel ducato di Parma e le è impedito di rientrare nella città eterna. Gli Avvisi di Roma, la gazzetta del tempo, sottolineano che la rappresaglia farnesiana è avvenuta con il consenso del papa. Nei mesi successivi è tutto un susseguirsi di pettegolezzi. Si lascia intendere che Clelia è incinta, si dà per certo che i Farnese hanno fatto sposare e partire da Roma tutte le damigelle della giovane. Una notizia del 1 luglio rivela che Ferdinando ha arruolato "altre lance spezzate", che lo seguono dovunque vada. Una settimana dopo il papa si reca a Villa Medici, ma, a dire dei gazzettieri, si sarebbe portato da mangiare e da bere. Infine è annunciato il matrimonio di Clelia Cesarini con il marchese di Sassuolo.
Non è possibile ipotizzare cosa sarebbe accaduto, se Ferdinando fosse rimasto ancora in Curia. Poteva divenire l'erede di papa Peretti? Sarebbe stato alla fine scacciato? Avrebbe saldato i conti con il papa e i Farnese? Sono interrogativi del tutto accademici, perché la sua vita conosce una nuova svolta: ancora una volta grazie alla morte improvvisa di un fratello.
Negli anni 1580 la successione a Firenze si riapre. Francesco I è malandato ed inoltre privo di erede. L'unico figlio maschio di primo letto è infatti morto, mentre la seconda moglie, Bianca Cappello, non ha generato un erede ufficiale. Ferdinando aspira al granducato; però, Bianca e il granduca hanno avuto un figlio prima delle nozze e Francesco potrebbe riconoscerne la legittimità. Il cardinale si preoccupa quindi di acquistare appoggi a corte e di seguire gli accadimenti da presso.
Nell'ottobre 1587 è chiamato a Firenze: il fratello giace gravemente ammalato di malaria nella villa di Poggio a Caiano. La notte del 19 ottobre 1587 Francesco muore improvvisamente, seguito nelle prime ore del 20 dalla moglie, vittima della stessa malattia. Ferdinando coglie al volo l'occasione e fa occupare i punti nodali del granducato da uomini a lui fedeli. Il 20 stesso entra poi a Firenze, pronto a tutto. Invece è acclamato dal popolo che spera nella sua fama di munifico. Nessuno quindi si preoccupa dei diritti di Antonio, il figlio illegittimo del granduca e di Bianca Cappello.
Naturalmente non passa inosservato che per la seconda volta Ferdinando tragga benefici della morte di un fratello, tanto più che Bianca Cappello è deceduta così rapidamente. Ora tornano nuovamente di moda le chiacchiere sull'uccisione di Giovanni e Garzia de' Medici: sembra che la malaria sia un'alleata stretta di Ferdinando ed è facile fare insinuazioni sull'uso sapiente dei veleni da parte di chi ha vissuto tanto a lungo nella Curia che era stata dei Borgia! Ferdinando non si difende direttamente, ma fa diffondere la voce che il fratello sia morto per sbaglio. Avrebbe infatti mangiato una torta avvelenata, che Bianca Cappello aveva preparato proprio per il cardinale. La granduchessa si sarebbe suicidata, una volta scoperta.
Una settimana dopo la morte del fratello, Ferdinando ha saldamente in mano il granducato e lascia per sempre Roma, dove non mette più piede. Sisto V non intralcia i piani del nuovo granduca, che già da semplice cardinale era un alleato assai ingombrante. Tuttavia esige che rinunzi al cardinalato prima di prendere moglie. Ferdinando, che a lungo indossa ancora la veste cardinalizia, accetta di dare le dimissioni soltanto nel novembre 1588, ma contratta la propria successione. Il terzo granduca di Toscana è infatti un diplomatico integrale, che trae spunto per contrattare da qualsiasi contingenza.
Alla fine dell'ottobre 1587 Ferdinando de' Medici è sicuro della successione al fratello Francesco I e decide di riprendere i disegni di Cosimo I per fare del granducato una potenza europea. In particolare tenta di assicurare ai propri domini la stabilità necessaria al pieno sviluppo delle capacità commerciali toscane e della propria famiglia.
Nei successivi venti anni la politica di Ferdinando procede quindi su due piani paralleli, nei quali gli interventi in quanto granduca non sono mai disgiunti dall'attività di affarista internazionale. Tuttavia nel primo lustro di governo la precedenza è data alla ricerca della stabilità interna.
Non appena ha in mano le redini, Ferdinando rivoluziona l'amministrazione medicea. Dodici giorni dopo la morte del fratello amplia la segreteria granducale introducendovi uomini fidati. In genere, tuttavia, non espelle dagli organi dello stato i membri dell'aristocrazia entrativi in precedenza, né il ceto burocratico formatosi sotto il padre e il fratello. Fa invece in modo che nessun funzionario possa muoversi senza che egli ne abbia sentore.
Il granduca infatti non vuole soltanto il controllo a breve termine degli organi governativi, ma vuole realizzare trasformazioni istituzionali tali da garantire il proprio potere assoluto. In questa prospettiva riforma le magistrature dello stato di Siena (1588), gli statuti delle arti della lana (1589), l'Ordine di Santo Stefano (1590), gli statuti dei mercatanti (1592). Si tratta solo di ritocchi, ma comunque mirati a indebolire le pretese e il raggio d'azione dei funzionari.
Contemporaneamente si impegna in una guerra senza quartiere al banditismo e a qualsiasi spinta centrifuga. Crea nuove circoscrizioni giurisdizionali, quali il Capitanato della Montagna dell'Amiata (1590), che in poco tempo gli permettono di far accerchiare i banditi e cacciarli dalla Maremma senese, dalla Val di Magra, dalla Bassa Lunigiana, dalla Romagna fiorentina, dalla montagna pistoiese e dai confini con i feudi dei Malaspina e con i ducati di Parma e di Modena. In cinque anni riconquista con le armi quella pace interna che il fratello non era riuscito a salvaguardare e soprattutto garantisce la sicurezza delle zone di confine, dove spesso banditi e aristocratici avevano operato di conserva ai nemici di Firenze.
Il predominio militare non basta comunque al granduca: egli infatti ritiene che una combinazione di costrizione e consenso assicuri una maggiore stabilità e guadagni più sicuri. Per impedire che il banditismo rinasca, Ferdinando affronta quindi il problema delle carestie e tenta di aumentare la resa agricola della Toscana. Da un lato, quindi, assicura l'approvvigionamento cerealicolo; dall'altro, punta a migliorare la produzione agricola.
Per raggiungere il primo obiettivo incrementa i commerci con l'Europa del Nord: già durante la carestia del 1590-1591 navi olandesi e inglesi scaricano a Livorno ingenti quantitativi di grano. Il granduca scongiura così la fame e le sue inevitabili ripercussioni sociali. Inoltre realizza lauti guadagni: un terzo delle importazioni è infatti di sua proprietà personale. Negli anni successivi accresce continuamente le importazioni e il proprio monopolio. Conquista così il controllo di tutti i movimenti di cereali in Toscana e nel primo decennio del secolo successivo non vi è più partita di grano che non dipenda in qualche modo da lui.
Per incrementare la produzione il granduca fa bonificare alcune aree paludose, in particolare la Val di Chiana, la Maremma senese, la Valdinievole e la piana pistoiese. Nelle terre di sua proprietà - Ferdinando è uno dei maggiori proprietari della regione - bonifica fasce che sono poi coltivate a grano, oppure impianta risaie. In tale contesto ingrandisce le ville familiari e le trasforma in centri di raccolta e di controllo.
Attorno a Montevettolini, Artimino, l'Ambrogiana e Poggio a Caiano si articolano le sue proprietà più importanti e più dinamiche, che sono continuamente ampliate mediante donazioni più o meno forzate. I beni dei cavalieri di S. Stefano di Altopascio vanno, per esempio, ad aumentare i possessi medicei nella bassa Valdinievole e sono amministrati dalla villa di Montevettolini.
La strategia granducale non si ferma qui, ché, anzi, a partire dalle proprie ville Ferdinando cerca di attuare il collegamento tra produzione sul luogo e mercato. Sempre a Montevettolini l'ampliamento e la riorganizzazione della proprietà medicea sono subito seguiti dalla creazione di una fiera settimanale. Questa a sua volta comporta la costruzione di una loggia per i mercanti, l'allargamento della strada e il miglioramento del sistema idrico.
Interventi simili sono realizzati dovunque Ferdinando I voglia incrementare la resa agricola e facilitare la commercializzazione di quanto prodotto. L'elenco dei lavori pubblici compiuti in tal senso è degno di nota. In tutta la Toscana egli fa curare la rete stradale e quella fluviale, il sistema idrico e persino quello fognario. Tali lavori procedono sempre di pari passo con lo sviluppo dell'agricoltura, anzi spesso quest'ultimo è previsto come corollario. La risistemazione delle arterie Firenze-Pisa e Firenze-Pistoia è completata dalla piantumazione di gelsi lungo la strada, in modo da garantire che la produzione di seta toscana non dipenda soltanto dalle esportazioni. In quest'ultimo caso il tentativo non riesce, ma più per la congiuntura negativa dell'industria serica italiana che per un'errata conduzione da parte degli uomini del granduca.
La strategia volta ad assicurare la pace e la prosperità del granducato prevede anche un ruolo attivo nella politica e nella diplomazia internazionale. In questo campo Ferdinando si rifà spesso all'esperienza romana: del resto la città eterna, dove pure non ritorna più, è sempre al centro dei suoi interessi. A Roma mantiene uomini fidati e fa concludere o rafforzare accordi che hanno ripercussioni europee. Inoltre nel primo decennio di governo egli tratta con Roma, con Venezia e con Mantova per contrastare il predominio spagnolo in Italia.
Al contrario del fratello, che si era alleato a Filippo II, Ferdinando è convinto che la Spagna abbia fatto il suo tempo e quindi opera in modo da sganciarsi dall'ingombrante alleato. In chiave antispagnola egli cerca perciò sostegno in Francia, nonostante questa sia divisa dalle guerre di religione. Grazie ai buoni uffici di Caterina de' Medici, sposa nel 1589 Cristina di Lorena. Nello stesso anno contatta inoltre Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV, che finanzia e assiste nell'ascesa al trono francese.
Ferdinando cura con attenzione questo suo investimento politico ed economico e fa comprendere al suo protetto che Firenze non è soltanto una banca. Così nel 1591 fa occupare dalle sue navi il castello d'If, di fronte a Marsiglia. Lo scopo dichiarato è quello di impedire che cada nelle mani degli spagnoli. In realtà il castello è da lui considerato un pegno della fedeltà francese: lo rende infatti soltanto nel 1598, facendosi tra l'altro pagare profumatamente la restituzione.
Nel suo gioco complicato, Ferdinando fa da tramite fra Roma e la Francia. Nel 1593 consiglia a Enrico IV di convertirsi al cattolicesimo e in seguito opera affinché la conversione sia accettata dal papa. A tal fine organizza una complicata partita di scambio. Clemente VIII infatti riconosce Enrico IV e questi contraccambia appoggiando il pontefice in Polonia. In particolare convince Sigismondo III Vasa, nuovo re polacco, dall'affidabilità di Roma, nonostante che Annibale Di Capua, nunzio in Polonia, abbia sostenuto la candidatura di Massimiliano d'Asburgo quale successore di Stefano Bathòry.
La politica antiasburgica in Polonia non fa che ribadire la posizione antispagnola del granduca. Nell'ultimo decennio del secolo si rivolge persino all'Inghilterra, con la quale i mercanti toscani intrattengono da tempo rapporti amichevoli. Ferdinando va tuttavia ben oltre i semplici scambi commerciali e nel 1591 fa sapere alla regina Elisabetta la data di partenza dall'Avana della flotta spagnola. Nel messaggio è anche specificato che il carico è prezioso e che bisogna avvertire Francis Drake, il famoso corsaro.
Anche con l'Inghilterra Ferdinando ricorre comunque a una politica del bastone e della carota. Quando quattro navi pirate inglesi entrano nel Tirreno senza previo avvertimento, il granduca le fa arrembare e sequestrare. Gli inglesi possono associarsi a lui nella guerra di corsa, ma non devono sottovalutarlo. D'altra parte è ben difficile considerarlo un semplice uomo di paglia. Formatosi nella Curia romana, Ferdinando non punta mai su un solo tavolo e interviene dovunque possa guadagnare qualcosa. In Polonia taglia la strada agli Asburgo, ma nel 1594 finanzia la guerra contro i turchi dell'imperatore Rodolfo II. Nel 1595 manda una spedizione in Transilvania per aiutare Sigismondo Bathòry contro i turchi. Nel 1601 invia il fratellastro Giovanni de' Medici in aiuto di Rodolfo II.
Queste precauzioni si rivelano ben fondate. I termini della pace di Vervins (1598) tra Francia e Spagna non piacciono al granduca, nonostante siano stati contrattati da un membro della sua famiglia (vedi più avanti): Ferdinando teme infatti di essere piantato in asso dall'alleato francese. Egli cerca dapprima di rafforzare i legami con Enrico IV, cui dà in sposa Maria de' Medici, figlia di Francesco I, il 5 ottobre 1600. Neppure un anno dopo, però, il re francese cede ai Savoia il marchesato di Saluzzo, da tempo appetito da Ferdinando I. Quest'ultimo giudica allora che la situazione si è fatta troppo pericolosa, tanto più che la Spagna preme sui confini toscani: Garcia di Toledo, vicerè di Napoli, fa costruire la fortezza di Portolongone all'Elba e Filippo III fa occupare il feudo degli estinti Appiani di Piombino. Nel 1602 Ferdinando sonda quindi la disponibilità del monarca spagnolo, presso il quale fa valere l'assistenza finanziaria e militare agli Asburgo nell'Europa orientale e al quale offre anche aiuto nelle Fiandre.
Le trattative con la Spagna durano sei anni: infine il 28 giugno 1608 è siglato l'accordo e il futuro Cosimo II sposa Maria Maddalena d'Austria. La Toscana rientra nell'orbita spagnola e Ferdinando ottiene l'investitura del feudo di Pitigliano, cedutogli dagli Orsini nel 1606. Il granduca è quindi caduto in piedi, ma il ribaltamento di alleanze non è spiegabile solamente come reazione obbligata al mancato appoggio francese. Ancora una volta Ferdinando guarda più avanti degli altri regnanti della Penisola e nutre sogni inimmaginabili per i suoi contemporanei italiani.
Nell'ultimo decennio del Cinquecento l'alleanza con la Francia gli ha permesso di liberarsi dalla tutela spagnola e di trattare con l'Inghilterra. Quest'ultima lo ha messo in contatto con i mercanti olandesi in lotta con la Spagna e Ferdinando ha potuto limitare i danni della grande carestia del 1590-1591, proprio grazie al grano trasportato a Livorno dalle navi olandesi. Il rapporto con l'Inghilterra è ora ben saldo e, una volta chiarite le precedenze per la pirateria nel Mediterraneo, il granduca non disdegna di spartire il bottino dei pirati inglesi.
Il bersaglio di queste azioni di pirateria non sono tuttavia le sole navi spagnole, ma anche quelle turche. Livorno non è soltanto un porto commerciale, ma anche la base della flotta militare medicea, che viene potenziata da Ferdinando I in modo da contrastare la supremazia ottomana. Inoltre egli affida ai cavalieri di Santo Stefano la lotta contro navi e avamposti turchi.
Il distacco dalla Francia rafforza gli intenti antiturchi e il primo decennio del Seicento vede un crescendo di imprese militari e diplomatiche contro l'impero ottomano. Nel 1607 i cavalieri di Santo Stefano tentano di sbarcare a Famagosta e devastano Bona, sulla costa nordafricana. Nel 1608 catturano al largo di Rodi 40 navi della famosa Caravana d'Egitto. Inoltre Ferdinando allaccia rapporti con Giambulat, pascià di Aleppo, e con Fakhr-ed-Din, principe dei Drusi di Siria, fomentando la costruzione di un fronte avverso al Sultano.
In questo quadro l'avvicinamento alla Spagna garantisce alla Toscana basi e sostegno nel Mediterraneo. Offre inoltre uno sbocco oceanico alla flotta medicea, che inizia ad affacciarsi sulla costa atlantica dell'Africa. Nel 1604 firma un trattato con il re di Fez e ottiene il libero uso del porto atlantico di Larache, che diviene la base per il contrabbando toscano nel Brasile. Nel 1608 il granduca si interessa addirittura alla possibilità di colonizzare la Sierra Leone.
Nel contesto di questi traffici su scala mondiale il porto franco di Livorno conosce uno sviluppo rapidissimo, diventando una piattaforma di interscambi tra il Levante e l'Europa, tra l'area mediterranea e quella atlantica. Le stesse franchigie commerciali o religiose (in difesa dei protestanti, degli Ebrei e persino dei "mori") trasformano il piccolo porto nel terminale delle grandi correnti dei traffici internazionali. Nel 1605 le navi che vi attraccano sono quintuplicate rispetto al 1578. Contemporaneamente cresce anche la potenza economica di Ferdinando che agli inizi del secolo controlla ormai il mercato internazionale dei grani. E' universalmente noto come uno degli uomini più ricchi di tutto il continente europeo e opera al centro di una rete di corrispondenti (soci, fattori, informatori, vere e proprie spie) che si estende dall'Europa centro-orientale all'Inghilterra, dalla penisola iberica alle Americhe, dall'Italia al Levante e alle Indie orientali.
Nel 1600 Bartolomeo Cenami stima a 300.000 scudi annui le entrate granducali, frutto del commercio, ma anche di imprese meno lecite. Tra queste vi è sempre la guerra di corsa e infatti Ferdinando continua a finanziare l'arrembaggio inglese ai galeoni spagnoli. Ormai, però, il granduca ha mire ancora più alte: non vuole più raccogliere le briciole della colonizzazione del Nuovo Mondo, ma desidera partecipare direttamente alle imprese coloniali e imitare le compagnie commerciali inglesi. Nella scia della compagnia della Moscovia entra in contatto con lo zar Boris Godunov, inoltre inizia a pensare alle Indie Occidentali e a quelle Orientali.
Già ai tempi della Tipografia Orientale a Roma, Ferdinando aveva chiesto a Filippo Sassetti informazioni sull'India. Nel 1606 riprende questa idea e convoca Francesco Carletti, che rientra a Firenze dopo un giro del mondo iniziato nel 1591. Carletti narra le sue peripezie al granduca ed è incaricato di studiare la possibilità che Livorno diventi un centro di traffici con l'Estremo Oriente. L'India e il Giappone si rivelano, però, fuori della portata toscana; Ferdinando si volge allora alle Indie Occidentali, contando di sfruttare i buoni rapporti con Spagna e inghilterra. Nel 1604 chiede al suo ambasciatore a Madrid ragguagli sulla Nuova Spagna e sul Perù, dove vorrebbe ottenere feudi per i figli minori.
Il 30 agosto 1608 Baccio da Filicaia gli invia una lettera da Lisbona, nella quale è ricostruita la storia della conquista portoghese del Brasile. Neanche un mese più tardi una caravella e una tartana sono armate a Livorno e sono affidate al capitano Robert Thornton, giunto in quel porto tre anni prima rimorchiando una preda di guerra. Il viaggio è preparato con cura e Ferdinando fa chiedere a Robert Dudley, che ha visitato l'Amazzonia nel 1595, una mappa e istruzioni per Thornton. Dudley consiglia a quest'ultimo di cercare l'oro sulle rive del Rio delle Amazzoni e dell'Orinoco. Ferdinando più prosaico fa caricare balle di merci e pensa alla possibilità di un avamposto commerciale brasiliano. Thornton approda in Guyana e in Brasile, esplora i due fiumi e visita anche la Caienna e Trinidad. Rientra infine il 12 luglio 1609 a Livorno, ma il 7 febbraio di quell'anno Ferdinando I è deceduto e il capitano inglese non trova nessuno cui riferire la sua avventura.
Alla sua morte Ferdinando è celebrato soprattutto per aver salvaguardato i sudditi dalla fame. L'intera popolazione toscana infatti dipende ormai dai rifornimenti granducali. Ferdinando ha ottenuto così un duplice risultato: ha avuto in pugno i suoi sudditi ed è divenuto uno dei più grandi uomini d'affari d'Europa. Tuttavia non si è fermato qui e, unico fra i principi italiani, ha sognato di trasformare la Toscana in una vera potenza internazionale. Potenza commerciale e marittima, in grado di trattare da pari a pari con l'impero spagnolo e con quello ottomano e soprattutto capace di fuoriuscire dal Mediterrano.

Alessandro de' Medici

Alessandro de' Medici nasce a Firenze il 2 giugno 1536 in un ramo collaterale della famiglia ducale. Sembra che, rimasto orfano di padre, sia affascinato dall’insegnamento del domenicano Vincenzo Ercolani. La madre, temendo che l’unico figlio maschio entri in religione, per giunta in ambiente ancora intriso del ricordo di Savonarola, chiede aiuto a Cosimo I, cugino in secondo grado del giovane. Il duca se lo tiene vicino, ma non vuole immischiarsi nelle scelte del parente.
Nel 1560 Alessandro accompagna il duca a Roma e si ferma dal cugino Giovanni Battista Salviati, che lo presenta a Filippo Neri, dal quale è molto colpito. Rientrato a Firenze prosegue a frequentare la corte e ambienti religiosi. La madre spira nel 1566, lasciandolo libero di disporre della propria esistenza. Alessandro decide quindi di prendere gli ordini con il consenso di Cosimo I, del cardinal Francesco Salviati e di Antonio Altoviti, arcivescovo di Firenze.
E' ordinato sacerdote da Altoviti il 22 luglio 1567 e nello stesso anno è nominato da Cosimo I cavaliere di S. Stefano. Si ritira poi nelle vicinanze di Firenze, ma il duca lo richiama per designarlo ambasciatore a Roma, il 10 giugno 1569, desiderando avere qualcuno della famiglia accanto al cardinal Ferdinando. Alessandro non conosce, però, l’ambiente romano e Francesco de' Medici si preoccupa di raccomandarlo alla benevolenza di Guglielmo Sirleto. Inoltre è posto sotto la protezione del cardinale Francesco Pacheco, che, assieme a Michele Bonelli, lo presenta a Pio V, cui il fiorentino fa buona impressione. Inizia così sotto i migliori auspici una permanenza destinata a durare sino al febbraio 1584. E' nominato protonotario apostolico il 20 giugno 1569 e si deve subito mettere all’opera per giustificare la posizione della Corona francese nella guerra di religione in corso. Il 3 agosto di quell’anno segnala al duca che il papa è mal disposto verso il re francese, perché quest’ultimo non ha schiacciato gli ugonotti dopo la vittoria di Jarnac.
In quei primi anni deve soprattutto affrontare gli attacchi spagnoli alla politica filofrancese di Firenze. Tale opposizione cresce, quando Cosimo I tenta di far avere a Caterina de’ Medici la dispensa per il matrimonio di Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV, e Margherita di Valois, sorella di Enrico III. Il 28 agosto 1571 Alessandro de’ Medici, su consiglio di e accompagnato da Antonio Maria Salviati, si presenta a Pio V, sollecitandone l’intervento, ma in questo e in successivi incontri il papa dichiara di essere disposto ad acconsentire solo se il Navarra e l’ammiraglio Gaspard di Coligny si convertono.
In quei mesi l’ambasciatore fiorentino a Roma, coadiuvato anche dal suo omologo in Francia, Giovanni Maria Petrucci, si adopera per scalzare il nunzio pontificio a Parigi, Flavio Mirto Frangipani. Questi è infatti ritenuto il principale ostacolo al matrimonio in questione e Alessandro ritiene che sia lui ad aver convinto il papa a tenere duro, persino di fronte alle minacce di scisma ventilate da Caterina de’ Medici. Petrucci diffonde quindi la voce che Frangipani è uomo dei Guisa e di Filippo II; Alessandro de’ Medici fa sapere alla Curia romana che lo stesso è invece troppo legato a Caterina de’ Medici per badare agli interessi del papa e che avversa Firenze perché del partito di Ferrara. Le accuse sono troppo disparate, ma i fiorentini vogliono allontanare ad ogni costo il loro avversario. D’altronde nel loro gioco entra pure il tornaconto privato: Antonio Maria Salviati conta infatti di prendere il posto di Frangipani. Alessandro spera invece di minare la credibilità degli inviati spagnoli, tanto più che il papa tiene i fiorentini all’oscuro di quanto discusso nella Lega antiturca. Entrambe le manovre falliscono, quando la vittoria di Lepanto rafforza la posizione spagnola e riduce il credito fiorentino in Curia. Il 19 ottobre Alessandro de’ Medici deve così rivelare al duca che la fiducia del pontefice in Frangipani è solidissima.
In questa prima fase della sua carriera, Alessandro è molto legato al cardinal Ferdinando de' Medici, con il quale ha una consuetudine quotidiana. Tuttavia il suo maggior referente romano resta Filippo Neri, con il quale riannoda i contatti non appena arrivato a Roma. L’ambasciatore mediceo diviene allora ospite abituale dell’Oratorio e si lega fortemente a quell’ambiente, tra l’altro molto favorevole alla Francia.
I suoi primi passi non gli valgono la confidenza granducale, né quella del cardinale Ferdinando e, quando muore Pio V, Cosimo invia a Roma Bartolomeo Concini, suo primo segretario, e Belisario Vinta. Concini alloggia presso l'ambasciatore, ma, a dire di quest’ultimo, non tiene conto dei suoi suggerimenti. Alessandro de' Medici non cerca di imporsi, tanto più che spera come il duca nell'elezione del cardinale Ugo Boncompagni. Utilizza quindi le proprie conoscenze per coadiuvare gli sforzi di quello che sarebbe divenuto Gregorio XIII e boicottare la campagna avversa condotta dal cardinal Farnese.
Dopo l’elezione sia Concini, sia Ferdinando de' Medici si attribuiscono ogni merito: in particolare il cardinale di casa Medici si dice sicuro della riconoscenza del nuovo pontefice. Alessandro, relegato in secondo piano, è meno convinto della possibilità di avvantaggiarsi dell’ascesa di Gregorio XIII e sfrutta la propria amicizia con Diomede Leoni, vecchio e astuto curiale, per entrare in contatto con Matteo Contarelli, il nuovo datario. Ha così un accesso privilegiato al pontefice, che gli conferma stima ed amicizia. Tale favore gli torna presto utile, quando si apre la successione alla diocesi pistoiese: Ferdinando infatti non vede di buon occhio la nomina del cugino e cerca di dissuaderlo. Ad Alessandro pare invece un’ottima occasione, che gli potrebbe permettere di abbandonare la posizione di ambasciatore e di sfuggire alle sfuriate di Firenze e del cardinale de’ Medici. Con l'appoggio pontificio riesce quindi a farsi nominare vescovo di Pistoia il 9 marzo 1573.
Medici deve comunque rimanere a Roma, ma governa la diocesi tramite Bastiano de’ Medici e fa applicare i decreti tridentini, in particolare costringe i parroci a rispettare l’obbligo di residenza. Ha, però, poco tempo per occuparsi di Pistoia. Il 27 dicembre 1573 Francesco de’ Medici scrive infatti a Gregorio XIII, comunicandogli la grave malattia di Altoviti, l’arcivescovo di Firenze. Due giorni dopo ne annuncia la morte e sottolinea che Cosimo I avrebbe accolto con piacere la nomina di Alessandro. Il 4 gennaio 1574 il cardinale Tolomeo Galli risponde a nome del papa che a Roma tutti concordano con la scelta del duca.
In realtà il cardinale Ferdinando de’ Medici non è affatto d’accordo, tanto più che ormai considera Alessandro non soltanto come il controllore impostogli dal padre e dal fratello, ma anche come un pericoloso concorrente. Ancora una volta, però, la volontà granducale trova riscontro nel rapporto privilegiato tra l’ambasciatore fiorentino e Gregorio XIII: il 15 gennaio 1574 Alessandro è quindi traslato da Pistoia a Firenze. Anche in questo caso è obbligato a restare a Roma, tuttavia amministra senza problemi la diocesi, utilizzando sempre Bastiano de' Medici come vicario. In particolare si preoccupa della riforma del clero regolare e di quello secolare e già nel 1575 promuove una visita pastorale, condotta da Paolo Ceccarelli, cancelliere pistoiese.
Il suo governo a distanza, pur apprezzato da molti, non è, però, esente da critiche: ciò soprattutto perché il nuovo arcivescovo e i suoi uomini entrano in conflitto con i canonici della cattedrale, dei quali non rispettano i privilegi, e soprattutto con l’ambiente nutrito di ideali savonaroliani. Su questa opposizione Medici si dilunga in due lettere del 1583 a Francesco I, nelle quali sottolinea come i suoi avversari mirino a indebolire l’autorità ecclesiastica e quella granducale. In questo scontro Medici ha l’appoggio di papi e granduchi, nonché quello della Curia generale dei Domenicani: nel gennaio 1585 Sisto Fabbri, generale dell’Ordine, conduce una visita per stroncare l’opposizione all’arcivescovo. Tuttavia non riesce a impedire il ricorrere delle polemiche e il protratto braccio di ferro con oppositori che sono profondamente radicati nella città e nella Chiesa fiorentine.
Nel frattempo Alessandro utilizza la relazione tra Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello, per guadagnarsi la fiducia del primo. Naturalmente ciò aggrava il suo dissenso con Ferdinando, il quale mette in giro la voce che l’ambasciatore-arcivescovo non si preoccupa più del benessere della propria città, ma mira soltanto al cardinalato. Ferdinando inoltre cerca di imporsi come mediatore tra Alessandro e i canonici della cattedrale di Firenze, a tutto svantaggio del primo, tanto che alla fine deve intervenire Gregorio XIII in difesa del presule. Nonostante l’opposizione del potente cugino, Alessandro ottiene comunque il cappello cardinalizio il 12 dicembre 1583.
A più riprese Medici ha tentato di abbandonare Roma: la lontananza dalla sede episcopale è infatti in evidente contraddizione con i principi che difende, come gli fa notare nel 1582 Carlo Borromeo. Tuttavia nel 1583 Gregorio XIII gli dice esplicitamente che non può abbandonare la città eterna senza il consenso granducale. Questo infine giunge e il 12 maggio 1584 l’arcivescovo prende possesso della sua diocesi. La sua attività riformatrice diviene ancora più veemente e culmina nel sinodo del 1589. In esso e grazie ad esso l’arcivescovo cerca di ridelineare la figura morale del sacerdote in generale e del parroco in particolare. Ribadisce inoltre l’importanza dell’Indice dei libri proibiti e impone uno strettissimo, ma di fatto spesso disatteso, controllo sulle botteghe librarie.
Medici passa il resto degli anni 1580 nella sua diocesi, dove diviene un punto di riferimento per i nunzi pontifici a Firenze. D’accordo con il granduca Ferdinando I, succeduto al fratello, opera per rivalutare il passato religioso della città, tramite la ricognizione delle reliquie dei santi, e contribusce all’introduzione delle Quaranta Ore.
Non abbandona comunque lo scenario romano, anzi rafforza i suoi contatti, cosicché il cardinal Alessandro Peretti, pronipote di Sisto V, lo presenta come papabile nel conclave che elegge nel 1590 Niccolò Sfondrati (Gregorio XIV). E' riproposto anche nel 1591, quando la ferma opposizione spagnola gli fa preferire Gian Antonio Facchinetti (Innocenzo IX). In questa circostanza Alessandro decide di appoggiare il proprio avversario, scatenando le ire di Ferdinando I, cui il cardinale risponde duramente di non essere il suo "schiavo".
Dal 1590 Alessandro vive stabilmente a Roma e la sua posizione diviene centrale sotto Clemente VIII, che lo ascrive alle Congregazioni dei Riti e delle Strade e lo fa partecipare, come Alessandro spiega a Ferdinando I il 30 maggio 1592, "a tutte le cose di fabbrica e di palazzo e di suore". Da Roma comunque preme sul cugino, perché appoggi la riforma dei monasteri, soprattutto femminili. In cambio il cardinale agisce nuovamente da intermediario fiorentino nella città eterna. Così nel 1592 tratta con Clemente VIII per la riduzione della manomorta ecclesiastica nello stato mediceo, ma il papa resta fermo sulla sua posizione e il cardinale e il granduca non sanno dargli torto, pur sperando in un qualche contenimento delle sue pretese.
Alessandro de' Medici riprende inoltre a interessarsi delle questioni francesi, spinto da Ferdinando I e da Filippo Neri. In particolare utilizza il suo ascendente per chiedere al papa di assolvere dalle censure Enrico IV di Francia, convertitosi a Saint-Denis il 25 luglio 1593. Il pontefice è favorevole a un’apertura alla Francia, ma teme la reazione spagnola: Medici lo conforta e contemporaneamente guida abilmente il cardinale Jacques Davy Du Perron, venuto a Roma per difendere la causa del suo sovrano. Clemente assolve il re francese il 17 settembre 1595, nel corso di una fastosa cerimonia.
E' quindi inevitabile che il pontefice pensi al cardinale de’ Medici, quando si prospetta la necessità d’inviare in Francia un legato affiancato dal nunzio Francesco Gonzaga. Alessandro non è particolarmente contento per la nomina, ma fa in modo di ottenere in cambio numerosi benefici.
La sua missione ha fini ad un tempo diplomatici (ricerca della pace fra Spagna e Francia per organizzare una crociata contro i turchi ed allontanare la Francia dall’Inghilterra e dall’Olanda) e religiosi (restaurare la religione cattolica e appianare le situazioni irregolari provocate dalla vacanza di numerosi seggi episcopali). Per ottenere questo secondo scopo il legato deve far ratificare a Enrico IV l’atto d’abiura e ottenere la pubblicazione dei decreti tridentini e il rientro degli Ordini religiosi in Francia. Entrambi gli obiettivi stanno particolarmente a cuore al papa, che spesso sostituisce il nipote Pietro Aldobrandini nel valutare la situazione e rispondere alle lettere del suo inviato, come mostrano le annotazioni di suo pugno.
Medici parte da Roma l'11 maggio 1596 con un seguito di oltre 200 persone. Si ferma a Firenze il 17 maggio e il granduca lo vuole ospitare a palazzo Pitti. Il 6 giugno è invece ospite di Carlo Emanuele I di Savoia, che gli rivela la sua stanchezza per il continuo guerreggiare, ma adombra anche il sospetto che Medici porti l’oro di Ferdinando I a Enrico IV.
A causa della peste il legato non può passare per Chambery e il 15 giugno prende la strada per il colle del Monginevro: il 22 è a a Lione e il 16 luglio a Montlhéry, dove gli viene incontro il re. Il 21 si rimette in marcia per Parigi, dove entra solennemente. Nel frattempo è scoppiata la polemica sulle sue facoltà: il re ha ovviamente dato il suo placet, ma il Parlamento parigino non vuole accettare i riferimenti al Concilio di Trento nelle bolle papali. Il legato fa allora sapere che non accetta clausole restrittive. La registrazione e la pubblicazione delle facoltà avviene infine con riserva. Comunque il re continua a esprimere pubblicamente il suo favore e il 19 agosto 1596 firma l’atto solenne della propria riconciliazione con la Chiesa.
Alessandro de' Medici rimane ancora due anni in Francia. In questo periodo non risede sempre a Parigi. Dall’8 dicembre 1596 al 2 febbraio 1597 soggiorna a Rouen assieme alla Corte; dall’ottobre 1597 al giugno 1598 si reca in Piccardia, dapprima a Saint-Quentin e poi a Vervins, dove si sposta la conferenza che deve portare alla pace omonima. Nel frattempo il papa decide d'inviare anche Bonaventura Secusi da Caltagirone, generale dei Minori osservanti, per coadiuvare gli sforzi del legato. Il francescano si preoccupa di tenere i contatti fra Enrico IV, Filippo II e il cardinale-arciduca Alberto d’Austria, governatore dei Paesi Bassi. Intanto Medici, le cui facoltà sono state ampliate nel giugno 1597, risolve le questioni d’etichetta e di precedenza e mette d’accordo i plenipotenziari spagnoli e francesi. In particolare presiede senza segni visibili di cedimento, nonostante i sessantatré anni sonati, i negoziati che si susseguono dal 9 febbraio al 2 maggio 1598.
Una volta firmata la pace il cardinale e gli ambasciatori si attardano sino alla fine di maggio a Vervins, quindi Alessandro de’ Medici rientra a Parigi, dopo aver incontrato il re ad Amiens. La sua entrata parigina è trionfale, ma il 5 maggio Enrico IV dichiara a Francesco Bonciani, rappresentante fiorentino, di essere soddisfattissimo di quel che ha fatto il legato, ma anche di non aver intenzione d’accontentarlo per quanto riguarda l’applicazione dei dettami tridentini e il ritorno degli Ordini in Francia. In effetti il re non vuole inimicarsi il parlamento di Parigi. Inoltre Gabriella d’Estrée, la sua amante ufficiale, teme le manovre di alessandro a pro’ di un matrimonio che unisca la Corona francese e i Medici.
Il cardinale ha dubitato sin dall’inizio di ottenere tutto quel che Clemente VIII si aspettava: è stato infatti negativamente sorpreso per la resistenza del Parlamento e per l’accordo tra cattolici e protestanti. Ora la situazione gli pare peggiorata e in luglio confessa a Francesco Contarini, ambasciatore veneziano, di sperare soltanto in un pronto rientro a Roma: desiderio che d’altronde nutre almeno dalla fine dell’anno precedente. In agosto il re lo invita infine a prendere la strada del ritorno, anche se poi nell’ultima udienza (1o settembre) cerca di addolcire i contrasti. Il legato, riflettendo sulla propria permanenza francese, commenta il 14 settembre che ha fatto quanto poteva, o meglio tutto quello che il re aveva auspicato che lui facesse: le cose, per il resto, non erano come si sperava a Roma, ma non erano neanche senza speranza.
Il 9 settembre Medici è a Digione, il 13 a Mâcon, il 30 a Thonon. Passa quindi per Lione, il passo del Sempione, la val d’Ossola, il lago Maggiore e Piacenza. Raggiunge infine Clemente VIII a Ferrara, dove è ricevuto in concistoro il 10 novembre 1598. Il pontefice non soltanto lo loda, ma ne scrive anche al re di Francia; inoltre lo designa prefetto della Congregazione dei vescovi.
Una volta a Roma, Alessandro non abbandona le trattative francesi e continua ad adoperarsi perché Enrico IV sposi Maria de’ Medici, figlia di Francesco I. Questa iniziativa gli è già valsa le critiche del nunzio Gonzaga e di Orazio Ruccellai, che hanno scritto al cardinale Pietro Aldobrandini per sottolineare quanto la lentezza dell’operato di Medici sia legata al suo desiderio di sistemare gli affari di famiglia. Adesso si dà da fare per far sciogliere il matrimonio di Enrico IV ed è proprio lui a presiedere il 10 settembre 1599 la congregazione cardinalizia che permette al re francese di risposarsi. Nel frattempo (aprile 1599) Gabriella d’Estrées è morta ed è più facile convincere il sovrano a sposare Maria de’ Medici. A sottolineare il ruolo del cardinale i due sposi gli chiedono nel 1602 di battezzare il futuro Luigi XIII, ma egli rifiuta temendo di offendere i congiunti filospagnoli di Clemente VIII.
In effetti l’anziano cardinale vuole capitalizzare la sua influenza romana. Il 30 agosto 1600 è stato designato cardinale vescovo di Albano e il 17 giugno 1602 di Palestrina; intanto si riparla di lui come papabile, grazie anche agli ottimi rapporti con Alessandro Peretti e Pietro Aldobrandini, nipote del papa regnante. Nel frattempo non abbandona la cura a distanza della sua diocesi e prosegue a interessarsi della riforma dei monasteri, come mostra il suo Trattato sopra il governo dei monasteri.
Il peggiorare della salute di Clemente VIII spinge intanto le grandi potenze a preparare la futura elezione. Il 28 ottobre 1604 Enrico IV di Francia esorta i suoi cardinali a tenersi uniti in caso di conclave e ad appoggiare il suo "congiunto" Alessandro de' Medici oppure Cesare Baronio, amico fedele della Francia. Il 7 marzo 1605 il re torna sulla questione, prospettando al cardinal François Joyeuse la possibilità di comprare l'appoggio di Pietro Aldobrandini e il 16 ripete allo stesso che gli raccomanda "sur toutes choses le cardinal de Florence". Da tempo invece la Spagna avversa la candidatura del Medici. Filippo III e i suoi consiglieri sperano infatti in Tolomeo Galli, settantanovenne ispanofilo facilmente condizionabile.
Alla morte di Clemente VIII il Sacro Collegio è composto da sessantanove cardinali, di cui cinquantasei italiani, sei francesi, quattro spagnoli, due tedeschi e uno polacco. Nove non partecipano al conclave, aperto il 14 marzo 1605, e i restanti sono divisi in numerosi partiti. Gli uomini del cardinal Peretti si avvicinano agli spagnoli e Aldobrandini porta i suoi a fianco dei francesi. Nel conclave si discutono ben ventuno nomi di papabili, più di un terzo dei presenti. In realtà, però, i veri candidati sono Medici e Baronio. Gli Spagnoli ovviamente li avversano, ma verso il secondo nutrono un tale odio che non sanno fermare l’avanzata del primo. Questi è infatti abile a difendere il collega e a sfruttare l’occasione per screditare il partito spagnolo. Infine, come d’altra parte si pensava da tempo, Peretti si dichiara disposto a far convergere su di lui i suoi voti e il cardinale di Firenze supera i due terzi dei voti nella notte tra l'1 e il 2 aprile. Ascende così al Soglio con il nome di Leone XI.
Una delle prime e delle poche questioni di cui si occupa durante i 27 giorni del suo pontificato è l'appoggio degli imperiali in Ungheria contro i Turchi. Al proposito si dichiara, per il tramite del cardinal Ludovico Madruzzo, pronto a portare soccorso, anche se le casse della Santa Sede sono esauste. Una Congregazione dei cardinali per gli affari ungheresi delibera in tal senso il 13 aprile 1605. Inoltre, conformemente alla capitolazione elettorale, Leone XI convoca una Congregazione cardinalizia per riformare il conclave: vuole infatti abolire l'uso di eleggere il pontefice mediante l'adorazione pubblica, sostituendola con la votazione segreta. La notizia sorprende i testimoni, soprattutto francesi, che vi vedono un modo per liberare il partito aldobrandiniano dal controllo del suo leader, ma anche per rimettere in gioco gli spagnoli. Altre sorprese attendono i francesi: il papa non si considera infatti creatura di Enrico IV e comunica al marchese di Villena, ambasciatore spagnolo, che il re di Spagna ha trovato in lui un amico.
Il suo pontificato è comunque troppo breve per giudicare quale avrebbe potuto esserne il corso. Di fatto l’aspetto maggiore del suo brevissimo regno sono i festeggiamenti, che hanno luogo a Roma e Firenze. Proprio durante la presa di possesso del Laterano Leone XI prende freddo e cade preda della malattia che lo porta alla morte dieci giorni dopo. La sua dipartita provoca molto cordoglio a Roma, Firenze e in Francia.

Nota bibliografica

Per la bibliografia su Anna d'Este, si confronti la nota in calce alla mia voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLIII. Alle opere ivi citate si possono aggiungere: Anne Puaux, La huguenote Renée de France, Paris, Hermann, 1998; il già citato Jean-Marie Costant, Les Guise, Paris, Hachette, 1984; e il romanzesco Emmanuel Bourassin, L'assassinat du duc de Guise, Paris, Perrin, 1994.
Per la carriera avignonese di Domenico Grimaldi, si veda il mio La vicelegazione di Avignone come tappa della carriera di alcuni curiali romani. appunti per una ricerca, in Il buon senso o la ragione? Miscellanea di studi in onore di Giovanni Crapulli, a cura di Nadia Boccara - Gaetano Platania, Viterbo, Sette Città, 1997, pp. 267-276. Per la sua lotta al banditismo, cfr. Irene Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1985. Per la sua biografia e in particolare per Lepanto e Avignone ho utilizzata la documentazione nell'Archivio Segreto Vaticano, soprattutto quella della Legazione di Avignone, delle Lettere di soldati e delle Lettere di vescovi.
Per la biografia di Ferdinando de' Medici, rimando a Mario e Matteo Sanfilippo, Profilo biografico d'un cardinale di Santa Romana Chiesa poi Granduca di Toscana: Ferdinando de' Medici, in Fondazione RomaEuropa, Roma Europa, la piazza delle culture, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991, pp. 78-101, ed Elena Fasano Guarini, Ferdinando I de' Medici, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLVI. Per la sua vita romana, leggi anche Alberto Tinto, La tipografia medicea orientale, Lucca, Pacini Fazzi, 1987; AA.VV., La Villa Médicis, Rome, École Française de Rome, 1991; Stefano Calonaci, Ferdinando dei Medici: la formazione di un cardinale principe (1563-1572), "Archivio Storico Italiano", 570 (1996), pp. 635-690; Elena Fasano Guarini, "Roma officina di tutte le pratiche del mondo": dalle lettere del Cardinal Ferdinando de' Medici a Cosimo I e a Francesco I, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento. "Teatro" della politica europea, a cura di Gianvittorio Signorotto e Maria Antonietta Visceglia, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 265-297. Sullo scandalo con Clelia Cesarini è ricco d'informazioni Roberto Zapperi (La leggenda del papa Paolo III. Arte e censura nella Roma pontificia, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 104-106, e Farnese, Clelia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV). Si consideri che l'Archivio Segreto Vaticano, la Biblioteca Apostolica Vaticana e l'Archivio di Stato di Firenze, fondo Mediceo del Principato, contengono molto materiale non ancora pienamente sfruttato. Personalmente ho utilizzato qualche lettera della Biblioteca vaticana e qualche documento fiorentino.
Per il quadro storico, nel quale agisce Ferdinando I una volta granduca, si consulti Furio Diaz, Il granducato di Toscana. I Medici, Torino, Utet, 1979; Giovanni Cipriani, Il mito etrusco nel rinascimento fiorentino, Firenze, Olschki, 1980; AA.VV., Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del '500, Firenze, Olschki, 1983; Anna Maria Pult Quaglia, "Per provvedere ai popoli". Il sistema annonario nella Toscana dei Medici, Firenze, Olschki, 1990; Matteo Casini, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia, Marsilio, 1996. Alessandro Baragona, Ferdinando I de' Medici tra Mediterraneo e Atlantico, "Miscellanea di Storia delle Esplorazioni", VIII (1983), pp. 71-99, e Leonardo Rombai, Attività marinare e aspirazioni coloniali toscane nel Nuovo Mondo al tempo di Ferdinando I de' Medici (1587-1609), in Momenti e problemi della geografia contemporanea. Atti del Convegno Internazionale in onore di Giuseppe Caraci, Roma, Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici, 1995, pp. 409-425, studiano le imprese finanziate dal granduca sulle coste dell'Atlantico. Caterina Volpi, Meraviglie misteriose dell'Est, "Ars", II, 10 (ottobre 1999), pp. 110-113, accenna alle sue curiosità verso l'Estremo Oriente. Rita Mazzei, A proposito di un lucchese al servizio dei Vasa nella seconda metà del Cinquecento: corrispondenza di Lorenzo Cagnoli con Francesco I e Ferdinando dei Medici, "Actum", 19 (1990), pp. 87-109, fornisce notizie sui suoi interessi nell'Europa centrale. Per i suoi rapporti con l'impero, si guardino le lettere nell'Archivio di Stato di Firenze, nel già citato fondo Mediceo del Principato, e le copie in Biblioteca Apostolica Vaticana, Manoscritti, Fondo Patetta, ms. 2193.
Per la bibliografia su Alessandro de' Medici, vedi le indicazioni nella mia voce sull'Enciclopedia dei Papi, III, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000. Le fonti archivistiche sono copiosissime e poco sfruttate. Da ricordare quelle vaticane (Archivio Segreto e Biblioteca Apostolica) e quelle fiorentine (Archivio di Stato, fondo Mediceo del Principato, e Biblioteca Marucelliana), ma anche la Vita del cardinale di Firenze [...] insino al tempo che fu mandato in Francia [...] (Roma, Biblioteca Casanatense, cod. 4201): tutte quante utilizzate per questo testo. La permanenza in Francia ha lasciato una documentazione altrettanto vasta, in particolare cinque registri di suppliche e tre di bolle alla Biblioteca Nazionale di Parigi nel fondo Manuscrits latins, oltre a vari materiali nel fondo Manuscrits français della stessa.