a Flavio Fiorani e Gianluca Formichi
Questo e-book è un primo tentativo di elaborare materiale
per l'apprendimento della storia sul sito del nostro Ateneo. Inizialmente avevo
pensato a un vero e proprio manuale di Storia moderna, ma la sua elaborazione
sta prendendo più tempo di quello prefissato per questi primi
esperimenti. Ho deciso quindi di procedere con una prima unità didattica
che approfondisca alcuni aspetti di un periodo che negli ultimi anni ha riscosso
un discreto successo tra gli studenti della Facoltà di Lingue e
Letterature Straniere.
Quanto qui elaborato deve essere considerato una
versione preliminare, che sarà presto sostituita sfruttando le
facilitazioni della rielaborazione digitale. In questa prima versione faccio il
punto: a) sulle guerre di religione in Francia (Parte I); b) su quanto accadde
nello stesso periodo in Spagna, Olanda e Inghilterrra (Parte II); c) su alcuni
italiani (una duchessa, un vescovo, un granduca e un papa) che contribuirono
agli sviluppi francesi (Parte III). In pratica la prima parte attira
l'attenzione su un avvenimento circoscritto, la seconda ne illustra una serie di
addentellati e mostra come ogni episodio debba essere interpretato alla luce di
quel che avviene su uno scacchiere più vasto, la terza illustra il ruolo
di alcuni individui.
Questa operazione tripartita ha tre scopi principali. In
primo luogo voglio tratteggiare un periodo storico su scala europea, rispondendo
all'attenzione per l'Europa del nostro Ateneo e in particolare della
Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne. In secondo luogo
voglio utilizzare un linguaggio piano che rinunci a parte degli usuali orpelli
accademici: ridurrò quindi al minimo le disquisizioni teoriche e non
farò ricorso alle note, sostituite da una bibliografia alla fine di
ciascuna parte. Spero così di trovare un linguaggio adatto anche a coloro
che, iscritti ai corsi di laurea triennali, non hanno un particolare desiderio
di approfondire lo studio della storia. In terzo luogo desidero mostrare che la
scelta di una narrazione piana non impoverisce la didattica, né comporta
alcuna rinuncia alla ricerca. La prima parte è basata soprattutto sulla
letteratura storica in italiano, inglese e francese, mentre la seconda e la
terza integrano tale letteratura con ricerche d'archivio.
Proprio i
risultati del lavoro d'archivio servono a tracciare una serie di quadretti
biografici che concorrono a rendere più "spessa" la narrazione storica.
Questa infatti deve andare dal particolare al generale e da quest'ultimo di
nuovo al particolare per rendere la complessità dell'esistenza,
così come è esperita da ciascuno di noi, e al contempo per
sottolineare quanto il mondo, nel quale si viveva oltre quattrocento anni fa,
fosse simile e al contempo diverso dal nostro. Senza un confronto diretto con le
fonti rischia infatti di sfuggire che l'umanità non vive in un eterno
presente nel quale tutto si ripete in maniera eguale, salvo un certo qual
complicarsi e internazionalizzarsi delle vicende a partire dal Novecento. Di
fatto nell'Europa del Cinquecento la vita quotidiana si basava su regole e
rituali assai distanti da quelli oggi condivisi. In compenso il confronto tra le
potenze e a quello tra le fedi religiose comportava lo scontrarsi di spinte
regionali, nazionali, e sovranazionali in una situazione che era già
globalizzata e globalizzante. Inoltre la storia europea già registrava lo
spostarsi di uomini al di fuori dei confini natii.
La prima parte dunque
evidenzia le strutture psicologiche che sovrintendono alla tensione e alle
spinte omicide delle guerre di religione francesi. La seconda mette in risalto
l'interrelazione tra i vari stati. La terza mostrare come flussi temporanei e
definitivi partecipino del turbinio degli avvenimenti e come le reti (oggi
diremmo i network) migratori influenzino il o traggano vantaggio dal corso di
questi ultimi. Proprio quest'ultima parte deve essere ampliata. Abbiamo infatti
ancora bisogno di molto lavoro d'archivio su questi spostamenti di uomini e di
donne e non è neanche ben fissato il quadro teorico necessario ad
interpretarli. La presenza italiana in Francia è già presa in
considerazione da numerosi studi, in primo luogo da La France italienne,
XVIe-XVIIe siècle di Jean-François
Dubost (Paris, Aubier, 1997), ma si stanno ancora vagliando le relazioni tra
migrazioni politiche (per esempio, i fuoriusciti fiorentini) ed economiche (i
parrucchieri, ristoratori e servi italiani a Parigi). Riguardo a questi incroci
di motivazioni (e quindi anche di comportamenti) spero di poter aggiungere
presto un capitolo su Caterina de' Medici e la sua cerchia. Esso infatti
dovrebbe: 1) ampliare lo studio delle relazioni tra questa famiglia fiorentina e
la Francia; 2) verificare rilievo numerico e politico dei fuoriusciti nella
cerchia di Caterina; 3) visualizzare il contributo degli italiani alla storia di
Francia nel secondo Cinquecento.
Conto anche di reintervenire sulla seconda
parte, approfondendo la storia inglese e la figura di Elisabetta I. Tra l'altro
se la terza parte evidenzia l'importanza delle migrazioni e delle reti di
relazioni che tali fenomeni costruiscono, tutte e tre le parti, specie se
maggiorate dalle biografie di Caterina de' Medici ed Elisabetta Tudor, mettono
in luce l'importanza femminile nel secondo Cinquecento. Tra l'altro, sarebbe
interessante tener conto dell'eco storico-letteraria di questi personaggi
femminili. Infatti Anna d'Este, della quale parlo nella terza parte, è
probabilmente la figura cui la contessa de La Fayette s è ispirata per
La principessa di Clèves (1678), mentre la fama Caterina de'
Medici e di Elisabetta Tudor è ancora viva in film quali La regina
Margot (1994) di Patrice Chereau ed Elizabeth (1998) di Shekar
Kapur.
I testi qui raccolti nascono in buona parte come tracce di seminari, tenuti
intorno alla metà degli anni 1990 nell'ambito dei corsi di Storia moderna
di Giovanna Motta e poi di Gaetano Platania presso la Facoltà di Lingue e
Letterature Straniere Moderne di questo Ateneo. In seguito quelli, che qui sono
divenuti i capitoli sulla rivoluzione olandese, sull'Invincibile Armata, su
Filippo II e Domenico Grimaldi, sono stati rilavorati per la rivista "Storia e
Dossier" (La spada e il pastorale, 90, 1994, pp. 41-44; Lo stretto
fatale, 100, 1995, pp. 51-56; La rivolta dei pezzenti, 104, 1996, pp.
46-51; A quattrocento anni dalla sua morte: Filippo II, 133, 1998, pp.
40-44). La prima parte sulle guerre di religione in Francia è invece la
versione originale di un testo poi ridotto per essere pubblicato come La
stagione del sangue. Le guerre di religione in Francia (1559-1598), "Storia
e Dossier", 98 (1995), pp. 69-95. Il capitolo su Anna d'Este è nato
sviluppando una voce scritta per il Dizionario Biografico degli Italiani,
ma del testo definitivo qui pubblicato è apparsa solo una versione molto
ridotta in appendice al saggio appena citato sulle guerre di religione.
L'intervento su Ferdinando de' Medici ha una lunga genesi. Le prime ricerche le
ho svolte per il Profilo biografico di un cardinale di Santa Romana Chiesa
poi granduca di Toscana: Ferdinando de' Medici, in Roma Europa: la piazza
delle culture, Roma, Fondazione Roma Europa - Presidenza del Consiglio dei
ministri, 1991, scritto assieme a mio padre Mario Sanfilippo. In seguito ho
sfruttato il lavoro fatto nell'Archivio Segreto Vaticano e nella Biblioteca
Apostolica Vaticana per redigere Ferdinando I de' Medici, parte prima:
Cardinale di Santa Romana Chiesa, "Storia e Dossier", 129 (1998), pp. 32-37,
e Ferdinando de' Medici, parte seconda: Granduca di Toscana, "Storia e
Dossier", 130 (1998), pp. 46-51. Il capitolo qui presentato aggiorna quanto
edito sulla rivista. Ho infine iniziato a studiare la biografia del cardinale
Alessandro de' Medici per la voce Leone XI dell'Enciclopedia dei
Papi, III, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 2000, pp. 269-277.
Quel primo intervento fu scritto dietro suggerimento di Antonio Menniti Ippolito
e con un consistente aiuto di Olivier Poncet. Il testo qui ripubblicato
differisce da quel primo tentativo, perché riduce le pagine sull'ascesa
al Soglio a favore di quelle sulla missione in Francia.
Oltre ai debiti con i già citati Motta,
Platania, Mario Sanfilippo, Menniti Ippolito e Poncet, ci tengo a sottolineare
la gratitudine dovuta a Giovanni Pizzorusso, con il quale ho condiviso quindici
anni di ricerche e discussioni negli archivi romani. Voglio, però,
dedicare questo lavoro a Flavio Fiorani e Gianluca Formichi, perché sono
stati loro a dirottarmi sul secondo Cinquecento, quando mi hanno convinto a
contribuire con continuità a "Storia e Dossier". Senza di loro non avrei
mai approfondito questo periodo, perché negli anni universitari ero stato
convinto a lavorare soprattutto sul Seicento e sull'Otto-Novecento. L'accoppiata
appare oggi stravagante, ma allora rispondeva all'interesse per la nascita della
modernità nella duplice crisi della transizione dal feudalesimo al
capitalismo e dell'affermazione e dello sviluppo degli stati nazionali dopo la
lunga fase rivoluzionaria (1775-1870).
Le otto guerre di religione (1562-1563; 1567-1568; 1569-1570; 1572-1573;
1574-1576; 1576-1577; 1579-1580; 1585-1598) costituiscono una delle più
importanti cesure della storia francese, assieme alla guerra dei Cento anni e
alla Rivoluzione. Durante il quarantennio, che si apre con la morte di Enrico II
(1559) e si chiude con l'editto di Nantes (1598), si scatena la
bestialità umana in nome di una fede o di un partito, oppure di tutti e
due: spesso il confine tra l'opzione religiosa e quella politica è
infatti labile. I cattolici inaugurano la stagione del sangue con la strage di
Vassy (1562). I calvinisti rispondono con la "michelade" di Nîmes
(l'esecuzione a freddo di ottanta cattolici il 29 settembre 1567) e obbligano
gli avversari a convertirsi o ad abbandonare alcune regioni. I cattolici infine
firmano nel 1572 l'episodio più famoso e controverso, il massacro di s.
Bartolomeo.
Queste vicende infliggono al paese ferite che non si
rimarginano, anche perché riaperte nel 1685 dalla revoca dell'editto di
Nantes e dalla successiva repressione dei protestanti. Nel corso del
Sette-Ottocento ogni proposta di nuovi assetti politico-governativi suscita
paragoni con quanto accaduto nel Cinquecento: scrittori di diversa fede
religiosa e diverso credo politico ribadiscono continuamente che la Francia non
deve ricadere negli eccessi di quel periodo. Qualcuno invita ogni tanto a
mantenere il distacco emotivo. Nel 1829 Prosper Mérimée scrive,
per esempio, che "le azioni degli uomini del secolo XVI non debbono essere
giudicate alla stregua delle nostre idee". Ma gli storici e i romanzieri dei
decenni successivi non accolgono tale suggerimento e leggono le guerre di
religione in chiave contemporaneistica. Così Jules Michelet fa in modo
che l'analisi di ogni strage provocata o permessa da Carlo IX o da Enrico III
rinvii ai guasti prodotti da Napoleone III.
Dopo la caduta di quest'ultimo,
si afferma nella cultura francese la tendenza a interpretare le guerre di
religione come un violentissimo scontro, interno all'élite dominante: si
offre quindi una lettura socio-politica, che attenua l'importanza del fattore
religioso, ma non sottovaluta quella del periodo. Nel Novecento ha invece
fortuna la tesi, epitomizzata da Fernand Braudel, per la quale il periodo
1559-1598 non ha influito sulle tendenze economiche e politico-diplomatiche
della Francia cinquecentesca. Tale posizione opera una sorta di rimozione e
esorcizza lo spettro dei massacri, sminuendo la rilevanza strutturale delle
guerre di religione.
Questo processo di cancellazione è condiviso da
varie posizioni culturali, tutte nutrite dei migliori sentimenti e in qualche
modo ispirate alle vicende dell’entre-deux-guerres e del secondo
conflitto mondiale. Ha quindi funzionato abbastanza bene nell'immediato
dopoguerra, un po' meno egregiamente negli anni 1960-1980 ed è infine
crollato davanti alla rinascita dell'integralismo (musulmano, cattolico,
ebraico, induista, ecc.), all'esplosione dell'Europa dell'Est e alla conseguente
ripresa della conflittualità politico-religiosa. Una
conflittualità sempre più sanguinosa e universale, che oggi
coinvolge, sia pure con episodi ancora limitati, l'Europa occidentale, il
Giappone e gli Stati Uniti e che ha fatto riscoprire agli storici il peso
dell'odio generato dalla contrapposizione religiosa e politica.
Tra il 1940
e il 1975 si è scritto poco sulle guerre di religione, mentre queste sono
tornate alla ribalta storiografica mano a mano che aumentavano gli episodi
appena accennati (vedi appendice bibliografica). Gli storici hanno allora
inaugurato un dibattito sempre più serrato, che, però, non ha
prodotto, come nell'Ottocento e nel primo Novecento, grandi sintesi di storia
politico-religiosa, ma soprattutto monografie su personaggi, partiti, gruppi
religiosi, ceti sociali. In sostanza si è cercato prima di tutto di
comprendere il numero, le caratteristiche e le motivazioni dei contendenti. In
questa scelta hanno influito non soltanto la necessità di aggirare la
corrente braudeliana, che deteneva ancora leve del potere accademico ed
editoriale, ma anche le nuove tendenze storiografiche: la riscoperta
dell'elemento individuale nella storia (o quantomeno della possibilità di
ovviare con le biografie alla stanchezza di un mercato librario stremato dalle
grande sintesi); l'attenzione ai fattori religiosi e politici, una volta
ritenuti meramente accessori.
Alcune di queste opere hanno avuto successo
innestandosi in un sistema mediatico più ampio. Il filone che, dopo il
1980, ha rivalutato i Valois (a lungo considerati i "cattivi" della vicenda) ha
preparato la strada al film La regina Margot (Patrice Chereau, 1994).
Quest'ultimo ha rilanciato l'ennesima ristampa del romanzo di Alexandre Dumas,
al quale è ispirato, e ha anche sollecitato due biografie (di buon peso
scientifico) della prima moglie di Enrico IV. L'attenzione per il ruolo dei
Valois ha comportato la rilettura di migliaia di fonti a stampa e archivistiche
e ha fatto sì che oggi sappiamo quasi tutto sui singoli elementi del
conflitto, ma ne abbiamo perso la visione complessiva. Proprio quella che
cercheremo di ritrovare nelle pagine che seguono, descrivendo non soltanto i
singoli attori e i singoli episodi, ma anche il palcoscenico sul quale si recita
il dramma, nonché ovviamente la trama generale di
quest'ultimo.
Lo scenario in questione è ovviamente la Francia, ma non quella che
noi conosciamo. I Valois hanno rafforzato e allargato il regno, ma esso è
più piccolo dell'odierna nazione. L'Artois, le Fiandre, l'Alsazia, il
ducato di Lorena, la Franca Contea sono in mano agli Asburgo, mentre parte della
Provenza è controllata dal duca di Savoia. Avignone e il contado
venassino appartengono al papa; il Béarn è indipendente e il suo
signore si fregia del titolo di re di Navarra.
Questi confini incerti,
parzialmente assestati dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559), generano
costanti frizioni: con la Spagna, che ha già sconfitto la Francia nel
lungo duello tra Francesco I di Valois e Carlo V d'Asburgo; con il papa, che
vuole affermare la propria autorità sul clero francese; con i Lorena, i
Savoia e i signori del Béarn; infine con i principati tedeschi e i
cantoni svizzeri. La contrapposizione con questi ultimi è inasprita dalle
differenze religiose. I principi tedeschi sono luterani, ma la loro fede
è un affare di stato come quella del re francese. Inoltre la comune
opposizione agli Asburgo li avvicina. A Ginevra invece batte il cuore della
Chiesa riformata, che non vuole compromessi con la corona francese e cerca di
penetrare in Francia, da dove Giovanni Calvino è fuggito alla metà
del decennio 1530-1540.
Queste tensioni internazionali si riverberano sulle
vicende francesi. Lo scontro con la Spagna ha visto la sconfitta dei Valois e
mortificato le aspirazioni della monarchia e della grande nobiltà. Le
energie nobiliari ora non sono più scaricate verso l'esterno e provocano
un crescente attrito tra i grandi clan nobiliari. Il conflitto rischia di
coinvolgere anche la corona: questa infatti ha tentato per decenni di porsi al
di sopra della mischia e di sciogliersi da ogni vincolo feudale, creando una
struttura statale centralizzata e affidando ad amministratori di origine
borghese le più importanti cariche di governo, ma la débâcle
le ha tolto credibilità e soprattutto ha ridotto le sue forze.
Le
dispute con il papa si ripercuotono su una Chiesa nella quale le tendenze
gallicane sono forti sin dal Trecento. Il clero regolare e secolare, gli
umanisti e la corte polemizzano spesso con Roma e dimostrano curiosità,
se non simpatia per la Riforma protestante, tanto più che quest'ultima si
è dimostrata un pericoloso nemico degli Asburgo. Tuttavia proprio le
polemiche contro la Chiesa di Roma fanno precipitare la situazione, quando le
idee luterane penetrano in alcune città francesi (Bordeaux, Lione e
Montpellier) tra il 1523 e il 1526. Il re non vorrebbe perseguitare i fedeli del
nuovo credo religioso, condannato dalla facoltà di teologia di Parigi nel
1521; il concordato di Blois (1516) lo spinge, però, ad ascoltare il
papa. A più riprese Francesco I evita la condanna di personaggi in vista,
ma nel 1529 iniziano i roghi. Le esecuzioni capitali aumentano nel decennio
successivo, quando le pressioni papali si accompagnano all'ira del re
perché i protestanti hanno osato affiggere manifesti ad Amboise, davanti
al suo castello. Calvino e i suoi, i quali hanno cercato di radicalizzare la
Riforma francese, devono fuggire, mentre scattano le prime persecuzioni di
massa.
Dopo il 1540 i protestanti francesi aderiscono alle tesi di Calvino.
Secondo l'ambasciatore veneziano Marino Cavalli nel 1546 i seguaci di
quest'ultimo sono forti a Caen, Poitiers, La Rochelle e nella Provenza. Le
persecuzioni si intensificano e generano i primi massacri: 3.000 valdesi del
Luberon sono uccisi per ordine del parlamento di Aix nel 1545. Due anni dopo
Enrico II succede a Francesco I e inasprisce la legislazione antiprotestante.
Nel 1551 e nel 1557 emana gli editti di Châteaubriant e di
Conpiègne, che prevedono l'istituzione di tribunali laici (più
duri di quelli ecclesiastici) e la pena di morte. Nel solo 1552 i roghi ardono
ad Agen, Nîmes, Parigi, Rouen, Tolosa e Troyes. Tuttavia il numero e il
peso di quelli che sono chiamati ugonotti continua ad aumentare: nel 1558
quattro-cinquemila riformati pregano appena fuori delle porte di Parigi. A
quest'assemblea non partecipano soltanto artigiani o mercanti, ma anche Antonio
di Borbone, parente di Enrico II e re di Navarra. L'anno successivo Anne du
Bourg, consigliere del parlamento di Parigi, chiede la cessazione delle
persecuzioni, inasprite dall'editto di Écouen. Il parlamentare è
giustiziato alla fine del 1559, ma il suo gesto rivela la penetrazione del
movimento protestante nella stessa amministrazione.
A questo data gli
ugonotti hanno già iniziato a coordinare la propria azione. Il 25 maggio
1559 i pastori delle Chiese riformate francesi si incontrano a Parigi e stilano
una confessione di fede unitaria, ratificata da Théodore de Bèze
per la Chiesa di Ginevra, da Giovanna d'Albret (moglie di Antonio di Borbone)
per quella di Navarra e da Gaspard di Coligny per quella di Francia. Nel 1560
circa due milioni di francesi, il 10% della popolazione, sono ugonotti: una
minoranza quindi, ma molto concentrata in alcune zone. I centri di La Rochelle,
Montauban, Montpellier e Nîmes hanno fatto proseliti nella Linguadoca, nel
Delfinato, nella Provenza, nella valle della Garonna, nel Béarn, nel
Saintonge, nell'Aunis e nel Poitou. Inoltre gli ugonotti sono disseminati sulla
costa dalla Bretagna a Nantes, in Normandia (Caen, Dieppe e Rouen) e a Parigi
(il faubourg Saint-Germain è considerato una piccola Ginevra), Lione (che
fa da ponte tra Ginevra e la valle del Rodano, l'Alvernia e il Vivarais), Meaux,
Orléans (dove confluiscono i nobili ugonotti dell'Angiò, della
Turenna e del Berry), Rouen.
La presenza ugonotta è rilevante
soprattutto nelle città, dove è radicata tra gli artigiani, i
mercanti, il mondo dei tribunali e i gradini (soprattutto inferiori) delle
magistrature locali. A questi ceti urbani, che sono stati i primi a convertirsi,
si aggiungono anche la piccola nobiltà della Linguadoca e della Guascogna
e alcuni grandi lignaggi: Borbone/Condé, Caumont, Châtillon,
Larochefoucauld. Queste famiglie costituiscono la vera forza della Chiesa
riformata: detengono infatti posti di prestigio - sono nel Consiglio del re e
amministrano vaste province - e possono arruolare armate personali. La loro
adesione religiosa non ha sempre motivazioni limpide, anzi sembra un modo di
opporsi ad altri clan nobiliari o di sfidare la casa reale, ma è
incontrovertibile la loro volontà di creare un territorio ugonotto,
semi-indipendente, unificando i propri vasti domini signorili. In questo
progetto confluiscono così idealità religiose e aspirazioni
feudali.
Di fronte alla crescita protestante la maggioranza della
popolazione avverte con angoscia la fine dell'unità religiosa. Molte
fonti ci rivelano la repulsione che i cattolici, soprattutto quelli dei ceti
medio-bassi, provano per gli ugonotti. Questi infatti appaiono loro
singolarmente avulsi dai costumi tradizionali. Per i cattolici gli ugonotti non
sono quindi soltanto i distruttori dell'ordine costituito (religioso e
politico), ma in quanto "estranei" alla tradizione mettono in pericolo
l'identità francese o per lo meno le singole identità locali. I
clan nobiliari cattolici condividono questi sentimenti, inoltre desiderano
riguadagnare il controllo del paese, riportando la famiglia reale al ruolo di
prima "inter pares" e allontanando dai centri di potere gli
ugonotti.
La morte di Enrico II, ferito mortalmente da Gabriel de Montgomery durante
il torneo per festeggiare il matrimonio di Elisabetta di Valois con Filippo II
di Spagna, accelera la crisi. Francesco II è un quindicenne malaticcio
dominato dalla madre, Caterina de' Medici, e dalla moglie, Maria Stuarda.
Quest'ultima è nipote del cardinale Carlo di Lorena e di Francesco, duca
di Guisa. La regina madre e i Guisa si alleano e scacciano i favoriti di Enrico
II: Diana di Poitiers e il conestabile Anne di Montmorency. Inoltre umiliano i
Borbone, che pur rimanendo nel Consiglio del re non partecipano alle decisioni
più importanti.
Montmorency e i Borbone non hanno la forza di reagire
subito, ma una protesta più decisa è provocata dal modo in cui i
nuovi padroni di Francia fanno fronte alla catastrofe finanziaria: Enrico II ha
lasciato quaranta milioni di lire di debiti, dei quali venti esigibili subito.
Il cardinale di Guisa licenzia perciò gli uomini d'arme impiegati dal re
defunto, sopprime le pensioni conferite e infine revoca le alienazioni del
dominio regio. Il bilancio migliora, ma queste misure colpiscono una
nobiltà, già impoverita dalla caduta delle entrate feudali e
dall'aumento delle tasse. Gli scontenti si raccolgono attorno ai Borbone e ai
fratelli Châtillon (il cardinale Odet, vescovo di Beauvais;
François, signore d'Andelot, colonnello generale della fanteria; Gaspard,
signore di Coligny, ammiraglio di Francia), nipoti del conestabile Anne di
Montmorency.
Tutti questi nobili sono protestanti e sono impensieriti dalle
persecuzioni scatenate dal cardinale di Guisa: i proclami successivi al rogo di
Anne du Bourg sono ancora più rigidi dell'editto di Écouen. La
nuova leadership protestante non è abituata ad arrendersi ed organizza la
resistenza. Le roccheforti ugonotte sono in stato d'allarme, nonostante i
consigli di Calvino che vorrebbe un'agitazione legale, sostenuta dai principi di
sangue e dai parlamenti. Inoltre i pubblicisti protestanti attaccano i Guisa,
accusandoli di manovrare il giovane re, e propongono di nominare reggente
Antonio di Borbone.
Nel febbraio 1560 i Guisa convincono Francesco II che si
profila la minaccia di un colpo di stato. In effetti dal dicembre precedente
Luigi di Condé arruola fuoriusciti per imprigionare i suoi avversari. Il
complotto dovrebbe aver luogo il 16 marzo, però il re e i Guisa si sono
rifugiati ad Amboise. I congiurati tentano di penetrarvi, ma sono catturati e
impiccati sugli spalti del castello. Caterina de' Medici vorrebbe trovare un
accordo con gli ugonotti, i Guisa invece sperano di schiacciarli e accusano
pubblicamente Anne de Montmorency e Luigi di Condé. La regina madre
nomina cancelliere del regno il moderato Michel de L'Hospital e con l'editto di
Romorantin (maggio 1560) attenua la persecuzione contro i riformati. Questi
ultimi occupano Lione, ma Antonio di Borbone li convince a rendere la
città e si reca dal re con il fratello, che i Guisa fanno arrestare ad
Orléans e condannare a morte il 26 novembre. La Francia è
sull'orlo della guerra civile, ma la morte di Francesco II congela la
situazione.
Carlo IX diviene re a undici anni il 5 dicembre 1560, mentre la madre
assume la reggenza, avendo convinto i Borbone e i Guisa di essere l'unica che
possa garantire la pace. La reggente non può, però, fronteggiare
da sola la crisi finanziaria e deve convocare gli Stati Generali, che non sono
più consultati dal 1484. L'assemblea si apre ad Orléans il 13
dicembre 1560 e rivela subito il contrasto tra i tre ordini. Il Terzo Stato
reclama la riforma del clero, il mantenimento delle dottrine gallicane e una
tregua, quanto meno temporanea. Il clero vuole reprimere l'eresia. La
nobiltà concorda con il Terzo Stato nella critica del clero e in
più condanna i Guisa, fautori del disordine. Inoltre nessuno dei tre
ordini vuole ripianare a proprie spese il deficit della corona e tutti chiedono
che sia regolata la questione della reggenza. Michel de L'Hospital promette la
soppressione della venalità degli uffici, la proibizione di inviare
denaro a Roma, il ritorno all'elezione dei vescovi e infine un concilio
nazionale della Chiesa francese, ma non riesce a blandire i convenuti. Caterina
sospende i lavori il 28 gennaio 1561, promettendo di riaprirli in estate a
Melun, e ordina di cessare le persecuzioni religiose.
Nei mesi successivi la
reggente continua a operare in favore degli ugonotti: il 13 marzo fa amnistiare
Condé e il 24 accorda ad Antonio di Borbone il titolo di luogotenente
generale del regno. Questi compromessi non sono approvati dai cattolici: il
popolo parigino impedisce ai riformati di cantare i salmi nel
Pré-aux-Clercs; Beauvais si rivolta contro il vescovo Odet de
Châtillon, considerato troppo tollerante verso i calvinisti. La situazione
è di nuovo critica, sia sul piano internazionale che su quello interno.
Elisabetta di Valois avverte infatti la madre che l'esercito di Filippo II
è pronto a intervenire, se la corona di Francia si converte al
protestantesimo. Inoltre, nell'aprile 1561, il duca di Guisa si allea a sorpresa
con Jacques d'Albon, maresciallo di Saint-André e antico protetto di
Enrico II, e con Anne de Montmorency.
Caterina prende tempo. L'Hospital
riunisce in giugno-luglio il parlamento di Parigi e il Consiglio del regno
(formato dai pari, dai principi di sangue e dai grandi funzionari), in modo da
far affrontare Coligny, la mente degli ugonotti, e il triunvirato
Guisa/Saint-André/Montmorency. Ne esce l'editto del 30-31 luglio che
chiede un aiuto finanziario ai cattolici, senza proibire esplicitamente il culto
protestante. Intanto Caterina decide il 20 luglio 1561 di convocare un concilio
nazionale della Chiesa cattolica. L'assemblea del clero si tiene a Poissy (31
luglio-14 ottobre 1561), ma il cardinale di Lorena evita che essa prenda il nome
di concilio nazionale e impone che la discussione si limiti a come correggere
gli abusi e alla necessità di un prestito alla corona.
Dal 1 agosto si
riuniscono anche gli Stati Generali, ma a Pontoise e non più a Melun. La
nuova sede è vicina a Poissy: L'Hospital va quindi da un'assemblea
all'altra, battendo cassa e impegnandosi in giochi di equilibrismo. Il clero,
per esempio, non vuol rompere con Roma e non vuol sovvenzionare il re. Ma
Jacques Bretagne, portaparola del Terzo Stato, primo magistrato d'Autun e uno
dei capi del protestantesimo in Borgogna, propone di ammortizzare il debito
francese vendendo i beni della Chiesa cattolica. L'Hospital corre a Poissy e
minaccia di acconsentire a quella proposta. Il clero china la testa e negozia
l'accordo ratificato il 21 ottobre 1561: si impegna a pagare una rendita annua
per riscattare i propri possedimenti da qualsiasi alienazione. Grazie a questo
successo economico Caterina può rintuzzare il tentativo della
nobiltà di portare a venti anni la maggiore età per i re, di
riservare l'organizzazione della reggenza agli Stati Generali e in via
provvisoria ai principi di sangue, di stabilire il controllo degli Stati
Generali sulla pace, la guerra e le alleanze.
Nel frattempo il gioco si fa
ancora più complicato. La reggente vuole dimostrare che desidera
veramente la pace religiosa e autorizza la presenza di sudditi non cattolici a
Poissy. A sorpresa il cardinale di Lorena l'appoggia, perché i Guisa
vogliono guadagnare credito presso i principi tedeschi e al contempo isolare i
calvinisti. Il 22 agosto Théodore de Bèze (1519-1605, futuro
successore di Calvino) si presenta a Poissy, dove colloquia con i rappresentanti
cattolici fra il 9 settembre e il 18 ottobre. Il nunzio apostolico a Parigi
scrive al papa che ormai la Francia è perduta e che si deve formare con
la Spagna una lega cattolica antifrancese. Invece l'esponente calvinista
è beffato dal cardinale di Guisa: questi infatti tergiversa sino
all'arrivo di Ippolito d'Este, legato romano straordinario. L'annunzio, fatto da
quest'ultimo, dell'apertura del concilio di Trento impedisce ogni accordo tra le
due Chiese.
Il cardinale di casa Guisa ha evitato ogni ipotesi pacificatoria.
Tuttavia la pace è richiesta da ugonotti moderati, come il già
citato Jacques Bretagne, e da quei cattolici, che vengono designati come i
“politici”. Questi due gruppi disdegnano la guerra e pensano che le
due religioni possano convivere nello stesso stato. Caterina de' Medici persegue
per il momento la stessa idea, avendo ancora bisogno degli Châtillon
contro i Guisa e Filippo II. Riprende quindi i contatti con Théodore de
Bèze e con Coligny e accorda agli ugonotti il permesso di celebrare il
loro culto, sia pure a particolari condizioni (editto di Saint-Germain, 17
gennaio 1562). Alla fine anche Roma accetta questo compromesso in cambio della
promessa che i vescovi francesi possano recarsi al concilio di Trento.
La
tregua dura comunque poco. Alla fine di gennaio il parlamento, i funzionari e
l'Università di Parigi protestano contro l'editto e il loro appello
è subito echeggiato da Aix, Digione, Grenoble e Tolosa. Persino il re di
Navarra si allinea ai triunviri contro l'editto di Saint-Germain. Gli
Châtillon abbondano la corte, mentre i Guisa trattano con i principi
tedeschi un'alleanza anticalvinista. Il partito della pace è schiacciato
fra le due fazioni nobiliari più estremiste ed abbandonato dalla
corona.
Il 1 marzo 1562, al ritorno da un incontro con il duca Cristoforo di
Würtemberg, Francesco I di Guisa guida l'assalto a un'assemblea di
ugonotti, organizzata a Vassy nella Champagne senza rispettare le norme
promulgate dall'editto di Saint-Germain. Sulla scia del primo sangue (70 morti e
un centinaio di feriti) altri riformati sono uccisi a Sens e a Tours, nel Maine
e nell'Angiò. Il 17 marzo il triunvirato impone alla reggente e a Carlo
di trasferirsi da Fontainebleau a Parigi. Caterina chiede l'aiuto di
Condé, ma questi fugge dalla capitale e inizia a capitanare la rivolta
protestante.
La guerra assume presto un duplice aspetto: da un lato, è
lo scontro tra due fazioni nobiliari, mosse l'un contro l'altra non soltanto da
fattori religiosi; dall'altro questi ultimi determinano la partecipazione di
vasti strati della popolazione, che esprimono il loro odio con massacri e
distruzioni. Inoltre il conflitto non è soltanto interno alla Francia.
Entrambi i contendenti hanno forti appoggi internazionali: i Guisa sono
sostenuti dal re di Spagna, dal duca di Savoia e dal papa; Condé e
Antonio di Borbone dall'Inghilterra e da qualche principe tedesco.
Nei primi
scontri sono i riformati ad avere la meglio e conquistano Angers, Blois, Lione,
Orléans, Tours e Valence. Caterina, che si è alla fine allineata
ai Guisa, nota tuttavia con piacere l'indebolimento dei grandi feudatari.
Antonio di Borbone muore il 17 novembre 1562. Il 19 dicembre, battaglia di
Dreux, il conestabile di Montmorency e il maresciallo di Saint-André
cadono in mano agli ugonotti e, subito dopo, Condé è catturato dal
duca di Guisa. Nel frattempo la popolazione cattolica si solleva e massacra i
protestanti di Gaillac, Meaux, Sens, Tolosa e Troyes.
La prima guerra di
religione minaccia di indebolire il regno nel suo complesso. Il trattato di
Fossano (2 novembre 1562), firmato dalla reggente e dal duca di Savoia, rende a
quest'ultimo le cittadelle che Cateau-Cambrésis aveva dato alla Francia.
L'accordo di Hampton Court fra la regina d'Inghilterra e i rappresentanti di
Condé e delle città di Rouen, Dieppe e Le Havre prevede che i
francesi diano quest'ultima in cambio di soldati e finanziamenti e che essa
resti in mano inglese, finché non sia scambiata con Calais. I triunviri
accusano Condé di svendere la Francia e assediano Rouen. L'assedio si
protrae senza esiti e si caratterizza per l'estrema confusione. Prima di tutto
per l'eterogeneità delle forze in campo: la città è difesa
da riformati francesi, inglesi e scozzesi ed è assalita dagli armati dei
Guisa, da mercenari luterani (tedeschi) e calvinisti (svizzeri), da protestanti
francesi entrati a far parte dell'esercito regio. In secondo luogo perché
Rouen è la più importante città del regno dopo Parigi e
Caterina non vuole distruggerla, quindi fa in modo che le operazioni militari
vadano a rilento.
Alla fine del 1562 le due schiere sono guidate dal duca di
Guisa e dall'ammiraglio di Coligny, che domina la Normandia. Il primo assedia
Orléans per tagliare le comunicazioni dell'avversario, ma è
assassinato da Poltrot de Méré, un nobile del Saintonge. Il
sicario, torturato, cambia più volte versione e dichiara, di volta in
volta, di essere stato inviato da Calvino, da Théodore de Bèze, da
Condé e infine da Coligny. Comunque Caterina, liberatasi del giogo
guisardo, cerca la pace, temendo che i nobili ugonotti della Linguadoca e del
Delfinato si confederino e aprano un secondo fronte. Condé e Montmorency
si prestano alla mediazione e, nonostante l'opposizione di Coligny, fanno
ratificare la pace di Amboise (19 marzo 1563).
L'accordo prevede il rinnovo
delle concessioni agli ugonotti, ma ora esse sono formulate in modo da
avvantaggiare quasi esclusivamente la nobiltà protestante. Il culto
è libero nelle dimore dei signori che godono dei diritti di alta
giustizia; per gli altri è permesso in una sola città di ogni
baliato e solamente nei quartieri periferici. I ministri riformati e lo stesso
Calvino accusano di tradimento il principe di Condé, ma questi non li
ascolta. Unisce invece le sue truppe a quelle di Montmorency e riconquista Le
Havre, obbligando gli inglesi a rinunziare a ogni pretesa sul suolo francese
(pace di Troyes, 11 aprile 1564).
Nel frattempo la situazione interna non si
è del tutto acquietata. Da un lato, i nobili ugonotti non rendono i beni
della Chiesa cattolica, di cui si sono impossessati. Dall'altro, gli Stati
Generali di Borgogna e il parlamento di Digione minacciano la secessione, se
Carlo IX si schiera con i riformati. Infine l'imperatore, il re di Spagna e il
duca di Savoia criticano l'accordo di Amboise e il papa attacca L'Hospital, che
ha sconfessato il cardinale di Guisa. Caterina lascia correre le polemiche
interne, mentre invoca le libertà gallicane per tacitare il papa e il re
di Spagna. Intanto fa dichiarare maggiorenne il re tredicenne dal parlamento di
Rouen e questi dichiara agli inviati spagnoli, savoiardi, imperiali e pontifici
di voler far tutto il possibile per conservare la pace religiosa (febbraio
1564).
Caterina si mette all'opera per ricompattare il fronte interno,
ritenendo di aver guadagnato respiro sul piano internazionale. Assieme al
giovane re visita il paese, facendo registrare parlamento per parlamento
l'editto di tolleranza. Nel corso del viaggio (marzo 1564-maggio 1566) le
città sono pacificate, i magistrati troppo rigidi verso gli ugonotti sono
rimossi e il parlamento d'Aix è addirittura sostituito in blocco. Inoltre
l'editto emanato a Roussillon il 4 agosto 1564 ripete tutti i divieti ai
calvinisti, ma garantisce anche i loro diritti, mentre la grande ordinanza di
Moulins (febbraio 1566) limita il diritto di rimostranza dei parlamenti, la
giurisdizione autonoma delle città e le competenze dei governatori delle
varie province.
La regina madre e il re pensano di avere restaurato lo status quo,
ma, nel frattempo, i riformati si insospettiscono per i colloqui di Caterina con
la figlia Elisabetta, moglie del re di Spagna, e con il duca d'Alba (Bayonne, 14
giugno - 2 luglio 1565). In verità quest'ultimo ha proposto un'alleanza
franco-spagnola contro gli ugonotti, ma Caterina si è limitata a un
assenso generico, mai confortato dai fatti. Tuttavia i rapporti con la Spagna
sono ormai un problema cruciale. I nobili ugonotti spingono per un intervento
francese nei Paesi Bassi a fianco dei loro correligionari ribellatisi a Filippo
II. Per forzare la corona tentano quindi di rapire il re a Meaux nel settembre
1567, in seguito assediano Parigi, dove si è barricata la corte, e
provocano in tutte le zone riformate violenti moti anticattolici: è in
questo contesto che ha luogo la "michelade" di Nîmes. I cattolici si
sentono aggrediti e temono una cospirazione calvinista internazionale: sono
quindi pronti a seguire i Guisa.
Inizia la seconda guerra di religione, nella
quale Montmorency muore (11 novembre 1567), difendendo Saint-Denis contro gli
ugonotti e i loro mercenari tedeschi, guidati da Giovanni Casimiro, figlio
cadetto dell'Elettore palatino. Il comando delle truppe regie passa a Enrico,
duca d'Angiò, terzogenito di Caterina, mentre le forze regie sono
irrobustite da soccorsi spagnoli e pontifici. Dopo qualche mese è chiaro
che nessuno dei contendenti è in grado di imporsi militarmente e la
guerra termina con la pace di Longjumeau (23 marzo 1568), che conferma i termini
dell'accordo di Amboise e obbliga la corona a licenziare i mercenari stranieri.
Per gli ugonotti è una piccola vittoria, che alla lunga si rivela
dannosa. La regina madre non attribuisce infatti alcuna importanza alle scelte
religiose e quindi al contrario di molti cattolici non si è mai sentita
minacciata dai riformati. Ora invece teme che questi mirino a disarmare la
monarchia e che portino un paese indebolito allo scontro con la Spagna. Appena
firmata la pace, Caterina sconfessa L'Hospital, favorevole a un accordo politico
con gli ugonotti, e nomina guardasigilli Jean de Morvilliers, vescovo di
Orléans. Inoltre si appoggia nuovamente ai Guisa e in particolare al
cardinale, che le ha proposto di organizzare un grande "partito", da affidare a
Enrico d'Angiò, figlio prediletto della Medici.
Quest'ultima spera
quindi di poter pacificare la Francia, grazie alla forza dei Guisa. Nel giro di
pochi mesi sorgono invece nuove difficoltà. Nel 1568 muore Elisabetta di
Valois e la regina madre perde così il proprio miglior agente alla corte
spagnola. Inoltre la nuova politica religiosa fa salire la tensione del paese.
Nell'autunno sono emanati due editti (28 settembre e 22 dicembre) che prevedono
una sola religione, quella romana, pur concedendo la libertà di
coscienza. I riformati protestano e il Consiglio del re, dominato dai Guisa,
decide d'imprigionare Condé e Coligny, che fuggono e si rifugiano a La
Rochelle. E' l'inizio della terza guerra.
Questa volta le truppe regie
vincono le battaglie di Jarnac (13 marzo 1569) e di Montcour (3 ottobre 1569):
nella prima muore Luigi di Condé, ucciso a tradimento per ordine di
Enrico d'Angiò. Gli ugonotti sono inizialmente ridotti sulla difensiva,
ma poi Coligny riesce ad avvicinarsi a Parigi, obbligando gli avversari a
trattare. La corona infatti non ha più denaro per pagare i mercenari. Per
di più l'entourage della regina è preoccupato per
l'espansionismo spagnolo e offeso perché Filippo II ha sposato la figlia
maggiore dell'imperatore, lasciando a Carlo IX soltanto la minore. I Guisa
potrebbero opporsi alla pace, ma il giovane duca Enrico diviene l'amante di
Margherita di Valois, sorella del re, e quest'ultimo lo scaccia di corte: visto
lo scandalo, anche il cardinale pensa più prudente recarsi a Roma. Si
giunge così all'ennesima tregua: l'editto di Saint-Germain dell'8 agosto
1570 rinnova le concessioni dell'editto di Amboise e concede quattro nuove
piazzeforti ai protestanti.
Nella seconda metà del 1570 crescono a corte le spinte antispagnole,
ma Caterina obietta che bisogna prima trovare nuovi alleati. Tenta quindi di
accasare il figlio Enrico con Elisabetta d'Inghilterra. Non essendovi riuscita,
offre la figlia Margherita ad Enrico di Navarra, divenuto il capo ufficiale
degli ugonotti dopo la morte di Luigi di Condé. Le manovre dilatorie di
Caterina sono, però, ostacolate da Carlo IX, ormai ventenne, che aspira a
regnare autonomamente, e inoltre dai parenti fiorentini. Cosimo de' Medici
è elevato nel 1569 alla dignità di granduca di Firenze contro il
volere della Spagna. Per difendere il proprio potere propone quindi un'alleanza
antispagnola a Ludovico di Nassau (fratello di Guglielmo, principe d'Orange, il
più influente fra i ribelli dei Paesi Bassi) e a Carlo IX. Quest'ultimo
apprezza la possibilità e invita a corte l'ammiraglio di Coligny per
discuterne.
Gaspard di Coligny arriva a Blois nel settembre 1571 e offre la
restituzione delle quattro piazzeforti, concesse agli ugonotti l'anno prima, in
cambio dell'impegno della monarchia a battersi nei Paesi Bassi. Egli vorrebbe
intervenire subito a fianco dei suoi correligionari, ma è invischiato nei
progetti di Caterina per Enrico di Navarra e Margherita Valois. Arriva a corte
anche Giovanna d'Albret, che vi muore il 9 giugno 1572, probabilmente di
tubercolosi (ma Caterina viene sospettata di averla fatta avvelenare dal suo
parrucchiere, ovviamente italiano). Prima di questo decesso le due regine
stringono comunque, l'11 aprile, gli accordi necessari per il matrimonio. Alla
notizia i cattolici fremono, soprattutto a Parigi, mentre i protestanti
preparano, sia pure un po' timorosi, il viaggio verso la capitale.
Nel
frattempo Coligny ha continuato a sollecitare il re per l'intervento nei Paesi
Bassi. Alla fine vi ha addirittura inviato un piccolo corpo di spedizione,
composto da volontari che sono fatti a pezzi dagli spagnoli il 17 luglio 1572.
Coligny chiede al re di vendicare la sconfitta, ma, agli inizi d'agosto, il
Consiglio di Stato si oppone a ogni iniziativa antispagnola. Mentre fervono i
preparativi per il matrimonio di Enrico di Navarra, Coligny inizia a raccogliere
un esercito privato. Caterina teme che queste truppe siano utilizzate in Francia
e non nei Paesi Bassi e, in ogni caso, ritiene rischioso lo scontro con gli
spagnoli. Decide quindi (ma probabilmente lo pensa dalla fine di luglio) che
l'omicidio sia l'unico modo di sbarazzarsi di un alleato scomodo. L'attentato
è concordato con Enrico d'Angiò e con Anna d'Este (per
quest’ultima vedi la terza parte).
I congiurati aspettano la fine dei
festeggiamenti per le nozze e falliscono il colpo. Il 22 agosto 1572 il sicario
Maurevert ferisce soltanto l'ammiraglio. Caterina ed Enrico d'Angiò
paventano quindi una rappresaglia immediata: i capi ugonotti sono infatti ancora
a Parigi, dove si sono recati per le nozze di Enrico di Navarra, assieme al loro
seguito. Dopo essersi consultati con i consiglieri più fidi, rivelano
tutto a Carlo IX e lo forzano a terminare il lavoro, facendo massacrare gli
ugonotti nella notte tra il 23 e il 24 agosto, la notte di s. Bartolomeo. Il
piano prevede l'uccisione di Coligny e dei gentiluomini che lo assistono,
nonché pochi altri omicidi mirati. Invece le guardie del re e gli uomini
dei Guisa (che hanno finto di abbandonare la città la mattina del 23)
scatenano un massacro senza precedenti.
Coligny è trafitto e
scaraventato nella strada ai piedi del duca di Guisa, i suoi compagni sono
uccisi e gli altri nobili ugonotti sono trucidati al Louvre. Pochi si salvano:
Enrico di Condé, figlio di Luigi, ed Enrico di Navarra, perché
sono parenti del re e accettano di abiurare (il primo obbedirà il 12 e il
secondo il 26 settembre); qualcun altro è nascosto da conterranei
cattolici; infine chi è alloggiato nel faubourg Saint-Germain fa a tempo
a scappare. Il giorno successivo il popolo di Parigi, da settimane in
ebollizione, devasta tutte le case che sospetta ospitare riformati e uccide
questi ultimi, dopo averli seviziati senza riguardi per l'età o per il
sesso.
Il 24 agosto il re proibisce di svaligiare le magioni private e il 25
vieta i massacri indiscriminati, ma le violenze cessano soltanto qualche giorno
più tardi: sino al 26 agosto la stessa famiglia reale non osa uscire dal
Louvre e il 29 vi sono ancora soprassalti di furore. Il bilancio è
spaventoso: 600 dimore devastate e almeno 3.000 morti (su circa 200.000
abitanti) tra i parigini, più 60 nobili giunti per il matrimonio di
Enrico di Navarra. Inoltre la strage non resta confinata nella cerchia delle
mura parigine: mano a mano che la notizia si diffonde nel regno, i cattolici
incrudeliscono contro i protestanti di altre città. Almeno 1.000 morti
sono causate dai pogrom di Charité-sur-Loire (24 agosto), Orléans,
Meaux e Bourges (25 e 26 agosto), Angers e Saumur (28 e 29 agosto), Lione (31
agosto), Troyes (4 settembre), di nuovo Bourges (11 settembre), Rouen (17 e 20
settembre), Tolosa (4 ottobre), Gaillac (5 ottobre) e infine Bordeaux (30
ottobre).
Caterina non comprende la portata di quello che ha scatenato, anzi
cerca di riannodare i rapporti con Ludovico di Nassau e con i luterani tedeschi,
dichiarando di aver decretato l'uccisione di Coligny perché questi
minacciava la sicurezza dello stato. Anche il re ripete di aver reagito a un
complotto ugonotto contro la sua famiglia e, per provarlo, fa arrestare Arnaud
de Cavaignes e François de Briquemault, sfuggiti al massacro parigino:
torturati, i due riformati rifiutano di avvalorare l'esistenza del complotto e
vengono giustiziati il 21 ottobre a Parigi.
La tesi regia è
echeggiata da molti scrittori cattolici, in Francia e all'estero, ma
altrettanti, tra gli ugonotti e tra gli stessi cattolici, sospettano la
premeditazione da parte della famiglia reale. Nelle corti europee e soprattutto
a Roma, dove il papa non è convinto dell'utilità del massacro,
nasce la leggenda nera dei Valois, che avrebbero finto di appoggiarsi a Coligny
e a Enrico di Navarra per attirare a Parigi gli ugonotti e sterminarli tutti.
Per molti contemporanei la notte di s. Bartolomeo non è quindi frutto di
circostanze insieme prevedibili e casuali, ma l'ultimo atto di un piano
concertato da lunga pezza.
Gli ugonotti sono duramente colpiti, ma si riorganizzano con
rapidità. Il massacro rafforza la loro coesione interna e allo stesso
tempo li libera da ogni legame di fedeltà verso la corona. La leadership
ugonotta del decennio precedente, composta da nobili militari fedeli nonostante
tutto al re e abituati a pensare in termini non esclusivamente religiosi,
è ora scomparsa o ha abiurato. A Montauban, a Nîmes, nelle
Cevennes, a Sancerre e a La Rochelle i riformati si stringono attorno ai pastori
e proclamano la lotta senza quartiere contro i Valois. In quell'area geografica
si forma una repubblica protestante, ispirata direttamente dalla Chiesa
riformata e sostenuta dalla piccola feudalità turbolenta. Gli ugonotti
che abitano in altre regioni emigrano verso le proprie piazzeforti, oppure
fuggono in Germania, Svizzera e Inghilterra.
Nel settembre 1572 la guerra
riprende. Due mesi dopo tutto il Midi protestante è in armi, mentre le
truppe regie cercano invano di piegare la resistenza dei centri riformati. Dal
12 febbraio 1573 Enrico d'Angiò assedia La Rochelle, ma non riesce a
penetrarvi. Quando è ancora sotto le sue mura, gli viene comunicato
l'elezione a re di Polonia. Con la morte nel 1572 di Sigismondo Augusto II si
è estinta la dinastia degli Jagelloni e i nobili polacchi hanno imposto
la monarchia elettiva. Alla corona aspirano anche lo zar Ivan IV, l'arciduca
Ernesto d'Asburgo, i Vasa di Svezia: Enrico d'Angiò, per essere
prescelto, ha sottoscritto un accordo (pacta conventa, 1573) che lo
obbliga a difendere la libertà di religione. I Valois non possono
continuare a combattere gli ugonotti e quindi il conflitto francese si conclude
con la pace di La Rochelle (24 giugno 1573), che concede ai protestanti
condizioni meno favorevoli di quelle del 1570, ma riconosce comunque la loro
esistenza.
La partenza di Enrico per la Polonia offre uno spazio di manovra
al figlio più piccolo di Caterina, Francesco duca di Alençon.
Questi, sino allora emarginato dalla madre e dai fratelli, si mette alla testa
dei malcontenti. Sotto quest'etichetta si raccolgono nobili cattolici che si
sentono esclusi a favore dei Guisa e degli italiani legati alla regina madre,
oppure ugonotti che non vogliono la dissoluzione del regno, ma il riconoscimento
dei propri diritti. I malcontenti riprendono quindi alcune parole d'ordine dei
già menzionati politici, inoltre desiderano la ripresa della politica
antispagnola, una volta cara ai Valois. Carlo IX decide di soddisfarli e
appoggia nell'inverno del 1573 Ludovico di Nassau, ma il tentativo fallisce.
L'intervento nei Paesi Bassi è una delle ultime decisioni del re,
che muore il 30 maggio 1574. Caterina riprende le redini del regno e sollecita
il pronto rientro di Enrico dalla Polonia, mentre contro di lei si scatena
l'odio degli ugonotti e il disprezzo dei malcontenti. Enrico di Valois fugge dal
suo regno polacco nella notte tra il 18 e il 19 giugno, fa quindi tappa a
Vienna, Venezia, Padova, Ferrara, Mantova, Torino e infine giunge a Lione, dove
si incontra, il 6 settembre 1574, con la madre. Quest'ultima è scontenta
della lentezza con cui si muove il figlio, nonché della sua decisione di
sposare una nobile francese di non distinta casata.
La situazione francese
non è infatti particolarmente favorevole al nuovo re. Sin dal mese
precedente Henry de Montmorency, maresciallo di Damville e governatore della
Linguadoca, ha confederato i cattolici scontenti e gli ugonotti del sud-ovest.
Damville è accusato, forse a torto, di aver partecipato a un complotto
per liberare il duca di Alençon ed Enrico di Navarra, virtualmente
prigionieri a corte, e ha giocato d'anticipo. Ora non soltanto chiede la
conferma dei suoi privilegi, ma propugna anche la riforma della monarchia e
disconosce i diritti dell'erede di Carlo IX.
Enrico si fa consacrare a Reims
e spera di isolare Damville. Invece il 15 settembre 1575 il duca di
Alençon fugge dal Louvre, aiutato dalla sorella Margherita, e si accorda
con il governatore della Linguadoca e con Enrico di Condé, che ha
riacquistato da tempo libertà di movimenti. Sarebbe forse possibile
evitare la guerra concedendo qualche privilegio al fratello cadetto del re e a
Damville, ma Caterina preme per una soluzione di forza.
Scoppia così
la quinta guerra di religione. L'esercito del re è formato soprattutto di
mercenari stranieri; quello dei ribelli da soldati francesi, inoltre gode
dell'appoggio del già citato Giovanni Casimiro, che invade la Champagne
assieme a Condé. Il 10 ottobre 1575 Enrico di Guisa blocca i ribelli a
Dormans e tuttavia i confederati continuano ad avvicinarsi a Parigi, mentre la
corona non ha denaro per pagare i suoi mercenari. Enrico III e Caterina devono
quindi accettare la pace di Étigny (7 maggio 1576). Il successivo editto
di Beaulieu concede: al duca di Alençon il ducato d'Angiò, di cui
prende il titolo, la Turenna e il Berry; a Damville il governo della Linguadoca;
a Condé la piazzaforte di Saint-Jean-d'Angély; agli ugonotti la
libertà di culto, tranne a Parigi, e otto fortezze; a Giovanni Casimiro
un riscatto di 6.000.000 di lire tornesi e una pensione annua di altre 40.000
lire, oltre a nove signorie in Borgogna, il ducato d'Étampes e il feudo
di Château-Thierry.
L'autorità della corona regredisce di
secoli: la Francia torna a sfaldarsi in grandi e piccoli potentati. Per giunta,
Enrico di Borbone e la Navarra tornano al protestantesimo, vista la debolezza di
Enrico III. Anche i cattolici più intransigenti si rivoltano contro il
re, accusato di aver ceduto senza combattere. Sin dagli anni 1560-1570 i
cattolici hanno formato leghe locali (ad esempio ad Angers, Digione, Bourges e
Troyes) per contrastare gli ugonotti: ora queste associazioni si organizzano su
scala più grande. Jean d'Humières, governatore di Péronne,
non si sottomette a Condé, nuovo governatore della Piccardia, e assieme
ad altri funzionari e nobili fonda la Lega piccarda. Parigi formicola di
associazioni di mestiere e di gruppi della borghesia cittadina (soprattutto
funzionari e uomini di legge) che formano milizie per lottare contro gli
eretici: nasce una Lega, che si distingue per i tratti antiaristocratici. In
Borgogna, Champagne, Linguadoca e Nivernais i nobili cattolici organizzano altre
associazioni cattoliche e preparano una nuova guerra. Il capo naturale del
leghismo cattolico è Enrico, duca di Guisa. Questi dichiara di discendere
da Carlo Magno e si comporta da monarca: tratta direttamente con Filippo II, che
aiuta nel 1577 nei Paesi Bassi e dal quale ottiene in cambio forti sovvenzioni.
Enrico III tenta di imitare la strategia della madre nel decennio precedente
e di strappare la mano ai Guisa: si propone quindi come capo naturale delle
forze cattoliche, tanto più che sta svanendo l'opposizione da parte dei
malcontenti, guidati dal fratello minore. Il 6 dicembre 1576 gli Stati Generali
si riuniscono a Blois. Questa volta c'è un solo rappresentante riformato:
gli altri vogliono il ristabilimento dell'unità religiosa e politica e
l'espulsione dei pastori protestanti. Formalmente la maggioranza si dichiara per
una restaurazione pacifica, ma la guerra è già iniziata nel
Saintonge, nelle Alpi e nelle Cevennes.
Il fronte cattolico non è
comunque compatto. Il Terzo Stato resiste alle pressioni degli altri due ordini,
che sono con lui soltanto nel rifiutare soldi per il re, e fa capire che la Lega
esagera. Alcune città importanti, come Amiens e Chalons, hanno infatti
iniziato a opporsi alle prepotenze dei leghisti. Il Terzo Stato ottiene alla
fine una legislazione che rafforzi l'autorità delle istituzioni e della
nobiltà di roba. La grande ordinanza "sur le fait de la police
générale du royaume" prevede, per esempio, la riorganizzazione
dell'economia francese, che dovrebbe essere amministrata da una sorta di
servizio statale controllato da funzionari di origine borghese. Tale progetto
non è ovviamente realizzato, anche se è in parte reiterato (e
cambiato) dagli editti del 1577, 1579 e 1581: resta comunque come monumento e
testimonianza delle aspirazioni del patriziato urbano. Mostra infatti come le
finalità politiche di questo ceto siano, almeno per il momento,
differenti da quelle della nobiltà di spada.
Nel frattempo prosegue la
sesta guerra di religione iniziata sotto tono nel 1576. Tutti i raggruppamenti
si suddividono ulteriormente e aumenta la tendenza all'anarchia generalizzata e
alla distruzione di ogni autorità. Paradossalmente sono gli ugonotti a
pagarne le spese, nonostante la loro apparente compattezza ideologica: in
realtà per resistere ai Guisa si sono impegnati in una serie di alleanze
che li ha portati molto lontani dalle originarie aspirazioni religiose e che li
ha legati ad alleati assai infidi. Il duca d'Angiò li abbandona, prende
loro La Charité-sur-Loire e devasta Issoire, la Ginevra dell'Auvergne.
Anche Damville si schiera dalla parte del re. Per giunta i figli di Coligny e
gli abitanti di La Rochelle non vanno d'accordo con Enrico di Navarra e
permettono a Carlo di Lorena, duca di Mayenne e cadetto dei Guisa, di riprendere
Brouage, il porto del sale. Il 15 settembre 1577 gli ugonotti accettano la pace
di Bergerac, a loro sfavorevole: l'editto di Poitiers permette di nuovo il loro
culto soltanto in una città per baliato.
Alla fine del decennio 1570-1580 la Francia è divisa secondo cesure
regionali, religiose, politiche e sociali che si sommano o si oppongono tra
loro, in modi spesso dettati dalle situazioni locali e dalle strategie dei
singoli clan nobiliari. Il re e Caterina de' Medici stimolano l'anarchia
generale in modo da indebolire equamente alleati e nemici. E' questo il periodo
nel quale la corte francese si guadagna l'attenzione degli specialisti del
pettegolezzo e in effetti gli argomenti scandalistici abbondano: i favoriti (e
non soltanto dal punto di vista politico) del re e i loro duelli contro gli
uomini dei Guisa, del nuovo duca d'Angiò e del re di Navarra; lo
"squadrone volante" delle dame al servizio di Caterina e i loro amori, spesso
calcolati per corrompere un avversario o per convincere un alleato titubante;
l''attitudine "scandalosa" di Margherita, ancora moglie del re di Navarra, ma
non per questo disposta a rinunciare alla propria autonomia esistenziale e
soprattutto intellettuale. I cattolici intransigenti e gli ugonotti non hanno
che da sbizzarrirsi per vilipendere la cerchia di Enrico III.
Enrico di
Navarra diviene alla fine il capo del partito ugonotto, tuttavia non cessa di
far intendere ai cattolici moderati la propria disponibilità a ogni
compromesso. Nel frattempo Caterina tenta di legare con tutti e sfrutta la
figlia Margherita come messaggero di pace o elemento di tensione. Nel 1578 il re
intraprende un viaggio per la Francia, a imitazione di quello di Carlo IX nel
decennio precedente. Tra l'autunno di quell'anno e la fine della primavera del
successivo visita tutte le province meridionali e convince Enrico di Navarra a
non attaccare direttamente la corona. Il buon esito di questi incontri favorisce
la monarchia in occasione della settima guerra di religione, originata dalle
lotte tra i favoriti del re e da una nuova fuga del duca di Angiò. Questa
volta non si combatte soltanto tra ugonotti e cattolici, ma tra centri regionali
in lotta per la preminenza: è il caso per esempio della Provenza, divisa
tra due fazioni che hanno poco a che vedere con gli schieramenti nazionali.
Inoltre la logica delle alleanze religiose salta completamente: così i
protestanti del Delfinato ignorano i propri confratelli e trattano con il duca
di Savoia e con Filippo II.
Il conflitto è concluso dalla pace di
Fleix (26 novembre 1580), che permette al duca di Angiò di cercare nuove
avventure nei Paesi Bassi e alla regina madre di lanciarsi nell'arena
portoghese. Dopo la morte di Sebastiano, ultimo re del Portogallo, Caterina
tenta di dimostrare di essere l'unica erede legittima di Alfonso III (defunto
nel 1279!). Tale pretesa non ha alcuna base, ma i portoghesi accettano
l'appoggio francese contro le mire espansionistiche spagnole. Le manovre della
regina madre e quelle del duca di Angiò spingono la Francia in rotta di
collisione con la Spagna e contrastano i disegni dei Guisa.
La morte improvvisa del duca di Angiò il 10 giugno 1584 spezza le
trame dei Valois per annettersi i Paesi Bassi e il Portogallo, allo stesso tempo
crea gravi problemi dinastici. Enrico III è chiaramente incapace di avere
un erede diretto e i suoi tre fratelli sono morti senza prole. Gli unici eredi
della corona sono dunque Enrico di Navarra e il cardinale Carlo di Borbone. Il
primo ha dal punto di vista genealogico le carte in regola, ma è il capo
dei protestanti: i leader cattolici, sobillati dai Guisa, formano dunque la
Santa Unione per impedirgli l'accesso al trono.
Il duca di Guisa stringe
ulteriormente i rapporti con la Spagna e sottoscrive tra il 31 dicembre 1584 e
il 2 gennaio 1585 un patto segreto a Joinville. La potente casata si impegna a
combattere le manovre dei Valois e a imporre come successore di Enrico III il
cardinale di Borbone; Filippo II si impegna a pagare 50.000 scudi mensili alle
truppe dell'Unione. Forte di questo accordo, Enrico di Guisa lancia a
Péronne un proclama in nome del cardinale di Borbone (30 marzo 1585) e
condanna tutti coloro che minacciano la religione cattolica e lo stato, siano
essi ugonotti, “politici”, cioè cattolici moderati e
favorevoli a un compromesso, favoriti del re o il monarca stesso.
Il 7 luglio
Enrico III cede ai Guisa: con il trattato e l'editto di Nemours ritratta ogni
norma a favore dei riformati e offre all'Unione piazzeforti, governatorati,
pensioni e pagamento di mercenari. Gli ugonotti sono politicamente in una
posizione di stallo, ma il 9 settembre una bolla pontificia cancella Enrico di
Navarra e Condé dalla discendenza del re cristianissimo. Il parlamento di
Parigi insorge contro l'intromissione di Sisto V nella politica francese e una
raffica di pamphlet ugonotti contrari al papa trova ascolto persino tra i
cattolici gallicani.
Nel dicembre 1586 Caterina tenta di trattare
personalmente con Enrico di Navarra, proponendogli di tornare al cattolicesimo.
Dopo aver ricevuto un rifiuto, rientra a Parigi e convince Enrico III a
schierarsi sino in fondo con i Guisa. La Francia si divide in due: il nord-est
è guisardo e il sud-ovest ugonotto. Inizia l'ultima guerra di religione,
che coinvolge tutta l'Europa occidentale. Le truppe di Enrico di Navarra sono
pagate con denaro inglese e danese e al loro fianco combattono gli svizzeri e i
tedeschi arruolati dal solito Giovanni Casimiro. Le sorti dei Guisa sono invece
legate alla Spagna, mentre Enrico III estorce finanziamenti e truppe al
pontefice.
Il re di Navarra disperde le forze avverse a Coutras il 20 ottobre
1587. I Guisa tuttavia non cedono e nell'arco di un mese vincono a Vimory e ad
Auneau, nel Gâtinais. Nel frattempo Enrico III e Caterina cercano di
intavolare trattative segrete con Enrico di Navarra e diventano sempre
più sospetti agli occhi dei cattolici e soprattutto del popolo parigino.
Nel maggio del 1588 quest'ultimo accoglie trionfalmente Enrico di Guisa e
stringe d'assedio il Louvre: il 12 Caterina convince Enrico III a fuggire a
Chartres. Enrico di Guisa è in apparenza il padrone di Parigi, ma la
città si dà un proprio ordinamento, poco disponibile alle
strategie dei grandi di Francia.
Caterina resta nella capitale e opera per
riannodare i rapporti tra il duca di Guisa e il re: quest'ultimo acconsente a
nominare il primo suo luogotenente generale (editto del 15 luglio 1588), a
riconoscere Carlo di Borbone come parente più prossimo, a condannare
nuovamente il culto calvinista e ad indire una riunione degli Stati Generali.
Caterina ed Enrico III accettano questo accordo, perché pensano che
l'Inghilterra stia per essere invasa dall'Invincibile Armata. L'inattesa
sconfitta spagnola rende libertà d'azione al re, che licenzia i ministri
legati alla madre e ai Guisa e durante la riunione degli Stati Generali
(settembre-ottobre) si mostra poco incoraggiante verso il futuro dell'alleanza
franco-spagnola. Infine il 23 dicembre alcuni suoi fedeli uccidono nel castello
di Blois Enrico di Guisa e catturano il fratello cardinale, che spacciano il
giorno successivo. Nel frattempo sono arrestati il cardinale di Borbone e alcuni
esponenti della Lega cattolica. Caterina è sorpresa dalla manovra del
figlio, ma è gravemente malata e si spenge il 5 gennaio 1589.
Enrico
III è ormai affrancato da ogni tutela e nell'aprile 1589 incontra a Tours
Enrico di Navarra. Intanto Parigi non gli apre le porte e si trasforma in una
repubblica cattolica retta dal Consiglio dei Sedici (dal numero degli
"arrondissements" della città), che provvede a una violenta epurazione
dei sospetti di simpatie ugonotte. Navarra e Enrico III avviano la riconquista
della Francia e muovono alla volta di Parigi. Le forze cattoliche tentano invano
di opporsi: Sisto V ordina che il re si rechi a Roma, pena la scomunica; la
Sorbona dichiara che la Francia è sciolta da ogni obbligo di
fedeltà verso un monarca che ha tradito la vera fede; il duca di Mayenne
raccoglie le forze dell'Unione cattolica. Tutto sembra inutile: le truppe
ugonotte e quelle regie si schierano attorno a Parigi, ma il 1 agosto 1589
Jacques Clément pugnala Enrico III.
L'ultimo dei Valois muore
designando Enrico di Navarra come suo successore. I leghisti rispondono
consacrando il cardinale di Borbone come Carlo X; questi, però, è
prigioniero di Enrico IV, re di Navarra e di Francia, che lo ha ereditato dal
Valois. Il nuovo re controlla perciò il gioco dinastico, gli sfugge
invece gran parte del regno, anche se l'appoggio dei soldati suoi e del suo
predecessore, nonché di 4.000 inglesi, e i copiosi sussidi versatigli
dalle Province Unite dall'aprile del 1588 gli permettono di prepararsi a
conquistare la Francia.
Enrico IV si rivela ottimo stratega. Sul piano
diplomatico promette di farsi istruire alla religione cattolica e riserva ai
cattolici il comando delle principali roccaforti (dichiarazione di Saint-Cloud,
4 agosto 1589). Sul piano militare prende Dieppe, un mese dopo la morte di
Enrico III; quindi respinge Mayenne ad Arques (21 settembre 1589) e punta su
Parigi, ma è a sua volta fermato dal rientro di Mayenne. Si muove allora
alla volta di Tours: da questa città attacca poi Le Mans, Laval, Lisieux,
Honfleur e prepara il blocco di Rouen e una nuova spedizione su Parigi. Il 9
maggio 1590 muore il cardinale di Borbone e cinque giorni dopo Enrico, ormai
senza rivali dinastici, spezza ad Ivry l'armata dell'Unione. Stringe quindi
d'assedio Parigi, dove l'8 agosto scoppia una sommossa per aprirgli le porte. La
rivolta è guidata dai più rispettabili borghesi: il consiglio dei
Sedici reagisce con durezza e alcuni capi (o pretesi tali) degli insorti sono
giustiziati, mentre altri fuggono. Tutto ciò non basterebbe a salvare la
città, senza l'intervento del re di Spagna, preparato sin dal settembre
dell'anno precedente. Alla fine di luglio Alessandro Farnese, duca di Parma,
lascia i Paesi Bassi alla testa di 20.000 uomini: il 19 settembre giunge a
Parigi e la strappa ad Enrico.
Dopo la vittoria Farnese rientra nei Paesi Bassi, ma truppe spagnole
restano in Francia e tengono in scacco Enrico IV. Tuttavia lo sforzo economico
è devastante per Filippo II. Il monarca spagnolo ha versato alla Santa
Unione 1.000.000 di corone tra il 1582 e il 1587 e 2.000.000 tra il 1588 e il
1590; nel quinquennio successivo ne elargisce 2.500.000. A queste aggiunge il
sussidio al duca di Savoia, che dal 1589 riceve 5.000 corone al mese,
affinché rivendichi di essere nipote di Francesco I e occupi tutta la
Provenza, e le spese per una guarnigione di 1.000 uomini a Parigi e per le
truppe di stanza in Savoia, Linguadoca, Franca Contea e in Bretagna, dove un
altro Guisa, Filippo Emanuele, duca di Mercoeur, gli ha aperto le porte. La
corona iberica si rovina e, per controllare la Francia, rischia di perdere i
Paesi Bassi. Inoltre il suo intervento coagula attorno ad Enrico IV quei
francesi, anche cattolici, che non vogliono vedere il proprio paese smembrato
dagli spagnoli.
Filippo II vorrebbe infatti unire la Piccardia alle Fiandre
spagnole e assegnare la Bretagna all'infanta e la Provenza a Carlo Emanuele di
Savoia. A tal scopo pensa di tacitare Enrico di Navarra, concedendogli il
Béarn e la Guascogna. Il navarrino dovrebbe, però, divenire suo
vassallo. Enrico non accetta e prosegue a battersi, sostenuto da Elisabetta
d'Inghilterra, dalle Province Unite, dalla Svizzera e dai principi tedeschi del
Brandenburgo, Sassia, Würtemberg, Assia e Palatinato. Nel frattempo reitera
le sue avances ai cattolici.
Questi ultimi iniziano a dividersi,
tanto più che Sisto V, prima di morire, ha rivelato le sue
perplessità riguardo alle aspirazioni spagnole. Inoltre il duca di
Mayenne, che mira alla corona francese, teme che Filippo II la voglia per la
figlia. Contemporaneamente non si sente molto sicuro di Parigi: nel novembre
1591 il Consiglio dei Sedici decreta l'impiccagione di alcuni magistrati e
afferma in modo esplicito che è il popolo a fare i re. Mayenne impicca
gli istigatori di quei processi e per tutto il 1592 combatte proprio coloro che
sono più decisamente avversi a Enrico IV, ma che a questo punto
minacciano le ambizioni dinastiche dei Guisa.
Alla fine del 1592 il duca
spera di risolvere l'intrico sposando l'infanta. Inoltre decide di promuovere
gli Stati Generali per suffragare le proprie aspirazioni. L'assemblea si tiene
al Louvre nel gennaio 1593, ma molte province non inviano rappresentanti,
perché vogliono il ritorno alle antiche libertà. Inoltre, proprio
durante gli Stati Generali, si viene a sapere che Filippo II sta trattando il
matrimonio della figlia con l'arciduca Ernesto d'Austria: se Isabella di Spagna
riceve in dote la corona francese, la Francia diverrà una provincia
asburgica. Questa prospettiva incrina l'alleanza fra i Guisa e il re spagnolo.
Nell'aprile 1593 si incontrano a Suresne i rappresentanti dei Guisa e di
Enrico IV: alla riunione partecipa anche una delegazione parigina venuta
espressamente per promuovere la pace. Pierre d'Épinac, arcivescovo
leghista di Lione, e Roland de Beaune, arcivescovo filo-realista di Bourges,
valutano congiuntamente la possibile conversione del re ugonotto. Inoltre il 28
giugno il parlamento di Parigi chiede al duca di Mayenne di opporsi alle manovre
spagnole. Filippo II intravede il pericolo e offre la figlia ai Guisa, ma Beaune
lo brucia sul tempo e, il 25 luglio, riceve a Saint-Denis l'abiura di Enrico IV.
Buona parte degli ugonotti prosegue ad appoggiare il proprio antico leader,
mentre ampi settori della nobiltà e della borghesia cattolica si decidono
a sostenere Enrico contro gli spagnoli. Il 27 febbraio 1594 è quindi
consacrato re dalla Chiesa cattolica francese e il 22 marzo Parigi gli apre le
porte. La folla, che lo acclama, richiede a gran voce l'allontanamento dei
soldati valloni e spagnoli di stanza in città. Quando il sovrano giunge a
Notre-Dame, le truppe di Filippo II fuggono. Infine il 22 aprile la
facoltà di teologia della Sorbona, che sino ad allora ha sempre o quasi
appoggiato la Lega, riconosce a Enrico il titolo di re cristianissimo.
Il
nocciolo duro della Lega resiste e conta sul rifiuto del papa di accettare la
conversione di un eretico relapso. Inoltre si affida al pugnale dei sicari, ma
Enrico sfugge al tentativo di Jean Châtel. Il parlamento di Parigi
approfitta dell'avvenimento per ottenere l'espulsione dei gesuiti (l'attentatore
è un loro ex-allievo) e per invitare tutti i francesi a sostenere il
nuovo re. Il fallito attentato coagula quindi un protonazionalismo antispagnolo
e antiromano, ormai ampiamente diffuso tra le élite nobiliari e borghesi.
Attenua inoltre le prevenzioni contro gli ugonotti e permette una convivenza se
non pacifica, quanto meno non troppo bellicosa.
Il 17 gennaio 1595 la
Francia dichiara guerra alla Spagna. Enrico IV sconfigge gli spagnoli e le
truppe del duca di Mayenne, governatore della Borgogna, a Fontaine
Française. Gli stessi gesuiti capiscono che il vento è girato e
appoggiano la richiesta dei cardinali d'Ossat e Du Perron di togliere la
scomunica al re di Francia. Il papa acconsente: il 17 settembre 1595 assolve il
sovrano francese e demolisce le ultime speranze dell'Unione. I capi della Lega,
i duchi di Mayenne e di Guisa in testa, iniziano a trattare. Nell'estate 1595
Guisa consegna a Enrico IV Reims e poi comanda in nome del re la riconquista
della Provenza. Tra la fine del 1595 e l'anno successivo le città aprono
le loro porte al lo sire in cambio di privilegi di vario tipo. La nobiltà
si accorda egualmente con il nuovo sovrano, talvolta spinta, come in Guascogna,
Guienna, Limousin e Périgord, dalla rivolta dei contadini esasperati per
i lunghi anni di guerra.
Quest'ultima non è, però, finita.
Filippo II riprende l'offensiva e gli spagnoli calano dai Paesi Bassi su Cambrai
e Calais: nel marzo 1597 conquistano Amiens e minacciano la stessa Parigi. Nel
settembre dello stesso anno il duca di Mayenne e il duca di Biron riconquistano,
però, Amiens in nome del re, mentre le truppe spagnole attestate in
Bretagna sono alla fame. Agli inizi del 1598 Mercoeur, l'ultimo dei Guisa ad
appoggiare gli spagnoli, tratta con Enrico IV il matrimonio della propria figlia
e di César de Vendôme, figlio del re e di Gabrielle
d'Estrée. Il 2 maggio 1598 il trattato di Vervins ratifica l'insuccesso
di Filippo II. La Savoia tenta da sola di difendere le proprie conquiste, ma
è alla fine obbligata a cedere (pace di Lione, 1601).
Il dopoguerra non si rivela facile. Una congiuntura economica e demografica
favorevole ha permesso al regno di non soffrire troppo il primo trentennio di
guerre, ma l'ultimo decennio del secolo ha segnato l'inizio della crisi. Il
lento decrescere della produzione agricola, aggravato dalle distruzioni di
guerra, porta l'arresto demografico e la recessione economica. L'inflazione
aumenta e divora la sicurezza (già minima) dei poveri. Inoltre la
situazione religiosa non è del tutto tranquilla. Enrico IV accorda agli
antichi correligionari un parziale riconoscimento della libertà di culto
e il possesso di alcune piazzeforti (editto di Nantes, 13 aprile 1598). Tuttavia
gli ugonotti non stanno meglio, né sono più tranquilli di quanto
lo fossero nel 1576 dopo la pace di Étigny. Sul fronte cattolico le
concessioni ai riformati (e la speculare riammissione dei gesuiti) irritano i
parlamenti che si sentono esautorati e resistono a lungo prima di iscrivere gli
articoli dell'editto di Nantes.
In mezzo a queste difficoltà Enrico IV
dimostra una grande abilità. Mira, in primo luogo, a rimettere in piedi
la struttura economica: si guadagna così l'appoggio dei ceti produttivi,
dai borghesi delle città commerciali alla popolazione delle campagne.
Sfrutta inoltre l'aspirazione generale alla pace e all'unità per
reprimere ogni forma di agitazione sociale, dal banditismo rurale alle pretese
signorili. Impone infine la costruzione di uno stato accentrato, in grado di
contrastare ogni tentativo (feudale, borghese o contadino) di separatismo.
Al fianco del re due calvinisti, Maximilien de Béthune, duca di Sully
dal 1606, e Barthélemy Laffémas, mettono ordine nelle spese,
riducono il debito, ricreano il tesoro e organizzano un embrione di esercito
nazionale, arruolando i veterani delle guerre civili, che costano meno dei
mercenari e sono più sicuri. Inoltre bonificano, costruiscono strade,
facilitano gli investimenti nella terra (diminuendo la tassa sulla
proprietà fondiaria) e al contempo operano per la nascita di una
manifattura di stato, nonché avviano la colonizzazione del Nuovo Mondo.
Insomma la Francia si avvia a divenire una grande potenza.
Tuttavia le acque
non si calmano del tutto. Da una parte, le tensioni religiose covano sotto le
ceneri, anche se gli ugonotti sono molto diminuiti di numero (sono 1.250.000
contro i 2.000 di quaranta anni prima). Dall'altra, l'opposizione a Enrico III
ha fatto meditare sulla possibilità, anzi la necessità, di
uccidere i re che non rispettino i propri doveri. Questi due elementi
confluiscono nell'atto di François Ravaillac, che pugnala nel 1610 Enrico
IV, temendo una congiura contro i cattolici sul modello (rovesciato) della
strage di s. Bartolomeo. La morte del re rilancia le tendenze separatiste,
religiose e nobiliari, e ripiomba la Francia in contrapposizioni che spariscono
soltanto sotto Luigi XIV, a scapito di ogni forma di tolleranza politica e
religiosa.
A ben guardare l'editto di Nantes segna quindi soltanto la fine
della fase più acuta del conflitto tra cattolici e protestanti. In
realtà lo scontro non è risolto neanche dalle dragonnades
di Luigi XIV: riesplode durante la rivoluzione francese e innerva vari episodi
della vita politica francese dell’Otto e del Novecento secolo (si pensi
alla campagna presidenziale tra Chirac e Jospin e al continuo scontro tra i due
durante il mandato del primo). D'altronde nelle stesse guerre di religione del
Cinquecento si possono scorgere alcune costanti della storia francese, che
trovano origini nei secoli precedenti: le tendenze centrifughe e i contrasti dei
clan nobiliari, ma anche la rivendicazione di autonomia politica e religiosa
dell'area occitanica, in particolare la Linguadoca, contro l'accentramento
voluto dall'Ile de France. Lo iato di alcuni secoli fra lo sviluppo dell'eresia
catara e quello della chiesa riformata non permette alcun raffronto diretto, ma
è comunque interessante notare come le rocche albigesi e quelle
protestanti spesso coincidano.
Potremmo quindi rovesciare uno degli assunti
di Braudel e affermare che la notte di s. Bartolomeo non spezza lo sviluppo
della Francia, proprio perché in qualche modo ne enuclea una delle
tendenze più profonde: la contrapposizione geografica, politica e
religiosa fra le élite del paese, ma anche la loro tendenza ad allearsi
di fronte ad una minaccia esterna. Per i cattolici gli ugonotti sono
antropologicamente alieni, per gli occitanici gli uomini del nord sono degli
stranieri; tuttavia entrambi preferiscono un re francese - qualsiasi cosa voglia
dire questo aggettivo in un'epoca che non conosce la nostra accezione di
nazionalità - a uno spagnolo.
La bibliografia sulle guerre di religione in Francia è enorme;
limitiamoci quindi alle opere più recenti. Per il Cinquecento francese in
generale, si può iniziare con: Howell A. Lloyd, La nascita dello stato
moderno nella Francia del Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1986; F.J.
Baumgartner, France in the Sixteenth Century, New York, St. Martin's
Press, 1995; Emmanuel Le Roy Ladurie, Lo Stato del re. La Francia dal 1460 al
1610, Bologna, Il Mulino, 1999. Per i Valois: Jean Jacquart,
François Ier, Paris, Fayard, 1981; E. Bourassin, Charles
IX, Paris, Arthaud, 1986; Pierre Chevallier, Henri III, Paris,
Fayard, 1985; Mack P. Holt, The Duke of Anjou and the Politique Struggle
During the Wars of Religion, London-New York, Cambridge University Press,
1986. I personaggi femminili della famiglia reale sono molto studiati: basti
ricordare le biografie di Caterina de' Medici di Ivan Cloulas (tr.it., Firenze,
Sansoni, 1980) e Jean Orieux (tr.it., Milano, Mondadori, 1987) e quelle di
Margherita di Valois di Éliane Viennot (tr.it. Milano, Mondadori, 1994) e
Janine Garrisson (Paris, Fayard, 1994). Per lo scontro tra clan nobiliari: Nancy
Lyman Roelker, Queen of Navarre: Jeanne d'Albret, 1528-1572, Cambridge,
Mass., Harvard University Press, 1968; J. Shimizu, Conflict of Loyalities:
Politics and Religion in the Career of Gaspard de Coligny, Admiral of France,
1519-1572, Genève, Droz, 1970; Jean-Marie Constant, Les Guise,
Paris, Hachette, 1984; Raymond A. Mentzer, Blood and Belief: Family Survival
and Confessional Identity Among the Provincial Huguenot Nobility, West
Lafayette, Purdue University Press, 1994. Per l'opposizione tra nobiltà e
Corona: Arlette Jouanna, Le devoir de révolte. La noblesse
française et la gestation de l'État moderne, 1559-1661, Paris,
Fayard, 1989, e Un programme polique nobiliaire: les Mécontents et
l'État (1574-1576), in L'état et les aristocraties (France,
Angleterre, Écosse) XIIe-XVIIe, a cura di Philippe Contamine, Paris,
Presses de l'École Normale Supérieure, 1989, pp. 247-277. Per
Enrico IV sono utili le biografie di Jean-Pierre Babelon (Paris, Fayard, 1982) e
Janine Garrisson (Paris, Seuil, 1984), nonché Ronald S. Love, The
Symbiosis of Religion and Politics. Reassessing the Final Conversion of Henri
IV, "Historical Reflections/Reflexions Historiques", 21, 1 (1995), pp.
27-56.
Per l'importanza del fattore religioso, si ricorra a Denis Crouzet,
Les guerriers de Dieu, Seyssel, Champvallon, 1990. Per la Chiesa
riformata: Jean Delumeau, La Riforma, Milano, Mursia, 1975; Janine
Garrisson, Histoire des protestants en France, Toulouse, Privat, 1977, e
Protestants du Midi (1559-1598), ivi, 1980. Per Parigi e la Lega: F.J.
Baumgartner, Radical Reactionaries: The Political Thought of the French
Catholic League (1588-1594), Genève, Droz, 1976; Élie Barnavi,
Le parti de Dieu, Paris-Louvain, Nauwelaerts, 1980; Robert Descimon,
Qui étaient les Seize?, Paris, Klincksieck, 1983; Denis Richet, De
la Réforme à la Révolution, Paris, Aubier, 1991;
Jean-Marie Constant, La Ligue, Paris, Fayard, 1996. Thierry Wanegffelen,
Ni Rome ni Genève. Des fidèles entre deux chaires en France au
XVIe siècle, Paris, Honoré Champion, 1998, studia coloro che
non si vollero schierare né con il papa, né con Calvino. Sulla
percezione cattolica dei protestanti, confronta W.J. Naphy, Catholic
Perceptions of Early French Protestantism: The Heresy Trial of Baudichon de la
Maisonneuve in Lyon, 1534, "French History", 9, 4 (1995), pp. 451-477.
Sulle guerre in generale è utilissimo Édits des guerres de
religion, a cura di André Stegmann, Paris, Vrin, 1979. Si vedano
inoltre: Pierre Miquel, Les guerres de religion, Paris, Fayard, 1980;
Henri Lapeyre, La Francia dei Valois e le guerre di religione, in La
Storia, V, L'età moderna, 3, Stati e Società,
Torino, UTET, 1986, pp. 123-143; M. Pernot, Les guerres de religion en France
(1559-1598), Paris, SEDES, 1987; la riedizione di Georges Livet, Les
guerres de religion, Paris, PUF, 1988; Janine Garrisson, Guerre civile et
compromis, 1559-1598, Paris, Seuil, 1991 (Nouvelle Histoire de la France,
II); Mack P. Holt, The French Wars of Religion 1562-1629, Cambridge,
Cambridge University Press, 1995. Sulla notte di s. Bartolomeo: Janine
Garrisson, La Saint-Barthélemy, Bruxelles, Complexes, 1987;
Jean-Louis Bourgeon, Pour une histoire enfin de la
Saint-Barthélemy, "Revue Historique", 282 (1989), pp. 83-142, e
L'Assassinat de Coligny, Genève, Droz, 1992; Barbara Diefendorf,
Beneath the Cross. Catholics and Huguenots in Sixteenth Century Paris,
Oxford, Oxford University Press, 1991; Marc Venard, Arrêtez le
massacre!, "Revue d'histoire moderne et contemporaine", 39 (1992), pp.
645-661; Denis Crouzet, La Nuit de la Saint-Barthélemy. Un Rêve
perdu de la Renaissance, Paris, Fayard, 1994. Sulla dimensione
internazionale del conflitto e la risonanza del massacro: M.N. Sutherland,
The Massacre of Saint Bartholomew and the European Conflict, 1559-1572,
London, MacMillan, 1973; Geoffrey Parker, The Dutch Revolt, London,
Penguin, 1985; Robert M. Kingdom, Myths about the St. Bartholomew's Day
Massacres, 1572-1576, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988.
Sulle aspirazioni antispagnole di molti francesi, si veda Myriam Yardeni, La
conscience nationale en France pendant les guerres de religion (1559-1598),
Paris, Louvain, 1971. Per la questione delle libertà gallicane, si
ricorra ad Aimé-Georges Martimor, Le gallicanisme, Paris, PUF,
1973. Sull'editto di Nantes la bibliografia è ricchissima; citiamo solo
due opere apparse per il quattrocentenario: Janine Garrisson, L'Édit
de Nantes. Chronique d'une paix attendue, Paris, Fayard, 1998; Coexister
dans l'intolérance: l'Édit de Nantes (1598), a cura di Michel
Grandjean e Bernard Rousset, "Bulletin de la Société d'histoire du
protestatisme français", 144 (1998). Sul regno di Enrico IV, vedi infine
Mark Greengrass, France in the Age of Henri IV, New York, Longman,
1995.
In italiano non si è pubblicato molto sulle guerre di religione,
ma i pochi lavori di italiani sono di ottima qualità: Vittorio De
Capraris, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di
religione, Napoli, ESI, 1959; Corrado Vivanti, Lotta politica e pace
religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1963. Per i
rapporti tra il papato e la Francia durante le guerre di religione si vedano i
voll. V-X della Storia dei Papi di Ludwig von Pastor, le voci Caterina
de' Medici, Renato Birago, Camillo Capilupi, Anna,
Ippolito e Luigi d'Este del Dizionario Biografico degli
Italiani, nonché Pierre Hurtubise, Comment Rome apprit la nouvelle
de la Saint-Barthélemy, "Archivum Historiae Pontificiae", 10 (1972),
pp. 187-209 e i volumi della serie "Acta Nuntiaturae Gallicae" edita dall'Ecole
Française e dall'Università Gregoriana di Roma. In particolare,
tra questi ultimi, si consulti la Correspondance du nonce en France Antonio
Maria Salviati (1572-1578), a cura di Pierre Hurtubise e Robert Toupin,
Rome, Université Pontificale Grégorienne-École
Française de Rome, 1975. Sempre di Hurtubise si cerchi Mariage mixte
au XVIe siècle. Les circostances de la première abjuration d'Henri
IV à l'automne de 1572, "Archivum Historiae Pontificiae", 14 (1976),
pp. 103-134. Un'altra fonte sulla notte di s. Bartolomeo è stata curata
da John Tedeschi: Tommaso Sassetti, Il massacro di San Bartolomeo, Roma,
Salerno, 1995. Sull'azione e la corrispondenza dei nunzi in Francia durante le
ultime fasi delle guerre di religione, si può partire da
Anne-Cécile Tizon-Germe, Juridiction spirituelle et action pastorale
des légats et nonces de France pendant la Ligue (1589-1594),
"Archivum Historiae Pontificiae", 30 (1992), pp. 159-230. Per il dibattito
politico ispirato dalle guerre, si leggano l'introduzione di Saffo Testoni
Binetti a Stephanus Junius Brutus, Vindiciae contra Tyrannos. Il potere
legittimo del principe sul popolo e del popolo sul principe, Torino, La
Rosa, 1994, e Michel de L'Hospital, Pace religiosa e ordine politico, a
cura di Luigi Gambino, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1995, nonché le
pagine relative in Quentin Skinner, Le origini del pensiero politico
moderno, II, Bologna, Il Mulino, 1989, e Paolo Prodi, Il sacramento del
potere, Bologna, Il Mulino, 1992.
Sulla rete è disponibile
abbastanza materiale, soprattutto bibliografie, testi d'epoca e cartine: per una
buona ricerca si può partire da
http://www.lepg.org.
Come abbiamo visto l'andamento delle guerre di religione francesi non è soltanto determinato dagli avvenimenti interni, ma subisce prepotentemente l'influsso di quelli esterni al regno. In primo luogo la politica di Filippo II, ma anche i due fronti che vedono questi impegnato contro gli inglesi e gli olandesi. L'incastro di questi elementi è stato variamente saggiato dalla letteratura storiografica otto-novecentesca, tuttavia vale qui la pena di ripercorre le linee principali della strategia del sovrano spagnolo e poi vedere come quest'ultima non abbia funzionato, soprattutto nel caso inglese e olandese. A proposito della rivoluzione olandese, verranno riassunte le vicende della Rivoluzione sino al 1598, mentre per il conflitto fra Spagna e Inghilterra l'attenzione sarà focalizzata sul solo, emblematico episodio dell'Invincibile Armata.
La morte di Filippo II (1527-1598) chiude il secolo dell'espansione
spagnola. Il regno iberico va allora dal Vecchio al Nuovo Mondo. In Europa
comprende la penisola iberica, Napoli e Milano, e i Paesi Bassi. In Africa
è attestato a sud-est e sud-ovest dello stretto di Gibilterra. Nelle
Americhe occupa il subcontinente centro-meridionale, il Messico e la Florida. In
Asia include le Filippine. La maggior parte di questo impero è frutto
delle conquiste e delle strategie matrimoniali dei re precedenti. Filippo vi ha
soltanto aggiunto il Portogallo e le Filippine. In compenso ha dovuto
continuamente difendere i propri domini dalle pressioni interne ed esterne.
Al tradizionale nemico francese, temuto persino durante le guerre di
religione (vedi la prima parte), si sono infatti aggiunti altri agguerriti
avversari. I Paesi Bassi in rivolta hanno impegnato le armate di Filippo in una
guerra senza fine, che, per sventura dei successivi re spagnoli,
continuerà sino alla metà del secolo successivo (vedi più
avanti). Gli inglesi hanno sfidato pervicacemente Filippo, depredandone galeoni
e avamposti americani. Infine hanno preso le parti degli olandesi nel 1585 e
inflitto alla Spagna una significativa sconfitta sul mare (vedi più
avanti). L'impero ottomano è stato infine il nemico più lontano,
ma anche più pericoloso. Ha continuato a minacciare traffici e terre
spagnole persino dopo la sconfitta di Lepanto (1571): ha infatti conquistato nel
1574 Tunisi e nel 1576 quasi tutto il Marocco. La sua sola presenza ha vincolato
la Spagna alla difesa del Mediterraneo e le ha impedito di schiacciare gli
olandesi e gli inglesi.
Le spinte centrifughe non sono state meno dannose. La
stessa rivolta olandese è in fondo espressione di esse, ma non va
dimenticato che tutta la vicenda iberica è allora contraddistinta dalla
turbolenza interna: si pensi al brigantaggio catalano o alla resistenza
aragonese. Inoltre tutti i domini spagnoli chiedono maggiori privilegi o un
miglior trattamento politico-fiscale: è il caso ancora dei Paesi Bassi,
ma anche delle proteste italiane, in particolare siciliane. Infine le colonie
americane hanno sempre preteso di essere aiutate, senza mai rinunciare alle
rivendicazioni autonomistiche (si pensi all'agitazione endemica in Perù e
all'insurrezione messicana del 1565) e soprattutto al contrabbando, che lede i
diritti economici della madrepatria.
Proprio la vicenda americana ci mostra
quale è stato il vero problema di Filippo II. Egli ha dovuto infatti
amministrare un impero assai vasto, le cui componenti a malincuore hanno
contribuito alle enormi spese amministrativo-militari. La sola campagna navale
di Lepanto è costata 800.000 ducati alla Spagna e 400.000 all'Italia
spagnola. La difesa del Mediterraneo ha comportato bilanci oscillanti tra i
700.000 ducati e il milione e mezzo. Per l'esercito nei Paesi Bassi si è
arrivati a spendere più di 3.700.000 ducati l'anno. Infine la sconfitta
dell'Invincibile Armata ha vanificato un investimento di oltre dieci milioni di
ducati.
Per secoli gli storici hanno spiegato che i tesori americani hanno
permesso alla Spagna di finanziare la strenua difesa dei propri confini.
Tuttavia i diplomatici veneziani del tempo sono convinti che i domini nelle
Americhe non rendevano quanto serviva a Filippo: "la nuova Spagna detta il
Perù, et altre isole, che son situate fuor dello stretto di Gibilterra,
dette l'Indie, sono ricchissime e d'oro e d'argento, e di perle, mà con
tutto ciò non danno a S. M.à maggior' benefitio, che di 500 mila
scudi l'anno" (Antonio Tiepolo).
L'America offre alla madrepatria giusto
quello che la Spagna stessa produce, anzi meno. Michele Soriano calcola nel 1560
che le entrate della Corona iberica sono pari a cinque milioni di scudi
(quindici anni più tardi sono aumentate di appena mezzo milione, ma nel
1598 raggiungono i nove milioni settecento mila): mezzo milione viene dalle
Indie tutte (e quindi Soriano vi include anche il frutto dei domini nel
Pacifico), un altro mezzo dalla Spagna, due dai possessi italiani - equamente
ripartiti fra Milano e Napoli - e due dai Paesi Bassi e dalle Fiandre. L'Italia
e i Paesi Bassi sono perciò la chiave di volta dell'impero, sborsando
quattro milioni sui cinque annualmente incassati.
I veneziani sottolineano
quanto questa cifra sia lontana dai sei milioni di uscita necessari nei rari
anni di pace. Il bilancio imperiale è quindi sempre in rosso e il deficit
cresce, quando Filippo difende i suoi domini. D'altra parte rinunciare a tale
difesa comporterebbe la perdita di cospicue entrate, soprattutto nel caso dei
Paesi Bassi. Filippo II cerca allora di rastrellare denaro aumentando le tasse
sino al 140% e indebitandosi. Purtroppo i prestiti alla Corona erodono
implacabilmente le entrate, tanto che alla morte del re gli interessi sul debito
pubblico sono pari all'85% di quelle.
Filippo è probabilmente
impreparato a gestire una situazione così esplosiva. Il padre lo ha fatto
educare in Spagna per frenare le rivendicazioni di quest'ultima, che non voleva
un regnante straniero. Filippo II manca quindi del respiro europeo di Carlo V,
inoltre la sua educazione è molto ritardata, tanto che a sette anni non
sa leggere, né scrivere. Agli inizi degli anni 1540 Filippo è
comunque un perfetto spagnolo: nel 1543 diviene reggente di Spagna e si sposa
con Maria di Portogallo, rinnovando l'alleanza già ratificata dalle nozze
del padre e della madre Isabella. Il suo orizzonte è quindi ristretto
alla sola penisola iberica. Nel 1548 Carlo decide perciò di farsi
raggiungere dal figlio nei Paesi Bassi e di completarne l'istruzione politica.
Nel frattempo la prima moglie di Filippo è morta (1545), dando alla
luce il figlio Carlos. Il reggente di Spagna è quindi utilizzabile per
nuovi accordi dinastici. Carlo V pensa allora di farlo sposare con una
principessa francese, ma nel frattempo lo manda a vedere l'Italia, la Germania e
i Paesi Bassi.
Il matrimonio francese non riesce e nel 1554 Carlo V fa
sposare il figlio con Maria Tudor, regina d'Inghilterra. Nel 1555 gli affida i
Paesi Bassi e nel 1556 lo designa re di Spagna, anche se Filippo rimane in
Europa settentrionale sino al 1559. Spera infatti di mantenere il controllo
dell'Inghilterra, che tuttavia gli sfugge, quando la moglie spira nel 1558. In
quell'anno muore anche Carlo V, dopo un biennio di convulse lotte contro i
francesi. Filippo riesce a conchiudere la pace a Cateau-Cambrésis in una
posizione di netto vantaggio, ma deve ormai decidere da solo.
Il suo lungo
regno ha caratteristiche diverse da quello paterno. In primo luogo Filippo non
ha i domini asburgici, né il titolo imperiale, che vanno allo zio
Ferdinando. In secondo luogo non vuole essere un sovrano itinerante, come era
stato il padre, e accentra a Madrid il controllo di tutti i territori regi. In
terzo luogo è deciso a governare da solo. Accentra quindi tutto nelle
proprie mani. In breve la mole di lavoro diviene enorme e dal 1573 Filippo deve
farsi aiutare da un segretario particolare, che smista la corrispondenza in
arrivo e risponde alle questioni di minor importanza. In ogni caso varie
testimonianze sottolineano come il re passi allo scrittoio otto o nove ore ogni
giorno.
Nel 1570 Filippo sposa Anna d'Austria, che muore dieci anni
più tardi dopo avergli dato sette figli, tra i quali sopravvive soltanto
il futuro Filippo III. La situazione dinastica non è quindi delle
più sicure. Inoltre il re è in difficoltà su molti fronti.
In particolare teme di perdere il controllo religioso della Spagna: per questa
ragione, a partire dal 1570, appoggia con sempre maggior decisione
l'Inquisizione (lotta ai conversos, gli ebrei convertitisi, e ai
cripto-protestanti) e la persecuzione dei moriscos (insorti nel 1569 e
deportati nel 1571). Con lo stesso impegno sostiene nelle colonie i missionari
che tentano di estirpare i culti indigeni.
In questo periodo inizia a
paventare congiure familiari contro il legittimo erede.
In precedenza ha
già provveduto al primogenito Carlos. Questi era affetto da gravi turbe
psichiche, che peggioravano ad ogni assenza del padre. Nel 1560 si ammala
gravemente, forse di malaria. Poi perde la vista per una caduta dalle scale e la
recupera grazie a un'operazione cranica, che, però, ne aggrava i problemi
mentali. Filippo si allontana allora dal figlio, disperando di farne un re:
Carlos reagisce abbandonandosi a terribili scoppi d'ira. Infine si prepara a
fuggire, forse alla volta dei Paesi Bassi (1567), ma il padre lo fa rinchiudere.
Il principe intraprende lo sciopero della fame e i suoi carcerieri lo lasciano
morire d'inedia.
Dopo la dipartita di Carlos, Filippo si preoccupa
soprattutto del fratellastro Giovanni d'Austria. A tal scopo ricorre ad Antonio
Perez, che utilizza Juan de Escobedo, segretario di don Giovanni, per impedire
qualsiasi tentativo di usurpare il potere. Senonché Escobedo inizia a
ricattare Perez, minacciando di rivelare tutto, e nel 1578 il re ordina di
pugnalarlo, dando il via a una penosa querelle. Perez è accusato
di essere il mandante dell'omicidio, ma il sovrano lo fa condannare solo a una
pena pecuniaria. Nuove rivelazioni compromettono, però, la posizione di
Perez, che nel 1590 è condannato a morte. Riesce, però, a fuggire
nella natia Aragona e accusa Filippo di aver ordito nell'ombra l'assassinio di
Escobedo. Il tentativo di farlo tacere con la forza provoca la sollevazione
dell'Aragona: deve intervenire l'esercito, che doma la rivolta nell'ottobre del
1591. Perez passa in Francia, dove muore in miseria nel 1611: ha, però,
nel frattempo pubblicato più versioni delle Relaciones sulle male
azioni del re.
Tali avvenimenti non contribuiscono al buon nome del sovrano,
tanto più che la crescita del debito pubblico e l'aumento delle imposte
si accompagnano a una nuova crisi agricola e al progressivo impoverirsi del
paese. Il malcontento popolare genera sommosse e persino nella capitale
scoppiano tumulti. La situazione non è migliore sul fronte
internazionale. Filippo non è infatti riuscito a piegare inglesi,
olandesi e turchi. Inoltre la sua vita si chiude sulla pace di Vervins, che
riconosce nuovamente alla Francia lo status di grande potenza.
Gli
stessi spagnoli criticano il re appena morto. Inoltre le Relaciones di
Perez diffondono in tutta Europa il ritratto di un sovrano meschino e crudele.
Questo stereotipo è oculatamente sviluppato dagli scrittori francesi e
inglesi del secolo successivo, magari aggiungendovi qualche accusa tratta
dall'Apologia (1581) di Guglielmo d'Orange. Nel tardo Settecento due
tragedie, Filippo di Vittorio Alfieri (1783) e Don Carlos di
Friedrich Schiller (1787), confermano l'immagine negativa del personaggio. Nel
secolo successivo è quindi facile siglare la sua definitiva condanna. Per
gli storici anglo-protestanti diviene dunque il despota per antonomasia e questo
giudizio influenza la cultura novecentesca. E' infatti ripreso dagli storici e
reiterato dai romanzieri, che, a loro volta, servono di base a film di successo
che esaltano i corsari inglesi di Elisabetta, come difensori della
libertà.
Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, Fernand Braudel e
Geoffrey Parker sottolineano le difficoltà di governare un impero di
quelle dimensioni e cercano di cancellare i tratti più grotteschi del
tradizionale ritratto di Filippo II. Più recentemente una parte della
storiografia spagnola, ispirata dal revanscismo del nuovo governo di destra, ha
tentato di rivalutarlo per aspetti, quali la centralizzazione e il cattolicesimo
integralista, che erano stati condannati dagli storici liberali. Ne è
seguita la riproposizione dell'antico stereotipo, sia pure a potenzialità
rovesciata. Per molti versi Filippo II resta quindi un personaggio storico
ancora da scoprire.
Nella prima metà del Cinquecento i Paesi Bassi sono una parte
dell'eredità borgognona che Carlo V ingrandisce e unifica. Essi
comprendono 17 province, il cui territorio complessivo corrisponde agli odierni
Belgio, Olanda, Lussemburgo più alcune regioni della Francia
Settentrionale: Fiandre francesi, Hainaut e Artois. Queste ultime costituiscono
tre province distinte cui si aggiungono altre regioni di analoga grandezza
(Brabante, Limburgo, Lussemburgo, Zelanda, Olanda, Gheldria, Overijssel, Frisia)
e i territori di alcune città (Anversa, Groninga, Malines, Namur,
Utrecht, Zutpen).
L'intero territorio è retto da un organismo
federativo, gli Stati Generali, che ha sede a Bruxelles, dove alloggia anche il
governatore generale nominato da Carlo V. Le decisioni degli Stati Generali
devono, però, essere ratificate dai singoli Stati provinciali, composti
dai deputati della nobiltà, del clero e delle città locali.
Inoltre le singole province sono a loro volta rette da un governatore
(stathouder) con autonomi poteri.
Sotto Carlo V i Paesi Bassi godono
di una notevole autonomia e di un forte prestigio: essi hanno infatti assistito
il suo acquisto del trono imperiale e i grandi esponenti della loro
nobiltà sono tra i consiglieri dell'imperatore. Quest'ultimo d'altronde
è, per cultura e affetti familiari, un borgognone e quindi più
vicino ai Paesi Bassi che alla Spagna. Tali legami sono evidenti nella stessa
scelta del governatore generale: a Bruxelles delega infatti la zia Margherita di
Asburgo, anche lei allevata nel ricordo della grandezza borgognona.
Come
abbiamo visto, Filippo II è invece educato in Spagna e non considera i
Paesi Bassi come il centro della propria eredità. Li ritiene piuttosto un
ricco dominio periferico, da sfruttare come meglio gli aggrada. Dopo la sua
ascesa al trono spagnolo, gli aristocratici dei Paesi Bassi non contano
più niente a corte, mentre nelle loro province aumenta la pressione
fiscale spagnola.
Dopo il trattato di Cateau-Cambrésis (1559), i Paesi
Bassi divengono per gli spagnoli una marca di frontiera da presidiare senza
tanti riguardi verso la popolazione locale. Questa soffre quindi doppiamente le
vessazioni di una guarnigione insolente e irrispettosa degli antichi privilegi
della grande nobiltà locale. La tensione sale quando il nuovo governatore
generale, Margherita di Parma, sorellastra di Filippo II, chiama sì
alcuni nobili a far parte della sua giunta, ma di fatto segue soltanto i
consigli di una ristretta cerchia designata dal re spagnolo.
La
nobiltà e il patriziato urbano sono allora progressivamente emarginati
dai centri di potere e paventano la crescente intolleranza religiosa. Da decenni
infatti nei Paesi Bassi settentrionali si è diffuso il calvinismo, ma
l'autonomia locale ha impedito l'applicazione rigida delle leggi contro
l'eresia. Filippo e Margherita di Parma non rispettano invece la moderazione
tradizionale e il loro attacco stimola la resistenza dei riformati e minaccia di
far esplodere una situazione sino allora abbastanza tranquilla.
Le prime
proteste sono eminentemente politiche. I grandi signori - tutti cattolici, come
il conte di Egmont, il conte di Hoorn e Guglielmo di Nassau, principe d'Orange -
si scontrano con il principale consigliere di Margherita di Parma, Antoine de
Granvelle, cardinale-vescovo di Malines, e ne ottengono nel 1564
l'allontanamento. A questo punto essi si aspettano l'ammorbidimento della
legislazione anti-protestante e maggior rispetto dei propri privilegi, ma nel
1565 Filippo II ordina d’intensificare la repressione e fa capire che non
è disposto a dar loro retta.
Tra il 1565 e il 1566 alcuni esponenti
del fronte nobiliare cercano di incontrare il re, ma ogni confronto viene
evitato dal re di Spagna e dai suoi rappresentanti. I nobili dei Paesi Bassi
sono anzi ingannati e irrisi: il 3 aprile Carlo di Berlaymont, consigliere della
governatrice, li definisce pubblicamente "pezzenti" (gueux). Il mancato
accordo con le autorità regie spinge i nobili cattolici a trattare con la
borghesia calvinista del Nord. Due giorni dopo l'insulto, il 5 aprile 1566
è firmato il compromesso di Breda, cui segue, il 14 luglio dello stesso
anno, l'alleanza di Saint-Trond, vero e proprio accordo antispagnolo tra
cattolici e calvinisti. Il conte di Egmont cerca ancora una volta di raggiungere
il re, ma il suo tentativo di mediazione cade nel vuoto. La protesta è
ora pronta ad esplodere e i suoi esponenti si autodefiniscono "pezzenti", a
simboleggiare il loro reciso rifiuto di ogni compromesso.
In realtà
l'alleanza tra cattolici e calvinisti non funziona al meglio. Nell'agosto 1566 i
calvinisti scatenano un violento moto che non minaccia tanto gli spagnoli,
quanto i cattolici. Nell'arco di qualche mese la violenza spontanea si coagula
in una parvenza di sollevazione armata, che Filippo II decide di reprimere
duramente. Nel 1567 giunge quindi nei Paesi Bassi Fernando Alvarez di Toledo,
duca d'Alba, uno dei migliori generali spagnoli.
Guglielmo di Orange, nel
frattempo avvicinatosi ai riformati, abbandona i Paesi Bassi e si rifugia in
Germania, dove cerca di formare un vero esercito. La grande aristocrazia
cattolica spera ancora di trattare con i rappresentanti della Spagna, ma
l'armata del duca d'Alba è un esercito invasore che non vuole dar
quartiere ad alcuno. Il suo generale teorizza infatti la terra bruciata come
metodo per spengere qualsiasi spinta antispagnola e anticattolica.
Il duca
non ha soltanto l'autorità di un governatore generale, ma anche il titolo
di vicerè e pieni poteri per estirpare l'eresia. Non rispetta quindi
l'autonomia dei governi provinciali, che anzi guarda con sospetto per aver
protetto quello che egli ritiene un pericoloso moto ereticale. Non tratta
perciò con la nobiltà locale e crea un tribunale speciale,
definito dagli olandesi Bloedraad (consiglio sanguinario), che condanna a
morte quasi 8.000 persone. Tra questi vi sono anche i conti d'Egmont e di Hoorn,
accusati di essere i principali responsabili della sommossa e decapitati sulla
Piazza Grande di Bruxelles il 5 giugno 1568.
La stessa Margherita di Parma
teme che si sia andati troppo oltre, alienandosi completamente i Paesi Bassi. Il
duca d'Alba tiene duro e respinge con facilità un nuovo sollevamento,
provocato dal rientro dell'Orange. Alla fine del decennio i Paesi Bassi sembrano
quindi in mano alla Spagna e nel 1570 Filippo II concede ai ribelli il perdono
solenne, in cambio di nuovi gettiti fiscali. In realtà la rivolta cova
ancora. I seguaci di Guglielmo d'Orange hanno le loro roccaforti sulle coste
della Zelanda e da qui muovono all'arrembaggio dei galeoni spagnoli di ritorno
dalle Americhe. Inoltre la Spagna è nel mirino di varie potenze
straniere, che, non potendola attaccare direttamente, appoggiano
finanziariamente i ribelli.
Nel 1572 questi ultimi occupano il porto di La
Brielle, alla foce della Mosa; poco dopo, appoggiati da corsari francesi e
inglesi, bloccano anche la foce dell'Escaut. Nel frattempo l'ammiraglio di
Coligny, capo carismatico degli ugonotti francesi, cerca di convincere il suo re
ad inviare un'armata al fianco dei "pezzenti". Sperando in questo aiuto,
Guglielmo d'Orange si impadronisce di Mons e Valenciennes. Gli spagnoli hanno
buon gioco a respingere questi attacchi, ma al nord le province dell'Olanda e
della Zelanda proclamano l'Orange loro stathouder e si scrollano di dosso
il gioco spagnolo.
Come sappiamo, la notte di s. Bartolomeo decima la
leadership degli ugonotti francesi e provoca la morte di Coligny. Per gli
spagnoli scompare quindi il pericolo di un attacco alle spalle e il duca d'Alba
può avviare la riconquista delle province settentrionali (1572-1573).
L'armata spagnola si distingue ancora una volta per la sua ferocia: Malines,
Zupten, Naarden e Haarlem sono espugnate e i loro abitanti sono fatti
letteralmente a pezzi.
Tuttavia gli spagnoli non riescono a piegare le
province ribelli: non possono infatti impiegare nella regione grandi forze,
essendo allo stesso tempo impegnati contro i turchi. Inoltre Filippo ha bisogno
di denaro per tener fede a tutti i suoi impegni: pensa quindi di diminuire la
pressione militare in cambio dell'aumento di quella fiscale. Il duca d'Alba
viene quindi sostituito dal più morbido marchese di Requesens.
Senonché nel 1576 il nuovo governatore generale muore senza aver
pacificato la regione. Viene sostituito da don Giovanni d'Austria, il
fratellastro del re, che lascia, però, ai rivoltosi il tempo di
riorganizzarsi. L'8 novembre 1576 le province cattoliche e quelle calviniste
formano l'Unione di Gand, che prevede l'indipendenza nazionale e la
libertà religiosa.
Resosi conto del pericolo, don Giovanni offre nel
1577 la partenza delle truppe spagnole in cambio del ritorno del paese al
cattolicesimo e all'obbedienza verso il re, ma Guglielmo d'Orange rifiuta e
guida i confederati alla lotta aperta. A Bruxelles il potere passa nelle mani di
un comitato rivoluzionario e il principe d'Orange è nominato luogotenente
generale dei Paesi Bassi. Tuttavia ancora una volta il fronte antispagnolo non
è realmente omogeneo. I calvinisti del Nord tentano infatti di sfruttare
la situazione per sradicare il cattolicesimo dalle Fiandre. Giovanni d'Austria
approfitta di queste divisioni e blocca Anversa, mentre si avvicina da sud
un'armata spagnola condotta da Alessandro Farnese. Un attacco di tifo porta via
il fratellastro di Filippo II, il 1 ottobre 1578, proprio mentre progettava di
riacquisire il parziale controllo dei Paesi Bassi, varcare la Manica, liberare
Maria Stuart e conquistare l'Inghilterra, togliendo così ogni
rifornimento ai calvinisti olandesi.
Comunque i cattolici, che si vedono tra
l'incudine calvinista e il martello spagnolo, decidono di organizzarsi
autonomamente e di trattare con la Spagna. Le province a maggioranza cattolica
(Artois, Fiandra, Hainaut e Wallonie) formano nel 1578 l'Unione di Arras, che si
propone di arrivare alla libertà religiosa auspicata dalla Pace di Gand e
di raggiungere un compromesso con Filippo II. In risposta il 6 gennaio 1579 i
calvinisti formano l'Unione di Utrecht, che raggruppa Olanda, Zelanda, Frisia,
Groningue, Utrecht, Gheldria e Overijssel. L'Unione rifiuta ogni accordo con la
Spagna e proclama la Repubblica delle Province Unite.
La contrapposizione
tra i due schieramenti passa attraverso un ultimo tentativo di mediazione
internazionale. Già nel 1578 le province vallone hanno chiesto a
Francesco, duca d'Angiò e fratello di Enrico III di Francia, di prendere
il comando degli Stati Generali ribelli. Nonostante l'opposizione di Guglielmo
d'Orange, il francese è pronto ad accettare, ma la situazione
internazionale lo obbliga infine a rinunciare. Nel 1580 Angiò diviene
comunque signore delle Province Unite, su suggerimento proprio del principe di
Orange, ma non sfrutta questa posizione per accerchiare gli spagnoli, anzi varca
la Manica per corteggiare la regina Elisabetta. Nel frattempo Alessandro Farnese
guadagna definitivamente la fiducia le province cattoliche e si va alla
divisione del paese. Il 2 luglio 1581 l'Atto dell'Aia proclama l'indipendenza
delle Province Unite, rette dallo stathouder generale, Guglielmo
d'Orange, fermo restando il rispetto dell'autonomia delle singole province. Le
province meridionali, quelle dell'Unione di Arras, formano invece i Paesi Bassi
spagnoli.
Nel 1582 il duca d'Angiò rientra, ma la sua avventura volge
rapidamente al termine, coinvolgendo tra l'altro la Francia in una fallita
invasione dei Paesi Bassi (1583), e quindi muore nel 1584. Nello stesso anno
viene assassinato Guglielmo d'Orange e la situazione volge a vantaggio della
Spagna. La regina d'Inghilterra propone allora la candidatura del conte di
Leicester a guida delle Province Unite. Il tentativo non riesce e nel frattempo
Alessandro Farnese porta avanti la riconquista dei territori ribelli: nel
1584-1585 assedia e cattura Anversa; nei due anni successivi riprende possesso
di quasi tutta l'area centrale degli antichi Paesi Bassi.
Nel 1587 i domini
spagnoli comprendono non soltanto le province dell'Unione di Arras, ma anche
Bruxelles, Namur, il Brabante, la regione di Anversa. Farnese potrebbe
addirittura schiacciare le province settentrionali, se il suo re non lo
implicasse in una serie di sfortunate imprese internazionali contro
l'Inghilterra e contro la Francia. Intanto i maggiori funzionari spagnoli nei
Paesi Bassi si scontrano fra loro per la preminenza, Bruxelles è in preda
all'anarchia e in molte guarnigioni i soldati si ammutinano, chiedendo le paghe
arretrate.
Questi avvenimenti facilitano la riorganizzazione delle Province
Unite. Queste sono rette dal pensionario generale Johann van Oldenbarnvelt e
dallo stathouder Maurizio di Nassau, figlio di Guglielmo d'Orange.
Maurizio è un eccellente uomo d'arme e con l'aiuto del cugino
Guglielmo-Luigi, stathouder di Frisia e Groningue, ristruttura le armate
ribelli. Le sue forze conseguono quindi importanti vittorie sulla Mosa e sul
Reno e, nel 1591-1594 e nel 1597 riconquistano tutto il nord-est.
Ormai
comunque la guerra nei Paesi Bassi è inestricabilmente legata allo
scacchiere internazionale. Francia e Inghilterra sono impegnate a schiacciare la
tracotanza spagnola e a sostenere le Province Unite. Filippo II accetta infine
il fatto compiuto e nel 1598, poco prima di morire, ratifica implicitamente
l'indipendenza delle province settentrionali, donando i Paesi Bassi spagnoli
alla figlia Isabella e al genero Alberto, arciduca d'Austria, con la clausola di
un ritorno alla Spagna se la coppia morisse senza eredi diretti.
La sconfitta dell'Invincibile Armata è quasi sempre raccontata in
termini drammatici. La disfatta spagnola nell'estate del 1588 ha avuto infatti
grande importanza nella storia dell'Occidente: ha assicurato all'Inghilterra la
definitiva supremazia sui mari; ha rivelato la debolezza spagnola; ha rafforzato
la determinazione olandese a liberarsi dal giogo ispanico; infine ha convinto
Enrico III di Francia che non era necessario sottomettersi ai Guisa, alleati di
Filippo II. Tuttavia l'avvenimento non ha avuto in sé nulla di grandioso:
il tentativo spagnolo è in realtà fallito per l'insipienza della
sua preparazione piuttosto che per l'abilità dei marinai inglesi o per le
tempeste nell'Atlantico.
Probabilmente la flotta inglese, che non era per
numero di navi inferiore a quella spagnola, avrebbe comunque vinto, ma gli
ammiragli di Elisabetta non hanno avuto modo di mostrare la loro maestria. I
loro avversari erano infatti condannati alla sconfitta dall'assenza di un piano
strategico, da navi mal ristrutturate e dalla mancanza di viveri. Nessun
contemporaneo e pochi storici successivi hanno, però, amato concentrarsi
su questi aspetti poco eroici. Si è quindi preferito attribuire la
sconfitta spagnola all'abilità degli inglesi - ritenuti tradizionalmente
inferiori per numero - e allo scatenarsi degli elementi: in particolare i venti
contrari e il mal tempo normale nel nord dell'Atlantico alla fine dell'estate
sono stati visti come un giudizio divino, sfavorevole al tetro e dispotico
monarca spagnolo. D'altra parte non era forse possibile giustificare altrimenti
un insuccesso così clamoroso, per giunta dopo una preparazione durata
alcuni anni.
Le difficili relazioni tra Filippo II, re di Spagna, e i Tudor
rimontano infatti al sesto decennio del secolo. Come già menzionato, il
27 luglio 1554 il ventiseienne arciduca Filippo sposa Maria Tudor, trentottenne
regina d'Inghilterra. Il matrimonio è combinato dal padre dello sposo,
l'imperatore Carlo V, che vuole accerchiare la Francia, già minacciata a
ovest (Spagna), sud (Italia) ed est (impero germanico e Paesi Bassi).
Il
futuro sovrano spagnolo si reca allora in Inghilterra e tenta invano di mettere
incinta la moglie. Nel frattempo la guerra mossa alla Francia porta alla
sconfitta inglese e alla perdita di Calais, appena quattro mesi dopo il
matrimonio. Filippo si trattiene ancora per qualche tempo in Inghilterra e poi
raggiunge il padre nei Paesi Bassi. Quando Carlo V abdica, l'arciduca diviene re
di Spagna, dove infine rientra, e non vede più la moglie. Tuttavia non
rinuncia ai piani paterni e, alla morte di Maria (1558), vorrebbe sposare
Elisabetta Tudor. Quest'ultima elude le proposte matrimoniali dell'ex-cognato e
riporta il proprio paese alla religione anglicana nell'inverno 1558-1559.
Filippo continua tuttavia a chiedere alla regina inglese di convertirsi al
cattolicesimo e di rinnovare l'alleanza con la Spagna. In un secondo tempo le
propone persino di divenire la moglie del figlio dell'imperatore Ferdinando.
Intanto, assieme ai cugini d'Austria, protegge l'Inghilterra dalle folgori di
Roma. Elisabetta approfitta di queste buone disposizioni per aiutare gli
ugonotti francesi contro il loro re e i ribelli dei Paesi Bassi contro quello di
Spagna. Inoltre le sue navi non si fanno scrupolo di contrabbandare e depredare
nelle acque dell'America spagnola.
La Spagna tenta allora timide ritorsioni,
ma è evidente la sua inferiorità navale. Filippo cerca quindi
nuovi mezzi per addomesticare Elisabetta e pensa a un matrimonio tra il suo
primogenito, il folle e deforme don Carlos, e Maria Stuart, regina di Scozia e
legittima erede al trono inglese agli occhi di tutti i cattolici. La regina
scozzese è, però, imprigionata nel 1567 dai suoi stessi nobili e
abdica a favore del figlio Giacomo. Nel 1568 riesce a fuggire, ma si mette sotto
la protezione di Elisabetta e quindi fuori dalla portata spagnola.
A questo
punto i rapporti tra la potenza iberica e quella inglese sono sempre più
tesi, mentre gli strali cattolici si appuntano contro la regina, anche se con
risultati poco eclatanti. Nel 1569 scoppia in Inghilterra una rivolta di nobili
cattolici e Pio V interviene a favore dei ribelli scomunicando Elisabetta il 25
febbraio 1570. La rivolta è invece sconfitta e la scomunica pone in una
difficile situazione i cattolici, divisi tra la fedeltà a Roma e quella
al loro paese. Nel decennio successivo persino i cattolici esiliati tentano di
appianare questo contrasto e cercano un accordo con la loro regina. Nel
frattempo Filippo II prima spera di poter in qualche modo sottomettere
l'Inghilterra e poi, nel 1574, propende per un riavvicinamento. Ancora una
volta, però, le sue manovre non hanno esito: Elisabetta prosegue ad
appoggiare gli ugonotti francesi e i ribelli olandesi con l'argento depredato
agli spagnoli.
Nel 1578 don Giovanni, il vincitore di Lepanto, fratellastro
di Filippo II e governatore dei Paesi Bassi spagnoli, progetta, come già
ricordato, di varcare la Manica, liberare Maria Stuart e conquistare
l'Inghilterra. Don Giovanni muore poco dopo, ma il suo piano resta impresso
nella mente degli strateghi spagnoli. Tuttavia essi ritengono che non basti
attaccare dai Paesi Bassi, ma che questa mossa debba essere appoggiata da una
flotta salpata dalle coste spagnole. Dopo la conquista del Portogallo nel 1581,
Alvaro Bazán, marchese di Santa Cruz, suggerisce al re che Lisbona offre
il porto necessario per organizzare la spedizione contro l'Inghilterra.
Per
il momento Filippo non è intenzionato a organizzare realmente una
spedizione. Paventa infatti che la deposizione di Elisabetta porti sul trono
Giacomo Stuart, re di Scozia, sospettato di simpatie per la Francia. Per evitare
tale pericolo fa quindi costruire dai suoi esperti un albero genealogico che gli
permetta di rivendicare la corona d'Inghilterra: i genealogisti di corte non lo
deludono e dimostrano che, da parte materna, egli discende da due nipoti di
Edoardo III (1312-1377). A questo punto riprende in considerazione il piano
propostogli dal marchese di Santa Cruz, ma non riesce a decidersi.
Nel
frattempo i suoi ambasciatori a Londra appoggiano vari tentativi di assassinare
Elisabetta ed entrano in contatto con Maria Stuart. Quest'ultima fa loro
pervenire il 20 maggio 1586 una rinuncia ai propri diritti sul trono inglese in
favore del sovrano spagnolo. Ora Filippo II medita seriamente d'invadere
l'Inghilterra, ma il marchese di Santa Cruz gli propone un piano che richiede
150 navi da guerra e 360 ausiliarie, 90.000 uomini e 2.200 pezzi di artiglieria.
Il costo totale si aggira sui 4 milioni di ducati, una cifra troppo elevata per
le casse spagnole. Il re ripiega quindi sul vecchio progetto di don Giovanni
d'Austria e propone ad Alessandro Farnese, duca di Parma e governatore dei Paesi
Bassi spagnoli, di organizzare l'invasione. Farnese non è molto convinto
e la discussione sui dettagli organizzativi va per le lunghe. Senonché il
18 febbraio 1587 Maria Stuart è decapitata e nello stesso anno Francis
Drake affonda la flotta spagnola ancorata nel porto di Cadice. Filippo si sente
apertamente sfidato e ordina quindi ai suoi sottoposti di accelerare i
preparativi. Inoltre decide che l'attacco deve essere portato congiuntamente dal
marchese di Santa Cruz, sia pure con una flotta ridotta, e dal duca di
Parma.
Quest'ultimo è più che mai certo che non si possa
invadere l'Inghilterra, ma non dichiara la sua opposizione ai piani del re,
poiché quest'ultimo appare sicuro della buona riuscita del duplice
sbarco. Bernardino de Mendoza, ambasciatore spagnolo a Parigi, gli ha infatti
inviato i rapporti di fuoriusciti inglesi, che, per guadagnarsi la paga
d'informatori, esaltano l'esasperazione del popolo inglese, stanco della
dispotica regina. Filippo II è quindi convinto che basti la semplice
apparizione della flotta spagnola per scatenare la rivolta e non si preoccupa
della possibilità che l'Inghilterra possa difendersi.
Tutta la
preparazione dell'attacco è inficiata da questa convinzione e dalla
contemporanea, sotterranea resistenza del Farnese. Inoltre il re non conosce i
problemi della guerra sul mare e pretende di preparare tutto a tavolino. Nei
suoi ordini non è chiaro come l'armata dei Paesi Bassi possa varcare la
Manica, né si capisce cosa dovrebbe fare la flotta una volta in vista
dell'Inghilterra. In ogni caso egli vuole che le sue navi salpino da Lisbona il
prima possibile e ordina addirittura di partire in pieno inverno. Il marchese di
Santa Cruz si oppone tenacemente a questa eventualità e rimanda di
settimana in settimana la partenza. Contemporaneamente il duca di Parma cerca di
far intendere che la spedizione dai Paesi Bassi non può avere buon esito
senza un adeguato numero di vascelli per trasportare i soldati. Ma il re non si
dà per vinto e si dice certissimo dell'appoggio divino.
Il 30 gennaio
1588 il marchese di Santa Cruz muore e al suo posto è chiamato don Alonso
Perez de Guzmán, duca di Medina Sidonia. Questi cerca di rifiutare
l'incarico, ma è l'unico ad avere quarti di nobiltà tali da poter
sostituire il marchese di Sanza Cruz senza sollevare obiezioni. Inoltre gli
è stata affidata negli anni precedenti la difesa del commercio delle
Indie e quindi ha già avuto a che fare con alcuni dei più famosi
capitani inglesi. Per tutti e per il re per primo egli è l'uomo giusto al
momento giusto.
La flotta spagnola salpa infine da Lisbona l'11 maggio 1588.
E' composta da 130 navi: 65 galeoni e grandi navi da guerra, 25 olche (navi da
carico baltiche), 32 battelli più piccoli (per lo più pinasse da
usare per le comunicazioni), 4 galeazze napoletane (bastimenti a vela e a remi)
e 4 piccole galee portoghesi (anch'esse a remi). E' numericamente imponente e
apparentemente invincibile, ma non priva di difetti. La Spagna non ha rinunciato
a difendere le sue postazioni navali nell'America, nel Mediterraneo e nel
Pacifico. Molte navi da guerra, tra le quali l'ammiraglia stessa, sono state di
conseguenza requisite ai portoghesi e non sono adeguatamente riattrezzate. Altri
legni erano originariamente destinati a compiti non militari: soltanto 21
galeoni e 4 galeazze sono effettivamente navi da guerra, il resto sono
bastimenti per il trasporto di granaglie nel Mediterraneo o nel Baltico,
ristrutturati con l'aggiunta di castelli da combattimento a prua e a poppa e
armati. Questi navigli sono molto lenti e soprattutto non sono capaci di
manovrare in spazi ristretti.
In ogni caso l'Armata è effettivamente
la flotta più grande sino allora messa in mare dalla Spagna e porta sui
suoi ponti un esercito di oltre 30.000 uomini: 146 gentiluomini e 238 ufficiali,
accompagnati complessivamente da 728 domestici; 8.052 marinai; 18.973 soldati;
2.088 rematori per le galee e le galeazze; 167 cannonieri; 180 religiosi; una
dozzina di medici e chirurghi e 62 infermieri. L'Armata trasporta inoltre 2.431
pezzi d'artiglieria e 123.000 palle di ferro, nonché viveri per sei mesi
di navigazione: 11.000 barili di acqua dolce e 14.000 di vino; 11 milioni di
libbre di gallette, 600.000 di carne di porco sotto sale, 800.000 di formaggio e
altrettante di riso. A questo carico bisogna aggiungere altre vettovaglie (olio,
aceto, fagioli, ceci) e il necessario per invadere l'Inghilterra: armi, scarpe,
fiasche per la polvere da sparo, affusti di cannone per le battaglie campali e
persino 40 muli e numerosi cavalli. Tutte le navi sono quindi
sovraccaricate.
La partenza è impeccabile, ma l'ammiraglia non ha
ancora raggiunto il mare aperto, che il vento gira e la marea blocca la flotta,
che resta ferma per altri quindici giorni. Durante questa sosta forzata il duca
di Medina Sidonia e i suoi collaboratori leggono le istruzioni ricevute alla
partenza. Secondo il re essi dovrebbero far rotta sulla Cornovaglia, imboccare
la Manica senza accettare battaglia e ricongiungersi con le forze del duca di
Parma, una volta raggiunto il porto di Margate. I capitani spagnoli palesano al
loro comandante alcune perplessità. In primo luogo non sono sicuri di
poter calare le ancore a Margate, inoltre si chiedono come il Farnese possa
varcare il canale. Il duca di Medina Sidonia incarica allora l'ammiraglio Luis
Martínez de Recalde di scrivere al re, chiedendo maggiori chiarimenti e
criticando sottilmente il piano iniziale. L'ammiraglio suggerisce con tatto che
la flotta dovrebbe prendere terra nella zona dei Downs, oltre Margate, e di
lì proteggere la traversata degli uomini del duca di Parma. Questi,
però, dovrebbe procurarsi da solo le imbarcazioni necessarie.
Il 30
maggio la flotta esce in mare aperto senza che sia giunta una risposta dal re.
La rotta è verso capo Finisterre, ma i venti contrari allontanano
l'Armata dalla meta. La navigazione è estremamente penosa, perché
i castelli da combattimento, apposti alle navi mercantili, impacciano le virate
e rendono impossibile navigare contro vento. Nel frattempo il duca di Medina
Sidonia scrive al Farnese di non potergli venire incontro a Dunkerque, dove egli
ipotizza che il generale possa portare le sue truppe, né di potergli
fornire fanti di appoggio: l'Armata ha infatti bisogno di tutti gli uomini
imbarcati. Il duca di Parma, che conta su 16.000 uomini e non ha battelli per la
traversata della Manica, scrive indignato al re, ma questi non trasmette la
lettera a Medina Sidonia, che perciò si convince che l'armata dei Paesi
Bassi sia numerosa e soprattutto dotata di proprie navi.
Come se non
bastasse, quando la flotta giunge in vista di Finisterre il 14 giugno, i
capitani scoprono che le provviste imbarcate si stanno già deteriorando e
che i barili d'acqua perdono: i fornitori portoghesi hanno bellamente truffato
gli uomini del re o si sono accordati con loro per vendere derrate avariate e
barili scassati. Il duca di Medina Sidonia chiede alle autorità di terra
viveri e acqua, ma non riceve risposta. Per quattro giorni incrocia al largo di
Finisterre, poi decide di entrare con 40 navi nella baia di La Coruña,
dove spera di trovare rifornimenti. Gli altri legni restano al largo e la notte
tra il 19 e il 20 sono dispersi da un'improvvisa burrasca. La situazione
è ormai grottesca e il 24 Medina Sidonia scrive al re chiedendo di
sospendere l'operazione. Dopo 10 giorni arriva in risposta l'ordine di salpare
entro il 10 luglio, a meno che non manchino troppe navi. L'Armata riesce a
ricomporsi, ma il 10 la partenza è rimandata sino al 12, perché
troppi vascelli sono ancora danneggiati.
Nel frattempo la flotta inglese si
è pericolosamente avvicinata. Essa non è inferiore per numero e
per grandezza delle navi a quella spagnola. Conta infatti 140 vascelli: 35
grandi legni e pinasse della regina, altrettanti di armatori privati dediti alla
pirateria e 70 mercantili armati in fretta. Alcune navi inglesi sono molto
vecchie, più vecchie mediamente di quelle spagnole: sono, però,
state riattrezzate con attenzione e non imbarcano acqua, né hanno
problemi di navigazione. Inoltre almeno dieci vascelli sono di qualità
decisamente superiore: appartengono infatti alla classe di navi da guerra
race-built, costruite cioè per ingaggiare veloci confronti sul
mare e non appesantite dai castelli da combattimento. Infine la flotta inglese
è superiore per numero e qualità dei cannoni: questi sono per di
più facili da ricaricare, grazie all'affusto montato su ruote, mentre le
navi spagnole hanno difficoltà a bissare la prima bordata.
Gli inglesi
potrebbero risolvere lo scontro attaccando al largo di La Coruña, ma non
si muovono con sufficiente rapidità: non sono abituati a una flotta di
tale entità e inoltre gli ordini della regina sono vaghi. Per decidere la
strategia migliore Charles Howard, Lord di Effingham e Grande Ammiraglio,
consulta Francis Drake, John Hawkins, Martin Frobisher e Thomas Fenner. Drake,
che nel 1587 ha attaccato Cadice, convince gli altri ad andare incontro
all'Armata e a bloccarla in mare aperto, ma il 20 luglio il vento gira in favore
degli spagnoli e obbliga gli inglesi a rientrare alla base. Due giorni dopo gli
spagnoli salpano alla volta della Cornovaglia, ma il 26 il vento cade di nuovo e
il 27 si scatena una piccola tempesta, che affonda quattro galee e un galeone.
Il 29 luglio le vedette spagnole avvistano finalmente la costa inglese e il
giorno successivo le due flotte si incontrano al largo di capo Eddystone. Gli
inglesi manovrano in modo di tenersi sopravvento, ma gli spagnoli si schierano
in maniera che gli avversari non possano incunearsi tra le loro fila. Ne
consegue un guardingo fronteggiarsi, interrotto da qualche salve di artiglieria.
Dopo la scaramuccia il duca di Medina decide di avanzare nella Manica e Lord
Howard di tallonarlo per impedirgli di sbarcare. Le due flotte procedono quindi
di conserva, mentre l'ammiraglio spagnolo invia una pinassa a contattare il
Farnese. Il duca di Parma, però, non risponde e il duca di Medina avanza
alla cieca, non sapendo dove possa avvenire il ricongiungimento delle forze
spagnole e perdendo altre navi per incidenti di navigazione. Il 2 agosto viene
nuovamente impegnata battaglia: lo scontro è senza esito, ma rivela che
gli spagnoli non sono in grado di abbordare gli inglesi. Questi ultimi scoprono
invece di poter danneggiare gli avversari, adottando la formazione in linea di
fila nota fin dal secolo precedente, ma sino ad allora poco sfruttata, che
permette di impegnare tutti i pezzi di una fiancata.
Il 3 agosto è
giorno di tregua. Medina aspetta invano una risposta dal Farnese. Gli inglesi
invece si riforniscono di palle di cannone e di polvere da sparo. Il 4 dividono
la flotta in quattro squadre, affidate a Howard, Drake, Frobisher e Hawkins, e
tentano di accerchiare il nemico. Gli spagnoli decidono allora di sbarcare
sull'isola di Wight, ma la marea ancora debole e i venti contrari impediscono la
manovra, mentre gli inglesi iniziano ad attaccare. L'Armata riprende la
navigazione lungo la Manica e gli inglesi ritornano a distanza di sicurezza,
ormai sicuri di avere in pugno la situazione e di dover soltanto aspettare il
momento propizio per distruggere l'avversario senza subire perdite.
Il duca
di Medina prosegue a mandare messaggi al Farnese, chiedendogli di intervenire,
ma il duca di Parma invia a Filippo II tutte le lettere scrittegli
dall'ammiraglio, specificando di non poter soccorrerlo e di non poter uscire in
mare, se non sono allontanate la flotta inglese e quella olandese. Infine Medina
Sidonia decide di attraccare a Dunkerque, ma i piloti gli rivelano che i bassi
fondali, le dimensioni minime dell'unico canale navigabile e le postazioni
olandesi impediscono l'entrata dell'Armata. Quest'ultima cala dunque le ancore
24 miglia al largo di Dunkerque, mentre gli inglesi si fermano fuori tiro. Le
navi spagnole sono disposte in fila orizzontale in piena corrente e così,
la notte del 7 agosto, gli inglesi affidano a quest'ultima otto navi
incendiarie, che non mietono vittime, ma obbligano gli spagnoli a salpare e ad
impegnare battaglia, la mattina successiva, sottovento e con le spalle alla
costa. Ancora una volta lo scontro è brevissimo, tuttavia gli spagnoli
perdono tre navi e seicento uomini, più un numero imprecisato di feriti e
ingenti danni a molte navi.
L'Armata riesce comunque a sganciarsi, ma a causa
dei venti deve intraprendere il periplo delle isole britaniche per poter
rientrare in Spagna. Inoltre gli spagnoli temono di essere spinti sulle coste
irlandesi a loro ignote: decidono quindi di doppiare le Shetland per poi puntare
verso capo Finisterre, tenendosi sempre molto al largo. Gli inglesi inseguono
l'Armata sino a Newcastle: qui attraccano, avendo compreso il piano nemico e
ritenendo che l'Atlantico basti a sistemare una flotta così malconcia. Di
fatti il 21 agosto le navi spagnole iniziano a disperdersi per il vento. La
maggior parte di loro non è infatti adatta alla navigazione atlantica e
nessuna è stata carenata durante l'estate: la loro tenuta è quindi
pessima, tanto più che sono ancora sovraccariche di cannoni, salmerie e
animali da carico e da guerra. Muli e cavalli sono gettati in mare, assieme a
quanto non serve per la navigazione, ma molti vascelli si aprono letteralmente
in due e sono inghiottiti dai flutti.
In queste condizioni alcuni capitani
tentano di riguadagnare le Orcadi, le Shetland o la Scozia, oppure fanno vela
direttamente sull'Inghilterra: chi ci riesce, attende per mesi di essere
riscattato e rimpatriato. Altri puntano o sono spinti dai venti verso l'Irlanda,
dove lord William Fitzwilliam, il governatore inglese, è avvertito il 18
settembre del loro possibile arrivo. Egli ordina di sterminare i nemici e
mantiene questa decisione, anche quando scopre che si tratta di naufraghi,
più che di invasori. Non tutti gli spagnoli sono vittime degli inglesi;
la popolazione locale non si mostra più clemente. Complessivamente 3.000
membri dell'Armata sono uccisi dagli inglesi e altrettanti periscono per mano
degli irlandesi o annegano.
Parte della flotta riesce comunque a rientrare
in Spagna. Il 24 settembre il duca di Medina Sidonia giunge in vista di
Santander. Nelle settimane successive arrivano altre navi. Una lista stesa verso
la metà di ottobre mostra che alla fine sono rientrate 65 navi, la
metà di quelle partite da Lisbona alla fine di maggio. Iniziano allora a
diffondersi le differenti versioni sull'avvenimento. Gli spagnoli insistono
sulle sfortunate circostanze atmosferiche (in realtà assolutamente
prevedibili). Gli inglesi elaborano il mito della grande e definitiva vittoria
navale.
La partita invece non è chiusa e Filippo II invia altre tre
flotte contro l'Inghilterra: nel novembre 1596 una nuova Armata parte alla volta
dell'Irlanda ed è travolta da una tempesta; la stessa sorte colpisce la
spedizione che doveva sbarcare in Cornovaglia l'anno successivo; infine un terzo
convoglio percorre nel 1598 la Manica e porta soccorso alle armate spagnole nei
Paesi Bassi. L'Inghilterra è in vantaggio sui mari, ma per la vittoria
definitiva deve attendere ancora quasi un secolo e mezzo.
Per un quadro delle lotte europee nel secondo Cinquecento sono
ancora validi J.H. Elliott, Europe divided 1559-1598, London, Fontana,
1968, e Corrado Vivanti, Lotta politica e pace religiosa nell'Europa del
'500, Torino, Einaudi, 1974. Sulla conflittualità e gli sviluppi
dell'arte bellica sono invece utili: John R. Hale, Guerra e società
nell'Europa del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza 1987; Geoffrey Parker,
La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere
dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 1990; Piero Del Negro, Guerre ed
eserciti da Machiavelli a Napoleone, Roma-Bari, Roma-Bari, Laterza, 2001. Il
libro di Parker ha scatenato un vivo dibattito, per il quale si veda l'appena
citata opera di Del Negro, nonché Joël Cornette, La
révolution militaire et l'État moderne, "Revue d'histoire
moderne et contemporaine", 41 (1994), pp. 696-709, e The Military Revolution
Debate: Readings on the Military Transformation of Early Modern Europe,
Boulder, Co., Westview, 1995. Brian M. Downing, The Military Revolution and
Political Change. Origins of Democracy and Autocracy in Early Modern Europe,
Princeton, Princeton University Press, 1992, ha fatto della rivoluzione militare
l'asse privilegiato della storia europea nell'età moderna. Sulla stessa
linea, ma meno radicali, sono Jeremy Black, A Military Revolution? Military
Change and European Society, Atantic Highlands NJ, Humanities Press, 1991, e
Frank Tallett, War and Society in Early-Modern Europe, 1495-1715,
London-New York, Routledge, 1992. A cura di Black sono recentemente usciti due
volumi, nei quali si possono trovare ulteriori indicazioni: European Warfare,
1453-1815, New York, St. Martin's Press, 1999, e War in the early modern
world, Boulder Co., Westview Press, 1999. Per un sussidio sul Web, si
digiti l'indirizzo dell'Internet History Sourcebooks Project
(www.fordham.edu/halsall/).
Le
biografie di Filippo II e le opere di sintesi sul suo periodo sono numerose e
soprattutto famose, vedi per esempio: Geoffrey Parker, Un solo re, un solo
impero: Filippo II di Spagna, Bologna, Il Mulino, 1985, e Ferdinand Braudel,
Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II,
Torino, Einaudi, 1986. Mía J. Rodríguez-Salgado, Metamorfosi di
un impero: la politica asburgica da Carlo 5. a Filippo 2. (1551-1559),
Milano, Vita e Pensiero, 1994, puntualizza i rapporti tra la strategia paterna e
quella di Filippo. Gli scopi di quest'ultimo sono ulteriormente precisati da:
Henry Kamen, Philip of Spain, New Haven-London, Yale University Press,
1997; Geoffrey Parker, The Grand Strategy of Philip II, New Haven-London,
Yale University Press, 1998; Felipe II (1527-1598). Europa y la
Monarquía Católica, a cura di José Martínez
Millán, Madrid, Editorial Parteluz, 1998. Un suggestivo quadro della
politica estera spagnola è offerto da H.G. Koenigsberger: L'Europa
occidentale e la potenza spagnola, in Cambridge University Press, Storia
del Mondo moderno, III, La controriforma e la rivoluzione dei prezzi
(1559-1610), a cura di Richard Bruce Wernham, Milano, Garzanti, 1968, pp.
651-691, e Politicians and Virtuosi. Essays in Early Modern History,
London, Hambledon Press, 1986. Sul Web sono a disposizione il sito
dell'Escorial, che contiene anche materiali su Filippo e sull'Armata
(http://www.escorial.com), e quello degli studiosi che hanno promosso i
centenari di Filippo II e Carlo V
(http://www.felipe2carlos5.es). La
Brigham Young University dello Utah sta raccogliendo e mettendo in linea lettere
e altri materiali inediti del sovrano spagnolo
(http://lib3.byu.edu/~rdh/phil2/).
Per la situazione nel Mediterraneo e lo scontro con i turchi, confronta:
Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto,
a cura di Gino Benzoni, Firenze, Olschki, 1974; I Turchi, il Mediterraneo e
l'Europa, a cura di Giovanna Motta, Milano, Angeli, 1998. Per l'espansione
spagnola nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, si consulti J.H. Elliott, La Spagna
imperiale, Bologna, Il Mulino, 1982. Raffaele Puddu (Il soldato
gentiluomo, Bologna, Il Mulino, 1982, e I nemici del re. Il racconto
della guerra nella Spagna di Filippo II, Roma, Carocci, 2000) approfondisce
l'aspetto psicologico-culturale della guerra nell'impero spagnolo. Per i
riflessi italiani, vedi La Espada y la Pluma. Il mondo militare nella
Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del convegno internazionale di
Pavia, Viareggio-Lucca, Baroni Editore, 2000. Per un tema specifico, quello
della Lombardia spagnola, confronta inoltre: Mario Rizzo, Militari e civili
nello Stato di Milano durante la seconda metà del Cinquecento. In tema di
alloggiamenti militari, "Clio", XXIII. 4 (1987), pp. 563-596, e
Competizione politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse
nell'Europa cinquecentesca. Lo stato di Milano nell'età di Filippo
II, in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di
Elena Brambilla e Giovanni Muto, Milano, Unicopli, 1997, pp. 370-387;
Lombardia borromaica Lombardia spagnola 1554-1659, a cura di Paolo
Pissavino e Gianvittorio Signorotto, Roma, Bulzoni, 1995. Per la Sicilia
spagnola, si guardi invece Domenico Ligresti, L'organizzazione militare del
Regno di Sicilia (1575-1635), "Rivista Storica Italiana", CV (1993), pp.
647-678.
Per l'immagine anche storiografica della Spagna del secondo
Cinquecento, si parta da Spagna: immagine e autorappresentazione, a cura
di Giuliana Di Febo, "Dimensioni e problemi della ricerca storica", II (1995).
Contengono spunti fondamentali Anthony Pagden, Spanish Imperialism and the
Political Imagination, New Haven-London, Yale University Press, 1990, e
Governare il mondo. L'impero spagnolo dal XV al XIX secolo, a cura di
Massimo Ganci e Ruggiero Romano, Palermo, Società italiana per la storia
patria, 1991. Le citazioni dei nunzi veneziani sono tratte dall'Archivio Segreto
Vaticano, Fondo Bolognetti, vol. 24.
Per inquadrare la rivoluzione olandese
nello sviluppo europeo moderno e contemporaneo, si confronti Charles Tilly,
Le rivoluzioni europee 1492-1992, Roma-Bari, Laterza, 1993, e Alberto
Tenenti, Dalle rivolte alle rivoluzioni, Il Mulino, Bologna, 1997. Per
un'introduzione generale alla rivoluzione olandese, vedi Geoffrey Parker, The
Dutch Revolt, London, Penguin, 1990. Lo stesso autore (The Army of
Flanders and the Spanish Road, 1567-1659, Cambridge, Cambridge University
Press, 1972) esplora la logistica spagnola nel conflitto. Sulla nascita e la
crescita della repubblica olandese, consulta Jonathan I. Israel, The Dutch
Republic. Its Rise, Greatness, and Fall 1477-1806, Oxford, Clarendon Press,
1995. Un'interessante prospettiva sui contatti fra Olanda e Inghilterra è
indicata da Raingard Esser, News Across the Channel. Contact and
Communication Between the Dutch and Wallon Refugees in Norwich and Their
Families in Flanders, 1565-1640, "Immigrants and Minorities", 14, 2 (1995),
pp. 139-152. Matthew C. Waxman, Strategic Terror: Philip II and
Sixteenth-Century Warfare, "War in History", 4, 3 (1997), pp. 339-347,
approfondisce le ragioni che ispiravano la crudeltà spagnola.
Sulla
disastrosa impresa della flotta spagnola, che doveva conquistare l'Inghilterra,
è disponibile in italiano il libro, un po' troppo giornalistico, di David
Howarth, L'Invincibile Armada, Milano, Mondadori, 1984. Una valutazione
più scientifica è offerta da C.J.M. Martin e Geoffrey Parker,
The Spanish Armada, New York, Norton, 1988. I principali risultati di
questo studio, basato su fonti d'archivio e archeologiche, sono riassunti dallo
stesso Parker in un capitolo del già citato La rivoluzione
militare. Sempre sugli scontri navali, vedi ancora di Parker Ships of the
Line 1500-1650, in The Cambridge Illustrated History of Warfare,
Cambridge, Cambridge University Press, 1995. Un quadro generale, datato ma molto
ben scritto, è offerto da Carlo Maria Cipolla, Vele e cannoni,
Bologna, Il Mulino, 1983. Lo studio più aggiornato è invece Jan
Glete, Warfare at Sea, 1500-1650: Maritime Conflicts and the Transformation
of Europe, London-New York, Routledge, 2000.
Tornando alla strategia
navale spagnola, vale la pena di consultare ancora R.A. Strandling, The
Armada of Flanders. Spanish Maritime Policy and European War, 1568-1668,
Cambridge, Cambridge University Press, 1992, mentre sullo svilupppo della flotta
inglese si guardi D. M. Loades, The Tudor Navy. An Administrative, Political
and Military History, Aldershot, Scolar Press , 1992. Paul E.J. Hammer,
Myth-Making: Politics, Propaganda and the Capture of Cadiz in 1596, "The
Historical Journal", 40, 3 (1997), pp. 621-642, esplora un versante particolare
dello scontro anglo-spagnolo. Peter Pierson, Commander of the Armada: the
seventh duke of Medina Sidonia, New Haven-London, Yale University Press,
1989, presenta il punto di vista spagnolo, mentre R.B. Wenham, The return of
the Armadas: the last years of the Elizabethan war against Spain 1595-1603,
Oxford, Oxford University Press, 1994, descrive il proseguimento dello scontro
anglo-spagnolo.
Per comprendere appieno la capacità di resistenza
inglese, bisogna riflettere sulla progressiva ascesa di quel paese. Un buon
punto di partenza è la lettura di due classici, quali Christopher Hill,
La formazione della potenza inglese, Torino, Einaudi, 1977, e Conrad
Russell, Alle origini dell'Inghilterra moderna, Bologna, Il Mulino, 1988.
Bisgona, però, tener presente che il loro punto di vista è
contrapposto. La letteratura storica su Elisabetta I è vastissima, tanto
che la sola Library of Congress di Washington scheda quasi duecento volumi su di
lei. Per quel che ci riguarda, basta qui citare due opere recentissime: Susan
Doran, Elizabeth I and foreign policy, 1568-1603, London-New York,
Routledge, 2000, e Miriam Greenblatt, Elizabeth I and Tudor England, New
York, Bedmark Books, 2001. Si tenga inoltre conto che Elisabetta è una
star della rete con le oltre 60.000 citazioni. Tra queste vale la pena di
ricordare il sito
http://www.elizabethi.org,
dilettantesco, ma ricchissimo di materiale (bibliografie, notizie, link), e
The Works of Elizabeth I (poesie, traduzioni, discorsi e lettere) a
http://www.luminarium,org/renlit/elizabib.htm.
Nelle due parti precedenti l'Italia è entrata solo di straforo. In questa il suo ruolo non sarà maggiore, tuttavia si cercherà di mostrare che alcuni personaggi di origine italiana hanno giocato un ruolo importante, o per lo meno significativo nel contesto di quegli anni. In questo caso la ricerca è soltanto agli inizi, come menzionato nell'introduzione, ma già indica piste da esplorar. Meritano infatti di essere ristudiate le relazioni tra le casate francesi e quelle italiane, nonché la presenza in Francia di così tanti italiani. Inoltre gli Archivi Segreti Vaticani si rivelano uno straordinario forziere, nel quale si trova un vero tesoro di informazioni sulla Francia delle guerre di religione, nonché sugli italiani oltralpe. Infine si intuisce che nell'ambito della presenza italiana, dobbiamo affrontare anche le vicende dei diplomatici e degli amministratori inviati dalla Santa Sede a Parigi o ad Avignone.
La vita di Anna d'Este (Ferrara, 16 novembre 1531 - Parigi, 17 maggio 1607)
ci rivela la vicenda quasi romanzesca di una donna, mandata in terra straniera
per ragioni dinastiche, che sa ritagliarsi un proprio spazio diplomatico e
sentimentale in mezzo alle guerre di religione francesi.
Nell'estate del
1547 Enrico II di Francia invia Lancelot de Carle a Ferrara per sondare il duca
Ercole II. In particolare l'uomo del sovrano francese deve proporre al duca il
matrimonio tra sua figlia Anna d'Este, cugina germana del re di Francia, e
Francesco di Lorena, figlio di Claudio di Guisa. Ercole II tergiversa,
accampando la giovane età della figlia. In realtà il duca l'ha
già rifiutata a Orazio Farnese, nipote del pontefice Paolo III, e sta
tentando di darla in sposa a Sigismondo II, erede al trono polacco. Vista la
situazione Enrico II decide d'intervenire personalmente e, nell'agosto dell'anno
successivo, convoca in Piemonte il duca di Ferrara, che è infine convinto
dalla promessa che il pagamento della dote sarà anticipato dalla corona
francese. Il 15 settembre è quindi celebrato il matrimonio per procura,
mentre le nozze vere e proprie devono attendere il 16 dicembre 1548.
Anna si
trasferisce così in Francia, dove funge da emissaria del padre. Nel
frattempo dà al marito sette figli e una figlia. Impegnata dalle
gravidanze, che si succedono quasi senza soluzione di continuità, la
giovane ferrarese rimane ai margini della corte francese, pur legandosi con
Caterina de' Medici, consorte di Enrico II. Lentamente, però, si avvicina
al marito che inizia a seguire nelle campagne militari e negli incontri
diplomatici. Alla fine degli anni 1550 rompe addirittura con la famiglia
paterna, ritenendo che essa non compia quanto necessario per sostenere l'ascesa
francese dei Guisa.
Il 1 marzo 1562 Anna è a fianco del marito, quando
questi dà il via al massacro dei protestanti di Vassy. La duchessa
dichiara in seguito di temere una rappresaglia, ma i Guisa la invitano a non
preoccuparsi. Invece, neanche un anno dopo, Francesco di Lorena è
mortalmente ferito dal protestante Jean Voltrot. Anna accorre al capezzale dello
sposo, che le consiglia di a rimettersi alle decisioni del re. Il 26 settembre
1663 la giovane vedova accusa invece pubblicamente Gaspard de Coligny di essere
il mandante di Voltrot. Carlo IX, il figlio di Caterina de' Medici ed Enrico II,
desidera, però, arrivare alla pace e non vuole ascoltare le accuse di
Anna. Anzi questa è obbligata a riconciliarsi con il Coligny.
In cuor
suo Anna non rinuncia a vendicarsi, ma nel frattempo decide di trovare un altro
marito, che la metta al riparo da nuovi attacchi. Così nel 1566 sposa
Giacomo di Savoia, duca di Nemours, un uomo d'arme da sempre legato ai Guisa.
Dal nuovo matrimonio nascono altri due figli e la vendetta pare allontanarsi per
sempre. Ma nel 1572 Caterina de' Medici, all'insaputa di Carlo IX, chiede ad
Anna di eliminare Coligny. La duchessa di Nemours ne discute con i figli di
primo letto ed Enrico di Lorena, suo primogenito e duca di Guisa, le suggerisce
di uccidere di sua mano il loro avversario. La duchessa non si fida,
però, della propria abilità di tiratrice e assolda un sicario,
che, come abbiamo visto nella prima parte, riesce soltanto a ferire Coligny. La
responsabilità di Anna è lampante, tanto che la duchessa teme
un'immediata e violenta ritorsione. Senonché Coligny è trucidato
assieme alla maggioranza dei protestanti francese nella già menzionata
notte di s. Bartolomeo.
Negli anni successivi Anna ritrova dunque la
tranquillità e può dedicarsi alle faccende familiari, complicate
dalla necessità di contemperare i desideri e le richieste dei figli di
primo letto e di secondo letto, nonché di un figlio illegittimo del
secondo marito. Nel frattempo si riavvicina a Caterina de' Medici e nel 1579,
per favorirla, seda il contenzioso tra il cardinale Luigi d'Este, suo fratello,
e Giano Fregoso, vescovo di Agen. In cambio Caterina fà ratificare a
Enrico III la cessione della contea di Tenda a Emanuele Filiberto di Savoia,
cugino del duca di Nemours.
Anna scopre allora che grazie al fratello
cardinale può proporsi quale mediatrice tra la corte francese e la Santa
Sede. Iniziò per lei un periodo di notevole prestigio, che la vede
addirittura manovrare per far succedere al fratello Alfonso II, duca di Ferrara,
il nipote Carlo di Lorena, figlio di Enrico duca di Guisa. La morte del marito
nel 1585 e quella del fratello Luigi nel 1586 gettano all'aria questi piani e
Anna si trova nuovamente nei guai.
Caterina de' Medici inizia infatti a
osteggiare le mire di Anna per i due figli avuti dal duca di Nemours. Allo
stesso tempo, i figli di primo letto radicalizzano la propria posizione
antiprotestante, contro il volere della madre. Nel dicembre 1588 Anna viene a
sapere che Enrico III di Francia vuole uccidere Enrico di Guisa. Avverte il
figlio nella notte tra il 22 e il 23 dicembre, ma questi non vuole crederle. La
mattina successiva cade così sotto il pugnale dei sicari del re ed
è seguito il giorno dopo dal fratello, il cardinale Luigi di Lorena.
Enrico III fa inoltre arrestare Anna, il figlio primogenito del defunto duca di
Guisa e Charles-Emmanuel de Savoie. Quest'ultimo riesce a fuggire, mentre la
duchessa è imprigionata nel castello di Blois, quindi trasferita in
quello di Amboise e infine liberata.
Tornata a Parigi si rende conto che lo
spazio di manovra è molto ridotto e che la guida dei Guisa è ormai
in mano al duca di Mayenne. Forse per questo appare meno combattiva del solito
nella divisione dei beni del cardinale Luigi d'Este. Nel frattempo i figli di
primo e di secondo letto di Anna si affrontano violentemente per godere la parte
dell'eredità toccata alla madre.
Nel 1595 si spenge Charles-Emmanuel
de Savoie. Due anni dopo con la morte senza eredi di Alfonso II si estingue
invece il ramo principale della famiglia d'Este. Nonostante queste disgrazie,
agli inizi del nuovo secolo la vecchia duchessa è ancora al centro della
ragnatela diplomatica che collega Roma e Parigi. E' quindi trattata con riguardo
dal nuovo re, Enrico IV.
Nel 1602 Vincenzo Ungarino, segretario del nunzio a
Parigi, scrive che la vecchia duchessa sta perdendo la risolutezza che l'ha
contraddistinta in gioventù. Nel 1604 altre fonti segnalano l'inizio del
decadimento mentale. Negli ultimi anni della sua vita Anna si chiude nel palazzo
parigino dei Nemours, dove infine muore il 17 maggio 1607. Ha nel frattempo
chiesto e ottenuto che il suo cuore sia portato al castello di Joinville e posto
accanto al primo marito. Il suo corpo è invece sepolto a Notre-Dame di
Annecy nella tomba del secondo marito. Le sue viscere sono infine inumate nella
chiesa des Augustins a Parigi, dove è letto un appassionato elogio
funebre di Severin Bertrand.
L'eco di questo elogio, rafforzata da quanto
aveva detto su di lei il signore di Brantôme, nelle Vite delle dame
galanti (1583-1584), e di un sonetto di Pierre de Ronsard rimane viva a
lungo e ispira le lodi postume alla bellezza e al coraggio della duchessa. E'
stato anche ipotizzato che Marie Madeleine, contessa de La Fayette, si sia
ispirata ad Anna d'Este per raffigurare la protagonista di La principessa di
Clèves (1678). La bellezza di Anna d'Este è testimoniata dai
numerosi ritratti che la duchessa si è fatta fare nel corso della sua
vita. Essi tuttavia non rendono conto dell'abilità con la quale Anna
d'Este ha saputo destreggiarsi, mantenendo fede agli impegni presi con la
famiglia paterna e agli obblighi contratti con le famiglie dei due
mariti.
Domenico Grimaldi nasce a Genova nella prima metà del Cinquecento da
una delle più importanti famiglie locali. Suo padre, Giambattista, ha
combattuto per Carlo V e numerosi suoi fratelli servono la corona spagnola.
Domenico è invece avviato alla carriera ecclesiastica, ma non per questo
abbandona le tradizioni familiari: anzi, servendo la Chiesa, ha modo di
combattere sia sul mare, sia sulla terra.
Nell'inverno del 1570 Pio V lo
incarica di approntare le galere per la guerra ai turchi e, quale commissario
della flotta pontificia, Grimaldi segue Marcantonio Colonna nella campagna
navale, che porta alla vittoria di Lepanto. Il giovane commissario pontificio
combatte così a fianco dei fratelli, che hanno armato due galere della
squadra genovese. La sua campagna non è, però, gloriosa. Le sue
lettere a Roma rivelano soprattutto le preoccupazioni di chi deve occuparsi del
vettovagliamento e tratta con i mercanti siciliani, veneziani e ragusani per
ottenere vino e viveri al prezzo più basso. Inoltre Grimaldi è
accusato da Marcantonio Colonna d'incompetenza e obbligato a discolparsi davanti
al cardinale Tolomeo Galli, segretario di stato di Gregorio XIII. Riesce a
scusarsi adducendo a motivo della scarsità delle vettovaglie, i pochi
fondi affidatigli
In ogni caso il papa apprezza l'impegno del giovane
genovese, che, al ritorno a Roma, è nominato referendario delle due
segnature e diviene un funzionario della curia pontificia. Il suo destino si
allontana quindi dai campi di battaglia, ma pochi anni dopo torna a calcarli in
Francia. Quest'ultima è allora divisa, come abbiamo visto, dalle guerre
di religione e gli ugonotti minacciano i possedimenti avignonesi del papa. Il 18
marzo 1577 Grimaldi è quindi nominato rettore del Contado venassino e gli
è confidata l'autorità straordinaria di commissario per il tempo
della guerra. Suo compito precipuo è quello di fermare le aggressioni
ugonotte. Il genovese mostra di meritare la fiducia accordatagli e, dopo aver
convocato a Carpentras la nobiltà cattolica, guida un'armata
italo-francese alla conquista di Menerbes, roccaforte ugonotta.
Negli anni
successivi si dedica alla difesa dei confini del Contado venassino e al
mantenimento dell'ordine interno. In particolare cerca di prevenire le discordie
fra i nobili locali e a tal scopo interrompe ai primi del 1580 un duello alle
porte di Carpentras. Uno dei due contendenti, Esprit Suquet, signore di Maizan,
protesta con vemenza e poca cordialità; per tutta risposta Grimaldi lo
stende con un colpo di piatto.
Ripresosi, Suquet sfida il genovese,
chiedendo di lavare con il sangue l'offesa subita. Il funzionario pontificio
deve ovviamente declinare la sfida e ricorre al cardinale d'Armagnac, co-legato
di Avignone, per far calmare Suquet. Quest'ultimo finge di accondiscendere e
chiede addirittura scusa al rettore del Contado venassino, ma in realtà
medita la vendetta. Poco tempo dopo Grimaldi scorta, assieme al fratello Tommaso
e a venti cavalieri, Henri de Valois-Angoulême, figlio naturale di Enrico
II. Appena fuori Avignone, Suquet piomba con i suoi sulla piccola scorta e,
grazie al numero preponderante, uccide quattro cavalieri e Tommaso Grimaldi.
Domenico si difende bravamente e riesce a salvarsi, nonostante che gli abbiano
abbattuto il cavallo.
Rientrato in città, organizza l'inseguimento
dell'assalitore, ma questi abbandona i possedimenti pontifici e al rettore del
Contado venassino non resta che sequestrargli i beni. La vicenda spaventa
moltissimo i superiori di Grimaldi, che è richiamato a Roma nel maggio
1580. Tenta allora di ottenere un nuovo incarico in curia, ma dopo soltanto due
mesi è rimandato in Francia, non senza, però, essere riuscito a
strappare la promessa di nuovi benefici. Di fatti l'anno successivo è
nominato vescovo di Savona, ma gode soltanto delle rendite di questa diocesi,
perché rimane rettore del Contado venassino sino al 1584. Soltanto il 20
febbraio 1584 è infatti sostituito in questa carica dal suo uditore e
luogotenente, Pompeo Rocchi. Tale avvicendamento non permette, però, al
nostro vescovo di tornare in Italia, ché anzi il suo ruolo nel Contado
diviene ancora più importante.
Proprio agli inizi del 1584 il
già citato Tolomeo Galli suggerisce a Girolamo Ragazzoni, nunzio in
Francia, di affidare Avignone a Grimaldi, nel frattempo trasferito alla diocesi
di Cavaillon, visto che non riusciva a seguire adeguatamente Savona, troppo
distante dal Venassino. L'occasione per promuovere Domenico si presenta
nell'autunno del 1584, quando muore Baldassarre Boschetti, comandante delle
truppe avignonesi. Il cardinale Galli scrive nuovamente a Ragazzoni e gli fa
sapere che il comando deve essere affidato a Grimaldi, se il re di Francia
è d'accordo. Enrico III, interpellato nel gennaio 1585, risponde che quel
posto spetta a un soldato e Ragazzoni ribatte che Grimaldi proprio quello
è, come dimostrano i suoi precedenti a Lepanto e nella lotta contro gli
ugonotti. Il nunzio alla fine la spunta, grazie all'aiuto della regina madre,
che apprezza molto il genovese, e nel gennaio del 1585 quest'ultimo diviene
comandante delle truppe avignonesi. Nel giro di pochi mesi è quindi
designato vice-legato, nonché arcivescovo di Avignone.
In
quest'ultima qualità segue con attenzione i problemi della chiesa locale:
fonda un seminario e indice tre sinodi diocesani nel 1586, 1589 e nel 1592.
Tuttavia i suoi interessi e i suoi doveri più impellenti restano sempre
in ambito amministrativo-militare. Le cronache ci tramandano così il
ricordo di un vescovo che preferisce la corazza alle vesti ecclesiastiche e che
si preoccupa della costruzione di forti piuttosto che di quella delle chiese.
D'altro canto la situazione militare non è in quel momento favorevole.
Gli ugonotti del Delfinato hanno infatti ripreso a premere su Avignone; inoltre
alle loro minacce si assommano quelle cattoliche. Enrico III ha infatti
incaricato Jean de Nogaret, duca di Épernon, e suo fratello Bernard, duca
di La Valette, di riconquistare Oranges, caduta in mano degli ugonotti, ma i due
pensano di mettere a sacco la stessa Avignone. Grimaldi è avvertito del
pericolo nel settembre 1586 e ricorre a Caterina de' Medici per giungere a un
accordo con i Nogaret nell'ottobre dello stesso anno.
Il pericolo di un
sacco da parte cattolica è evitato, ma da allora Jean de Nogaret si
guarda bene dal proteggere Avignone. Il vice-legato si deve quindi impegnare in
prima persona per rafforzare la difesa dei possessi pontifici. In accordo con
Sisto V, intavola trattative con Enrico di Montmorency e, tramite questi, con
gli ugonotti della regione, riuscendo infine a ottenere una tregua agli inizi
del 1589.
A questo punto Grimaldi pensa di poter restare per sempre ad
Avignone, ma nel frattempo Roma ha ricevuto numerose critiche contro il suo
operato. Da una parte, gli viene rinfacciato di mostrarsi troppo ben disposto
verso il Montmorency, accusa della quale gli è facile difendersi,
ricordando a Sisto V le istruzioni ricevute. Dall'altra, è accusato di
aver "defraudato il denaro della camera". Quest'imputazione è più
grave, anche perché accompagnata da una serie di pasquinate in francese,
nelle quali si ribadisce che Grimaldi si preoccupa soltanto di "succer le sang
du pais pour senrichir [sic!]". Da Roma è quindi avvertito che sarebbe
stato nominato un nuovo vice-legato e che deve tenersi pronto a rientrare.
Il ritorno è, però, rinviato a causa del pericolo ugonotto.
Grimaldi continua a fortificare i dintorni di Avignone, dove resta sino all'anno
successivo. Il 23 giugno 1589 scrive infine al cardinale Montalto che la
situazione si è stabilizzata e che il vescovo di Cavaillon, il fido
Pompeo Rocchi, può sostituirlo. Nel frattempo è stato nominato il
nuovo vicelegato, Domenico Petrucci, vescovo di Bisignano, che il 23 luglio
dello stesso anno arriva a Nizza, dove, però, è bloccato per
almeno un mese. Non è quindi chiaro quando esattamente sia avvenuto il
passaggio delle consegne e quando Grimaldi sia infine partito per Roma.
Il
nuovo vice-legato trova subito le prove che il suo predecessore si è in
effetti arricchito al di là del lecito, o comunque dell'usuale. In
particolare ricostruisce la storia di come Grimaldi sia stato nominato dal re di
Francia abate commendatario di St-Pierre Montmajeur d'Arles, che vale almeno
4.000 scudi. Il precedente abate si era infatti rifugiato ad Avignone, dopo aver
messo incinta una suora. Grimaldi lo aveva protetto e gli aveva fatto ottenere
la diocesi di Tolone, pretendendo in cambio la commenda della ricca abbazia. A
Roma si decide di non tener conto delle accuse di Petrucci e si provvede a
ratificare nel febbraio 1590 la nomina dell'arcivescovo di Avignone ad abate di
St-Pierre Montmajeur. Il papa ha di nuovo bisogno dei suoi servizi di uomo
d'arme e non vuole scontentarlo.
Nei domini pontifici in Italia il
banditismo è allora entrato in una fase acuta e Sisto V ha deciso che
Grimaldi è l'uomo in grado di pacificare le Marche. L'arcivescovo di
Avignone quindi non perde il suo arcivescovato e i vari benefici ed è
nominato governatore delle Marche. Nel 1590 elegge quindi Ascoli a sua residenza
e da questa città muove contro le formazioni dei banditi, concludendo
vittoriosamente la sua campagna nella primavera del 1591.
A questo punto
Grimaldi conta di rimanere in Italia e pare di capire che abbia persino sperato
di divenire cardinale. E' invece rimandato ad Avignone, dove la situazione
è di nuovo peggiorata dal punto di vista militare e da quello
amministrativo. Nell'aprile del 1592 rientra quindi nella sua arcidiocesi e
riprende il vecchio incarico di vice-legato. Questa volta, però, deve
affrontare un nemico più implacabile di tutti quelli, che ha sino allora
piegato: nel giro di pochi mesi un cancro allo stomaco lo porta alla tomba. Il
1° agosto i fratelli, Francesco e Giacomo, lo fanno tumulare nella
cattedrale, dove una lapide ricorda i suoi trascorsi militari.
Le scarne
parole dei fratelli - che non ricordano la data di nascità o l'età
di Domenico, ma sottolineano le sue imprese di guerra - sono probabilmente il
migliore epitaffio per un vescovo, che in fondo è stato soprattutto un
soldato. Una volta riconosciuto questo non bisogna tuttavia sottovalutare il
rilievo della carriera amministrativa di Domenico Grimaldi e soprattutto la sua
importanza nell'ambito della storia avignonese. Per quindici anni ha retto le
sorti di Avignone e del Contado venassino, passando da una carica all'altra e
talvolta cumulandone più di una. Questa forte centralizzazione
dell'amministrazione avignonese è il frutto di una situazione
eccezionale, ma permette anche a Roma d'imporre definitivamente la figura dei
vice-legati, spariti durante la lunga legazione del cardinale Charles de
Bourbon, come gerenti della città e di preparare il passaggio dal legato
di origine francese a quella dei legati italiani. Grimaldi, cumulando
l'autorità civile, quella militare e quella ecclesiastica, non ha infatti
rivali all'interno del dominio avignonese, se non quelli causati dalla gelosia
della nobiltà locale.
I successi di Grimaldi - che comunque conosce
anche smacchi cocenti, basti pensare all'assassinio del fratello - non sono
dovuti soltanto alla guerra, ma anche ai contatti diplomatici che egli sa
instaurare. In occasione di un incontro con il re nel 1584, il cardinale Galli
consiglia al nunzio Ragazzoni di portarsi dietro il genovese, perché
questi era "assai informato de li humori et del procedere del paese, et è
amato da tutti li ministri di S. M.tà in quelle parti". Grimaldi ha
saputo infatti sfruttare i legami tra la propria famiglia (un ramo della quale
regge ancora oggi il principato monegasco), Genova e il Mezzogiorno francese per
rafforzare il controllo di Roma su Avignone. Tale situazione era vantaggiosa per
Roma e per i Grimaldi, non a caso Domenico è sempre coadiuvato da
qualcuno dei suoi numerosissimi fratelli, ma lo era anche per Genova. Avignone
è infatti un importante centro d'informazioni importanti e funziona da
relé tra Parigi e le capitali italiane. Di conseguenza nei secoli
successivi molti genovesi chiedono e ottengono il posto di vice-legato ad
Avignone.
Sin dalla nascita nel 1549 Ferdinando de' Medici appare destinato al
palcoscenico internazionale. Figlio di Cosimo I e Leonora di Toledo, è
tenuto a battesimo da Ferdinando d'Asburgo, fratello dell'imperatore Carlo V e
re di Boemia e d'Ungheria. Senonché è soltanto il quintogenito e
quindi, per il momento, tutti gli onori sono per i fratelli maggiori: Francesco,
che deve succedere al padre; Giovanni, destinato a divenire cardinale; e Garzia,
cui spetta il patrimonio materno. Ma la sorte ha in serbo per lui ben altre
possibilità.
Nell'ottobre del 1562 Cosimo va a caccia in Maremma e
porta con sé Giovanni, Garzia e Ferdinando. Tutti e tre i figli sono
colpiti dalla malaria, ma soltanto il più giovane sopravvive. Alcune
malelingue sussurrano che quell'adolescente dall'aria un po' ottusa ha fatto
fuori i fratelli maggiori per incamerare i loro beni. Altre voci asseriscono
invece che Garzia avrebbe ferito mortalmente Giovanni e poi sarebbe stato ucciso
dal padre.
Quest'ultimo ignora i pettegolezzi e decide che Ferdinando deve
prendere il posto di Giovanni nel collegio cardinalizio. In un primo tempo Pio
IV si oppone, adducendo la malaria contratta dal giovane, ma infine acconsente.
Il 6 gennaio 1563 Ferdinando è quindi creato cardinale; è,
però, troppo malato per recarsi a Roma, dove giunge solamente l'anno
successivo. Nel frattempo il padre ha lasciato a Francesco il governo degli
affari correnti. Il vecchio granduca non abbandona comunque il giovane cardinale
e cerca di fargli avere un posto di prestigio nella Curia. Ferdinando invece non
è così desideroso d'impegnarsi nella vita romana. Torna spesso a
Firenze e soprattutto non prende i voti: decisione che più tardi
sarà considerata una delle prove che egli ha scientemente pianificato
l'eliminazione di tutti i suoi fratelli.
Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV e
Ferdinando agisce allora come portaparola del padre, che vorrebbe influenzare
l'elezione del nuovo pontefice. Il cardinale è, però, troppo poco
addentro alle faccende romane per contare veramente. Di conseguenza non riesce a
impedire l'ascesa al soglio pontificio di Pio V Ghislieri, avverso ai Medici.
A questo punto Cosimo teme addirittura per la sicurezza del figlio e lo
richiama a Firenze. Dopo poco, tuttavia, i rapporti tra il papa e i Medici si
distendono e Ferdinando è rimandato a Roma, dove inizia il suo
apprendistato politico. Il giovane cardinale adesso risiede stabilmente nel
palazzo di famiglia a Campo Marzio, all'angolo tra piazza Firenze e via dei
Prefetti, e si dimostra all'altezza delle aspettative paterne. In poco tempo
conquista la fiducia della cerchia di Pio V e in particolare si lega a Michele
Bonelli, nipote e consigliere del papa.
Nel conclave del 1572 sfrutta le sue
nuove amicizie per sbarrare la strada ad Alessandro Farnese e appoggiare
l'ascesa di Gregorio XIII Boncompagni. Il nuovo papa lo ascrive alla
Congregazione per le strade e le fontane, una posizione che gli tornerà
utile in seguito. Inoltre il patto elettivo rende strettissimi i legami tra le
due casate. Nel 1576 Ferdinando organizza il matrimonio di Giacomo, figlio del
pontefice, e Costanza Sforza di Santa Fiora. Il 28 settembre dell'anno
successivo Giacomo lo accompagna al battesimo dell'unico erede di Francesco de'
Medici.
Quest'ultimo è intanto divenuto il secondo granduca di
Toscana. Il 21 aprile 1574 Cosimo I de' Medici è infatti morto e ha
lasciato a Ferdinando metà del palazzo Firenze a Roma e una rendita
vitalizia di 80.000 scudi l'anno. Un appannaggio assai gradito, perché il
cardinale mantiene un treno di vita dispendioso - nelle scuderie ha ben 100
cavalli - che gli serve per spiccare nella Curia. Inoltre, sempre per
distinguersi, versa pingui offerte all'Arciconfraternita della SS.
Trinità dei Pellegrini, della quale è cardinale protettore.
La
sua esistenza non è comunque improntata ai soli valori del lusso e della
beneficenza. Egli è un protagonista della vita cittadina, anche nei suoi
aspetti più misteriosi. Nel 1576, mentre rientra di notte, è,
assalito e ferito assieme a un suo staffiere; un altro suo accompagnatore
è invece ucciso. Una vendetta dei Farnese? Una tentata rapina? Un
regolamento dei conti? Una risposta alla violenza esercitata altre volte dal
turbolento seguito del Medici? Le fonti non sciolgono i dubbi, ma i gusti del
cardinale offrono altre possibili spiegazioni. Ferdinando ama infatti le
compagnie femminili, anche quelle che dovrebbe evitare, perché protette
da familiari gelosi, e soprattutto il gioco. Il 27 agosto 1575 Gregorio XIII si
vede costretto a biasimarlo pubblicamente per aver perso 30.000 scudi al gioco
e lo invita a un comportamento più idoneo alla porpora
cardinalizia. Visto che c'è, lo esorta anche a prendere gli ordini sacri.
Il Medici non segue i consigli del pontefice, anzi qualche anno più tardi
si prende addirittura la rivincita sul figlio di Gregorio XIII e, che nel luglio
1583, lo alleggerisce, assieme a Orazio Ruccellai e al cardinale Maffei, di ben
150.000 scudi.
Ferdinando non è comunque soltanto un gaudente
spendaccione. Con il tempo diventa anche uno dei maggiori mecenati romani. Pure
in questo campo il suo avversario è il cardinale Farnese. Questi spende
somme enormi nella chiesa del Gesù, nel completamento del palazzo di
famiglia, nell'acquisto dell'antica villa suburbana di Agostino Chigi (detta da
allora la Farnesina), negli Orti Farnesiani sul Palatino e soprattutto nella
villa-castello di Caprarola. Ferdinando al contrario non disperde i suoi sforzi
e cerca qualcosa che gli dia la massima pubblicità.
Il suo interesse
per l'arte inizia in sordina nel 1566, quando fa intagliare i soffitti di Santa
Maria in Domnica con le imprese della Vergine. Sei anni più tardi fa
affrescare a Jacopo Zucchi le volte del palazzo di famiglia. Commissiona inoltre
allo stesso pittore la Messa di San Gregorio, nella quale si fa
effigiare, per l'altare dell'oratorio (oggi si trova nella sacrestia) della SS.
Trinità dei Pellegrini in via delle Zoccolette.
Nel decennio
successivo si volge anche ai libri di pregio. Nel 1584 fa costruire la
Tipografia Orientale, che affida al famoso incisore Giovan Battista Raimondi.
Nello stesso anno manda Girolamo e Giambattista Vecchietti alla ricerca di
codici asiatici. Nel 1586 invia invece Giovan Battista Britti in Etiopia.
Inoltre domanda a Filippo Sassetti di procurargli manoscritti dall'India. Molte
di queste richieste sono esaudite e alcune delle opere riportategli sono oggi
fra i tesori della Biblioteca Apostolica Vaticana, di quella Mediceo-Laurenziana
e della sezione Magliabechiana della Nazionale di Firenze. Sassetti inoltre
rifornisce il cardinale di stoffe e sementi indiane.
L'acquisto nel 1576
della villa del cardinale Ricci al Pincio è il colpo più
spettacolare, nel campo della magnificenza e del mecenatismo. Essa è
già una delle più famose residenze romane, ma Ferdinando la
ingrandisce, tra il 1577 e il 1585, e trasforma il giardino in un museo
all'aperto. Nel 1583 acquista a tal scopo il gruppo delle Niobidi, da poco
ritrovate in una vigna della villa Altieri sull'Esquilino. Nel 1584 compra anche
la collezione di antichità che orna il palazzo Valle, allora di
proprietà dei Capranica. Nel 1587 compra per 200 scudi la conca antica di
marmo granito che era dei frati di San Salvatore in Lauro. La risonanza è
altissima. Nel 1579 Gregorio XIII si fa ospitare nella villa. Nel marzo 1580
essa è visitata da Montaigne, che la giudica una delle più belle
di Roma. Infine l'inviato di Mantova decreta che è senza dubbio la
più bella di tutta la città.
Ferdinando è ormai molto
conosciuto ed è in grado di affrontare da pari a pari lo scontro finale
con Alessandro Farnese. Scontro che si complica per alcuni risvolti
boccacceschi. Nel 1585 viene infatti appeso alla statua di Pasquino un cartello
sibillino: "il Medico cavalca la mula Farnese". Per i romani ben informati
è un'evidente allusione alla tresca tra il Medici e Clelia Cesarini,
figlia illegittima del cardinale Farnese. Quest'ultimo ha allora 75 anni: la
successione a Gregorio XIII è quindi la sua ultima chance di
divenire papa. Tra i due cardinali si scatena una lotta serrata, che coinvolge
anche i partiti spagnolo e francese.
Questo duello è di fondamentale
importanza per Firenze. Il granduca paventa infatti di essere preso nella morsa
dei Farnese, che possiedono il ducato di Parma e Piacenza a nord della Toscana e
il ducato di Castro a sud. Francesco de' Medici non dubita delle capacità
di Ferdinando, ormai ritenuto da molti il più intelligente fra tutti i
cardinali. Tuttavia teme il suo carattere impetuoso e il suo disprezzo per chi
non sia di sangue principesco. Gli affianca allora il proprio segretario
Belisario Vinta e spera che quest'ultimo sappia tenerlo a freno.
Ferdinando
si comporta invece benissimo e recupera una situazione apparentemente
compromessa. Alessandro Farnese guadagna subito l'appoggio di Filippo
Boncompagni e dei cardinali spagnoli; però, il Medici gli contrappone il
cardinale Alessandrino e Marco Sittich, capo dei cardinali fatti da Pio V. I due
avversari sono ora in posizione di stallo, ma Ferdinando riesce a convincere il
cardinale Madruzzo, appena giunto a Roma, dell'improponibilità del
Farnese. Madruzzo si adopera quindi presso gli altri membri del partito
spagnolo, affinché non sostengano la candidatura farnesiana.
A questo
punto si mormora che Felice Peretti potrebbe divenire papa, ma il Farnese
è sicuro che Ferdinando non possa avallare questa scelta. Francesco
Peretti, nipote di Felice, è stato ucciso da Paolo Giordano Orsini,
cognato di Ferdinando. Quindi, sostenendo Peretti, il Medici rischia di far
condannare un congiunto. Alessandro Farnese sottovaluta, però, Ferdinando
che gioca il tutto per tutto per eliminare il suo avversario. Il cardinale
fiorentino si accorda con i colleghi d'Este, Bonelli e Altemps e appoggia
l'elezione di Sisto V Peretti il 24 aprile 1585.
Questa mossa è
indubbiamente coraggiosa e mette a tacere per sempre Alessandro Farnese.
Tuttavia il futuro è ora incerto per i Medici e i loro congiunti.
Inizialmente tutto procede per il meglio. Gli Orsini sono perdonati dal nuovo
papa. Ferdinando è promosso al titolo di S. Eustachio ed è
nominato presidente della commissione per il ripristino dell'Acqua Alessandrina,
in virtù del suo precedente incarico alle strade e fontane.
Proprio
da questa nomina nascono, però, i primi screzi. Il papa ha fretta di
realizzare il progetto, che da lui prenderà il nome di Acqua Felice, ma
Ferdinando è contrario a spese esagerate e soprattutto a lavori
affrettati. Nel 1585 Sisto V comanda al cardinale di acquistare una vena
d'acqua, che scaturisce dal monte al di là del "Pantano de' Grifi", e di
utilizzarla per rifornire la piazza antistante S. Maria degli Angeli: due anni
dopo l'ordine non è ancora eseguito. L'acquedotto Felice è infine
realizzato con le economie desiderate dal Medici, il quale si scontra più
volte con il papa. Quest'ultimo comunque concede nel 1587 alcune once dell'Acqua
Felice al cardinale, che così risolve, una volta per tutte, il
rifornimento idrico della villa sul Pincio. La stessa sceneggiatura si ripete
quando Ferdinando entra nella commissione per l'erezione dell'obelisco di piazza
di San Pietro. Quasi naturalmente Sisto V e il Medici patrocinano due progetti
diversi. Questa volta è, però, il papa ad avere la meglio, forse
perché Ferdinando non ha in questo campo un interesse materiale da
difendere.
I dissensi tra Felice Peretti e Ferdinando de' Medici divengono
presto numerosi e violenti. Tuttavia il secondo non abbandona la posizione di
privilegio nella Curia, anzi si rivela attivo collaboratore della politica
estera del papa, in particolare per quanto concerne la difesa del cattolicesimo
in Polonia e i rapporti con la Spagna. Nonostante gli screzi, il 7 gennaio del
1587 Ferdinando ottiene il titolo cardinalizio di S. Maria in via Lata e diviene
il primo dei cardinali diaconi.
Stravince quindi su tutta la linea, ma i
Farnese si prendono l'ultima vendetta. Il 27 giugno 1587 Ferdinando è
invitato a una partita di caccia alle rondini nei pressi di Ponte Milvio. Mentre
è fuori Roma, il cardinale Farnese obbliga Clelia Cesarini a seguirlo a
Ronciglione. Alla fine dell'estate l'amante di Ferdinando è scortata da
ben 150 armati nel ducato di Parma e le è impedito di rientrare nella
città eterna. Gli Avvisi di Roma, la gazzetta del tempo,
sottolineano che la rappresaglia farnesiana è avvenuta con il consenso
del papa. Nei mesi successivi è tutto un susseguirsi di pettegolezzi. Si
lascia intendere che Clelia è incinta, si dà per certo che i
Farnese hanno fatto sposare e partire da Roma tutte le damigelle della giovane.
Una notizia del 1 luglio rivela che Ferdinando ha arruolato "altre lance
spezzate", che lo seguono dovunque vada. Una settimana dopo il papa si reca a
Villa Medici, ma, a dire dei gazzettieri, si sarebbe portato da mangiare e da
bere. Infine è annunciato il matrimonio di Clelia Cesarini con il
marchese di Sassuolo.
Non è possibile ipotizzare cosa sarebbe
accaduto, se Ferdinando fosse rimasto ancora in Curia. Poteva divenire l'erede
di papa Peretti? Sarebbe stato alla fine scacciato? Avrebbe saldato i conti con
il papa e i Farnese? Sono interrogativi del tutto accademici, perché la
sua vita conosce una nuova svolta: ancora una volta grazie alla morte improvvisa
di un fratello.
Negli anni 1580 la successione a Firenze si riapre.
Francesco I è malandato ed inoltre privo di erede. L'unico figlio maschio
di primo letto è infatti morto, mentre la seconda moglie, Bianca
Cappello, non ha generato un erede ufficiale. Ferdinando aspira al granducato;
però, Bianca e il granduca hanno avuto un figlio prima delle nozze e
Francesco potrebbe riconoscerne la legittimità. Il cardinale si preoccupa
quindi di acquistare appoggi a corte e di seguire gli accadimenti da
presso.
Nell'ottobre 1587 è chiamato a Firenze: il fratello giace
gravemente ammalato di malaria nella villa di Poggio a Caiano. La notte del 19
ottobre 1587 Francesco muore improvvisamente, seguito nelle prime ore del 20
dalla moglie, vittima della stessa malattia. Ferdinando coglie al volo
l'occasione e fa occupare i punti nodali del granducato da uomini a lui fedeli.
Il 20 stesso entra poi a Firenze, pronto a tutto. Invece è acclamato dal
popolo che spera nella sua fama di munifico. Nessuno quindi si preoccupa dei
diritti di Antonio, il figlio illegittimo del granduca e di Bianca
Cappello.
Naturalmente non passa inosservato che per la seconda volta
Ferdinando tragga benefici della morte di un fratello, tanto più che
Bianca Cappello è deceduta così rapidamente. Ora tornano
nuovamente di moda le chiacchiere sull'uccisione di Giovanni e Garzia de'
Medici: sembra che la malaria sia un'alleata stretta di Ferdinando ed è
facile fare insinuazioni sull'uso sapiente dei veleni da parte di chi ha vissuto
tanto a lungo nella Curia che era stata dei Borgia! Ferdinando non si difende
direttamente, ma fa diffondere la voce che il fratello sia morto per sbaglio.
Avrebbe infatti mangiato una torta avvelenata, che Bianca Cappello aveva
preparato proprio per il cardinale. La granduchessa si sarebbe suicidata, una
volta scoperta.
Una settimana dopo la morte del fratello, Ferdinando ha
saldamente in mano il granducato e lascia per sempre Roma, dove non mette
più piede. Sisto V non intralcia i piani del nuovo granduca, che
già da semplice cardinale era un alleato assai ingombrante. Tuttavia
esige che rinunzi al cardinalato prima di prendere moglie. Ferdinando, che a
lungo indossa ancora la veste cardinalizia, accetta di dare le dimissioni
soltanto nel novembre 1588, ma contratta la propria successione. Il terzo
granduca di Toscana è infatti un diplomatico integrale, che trae spunto
per contrattare da qualsiasi contingenza.
Alla fine dell'ottobre 1587
Ferdinando de' Medici è sicuro della successione al fratello Francesco I
e decide di riprendere i disegni di Cosimo I per fare del granducato una potenza
europea. In particolare tenta di assicurare ai propri domini la stabilità
necessaria al pieno sviluppo delle capacità commerciali toscane e della
propria famiglia.
Nei successivi venti anni la politica di Ferdinando
procede quindi su due piani paralleli, nei quali gli interventi in quanto
granduca non sono mai disgiunti dall'attività di affarista
internazionale. Tuttavia nel primo lustro di governo la precedenza è data
alla ricerca della stabilità interna.
Non appena ha in mano le redini,
Ferdinando rivoluziona l'amministrazione medicea. Dodici giorni dopo la morte
del fratello amplia la segreteria granducale introducendovi uomini fidati. In
genere, tuttavia, non espelle dagli organi dello stato i membri
dell'aristocrazia entrativi in precedenza, né il ceto burocratico
formatosi sotto il padre e il fratello. Fa invece in modo che nessun funzionario
possa muoversi senza che egli ne abbia sentore.
Il granduca infatti non vuole
soltanto il controllo a breve termine degli organi governativi, ma vuole
realizzare trasformazioni istituzionali tali da garantire il proprio potere
assoluto. In questa prospettiva riforma le magistrature dello stato di Siena
(1588), gli statuti delle arti della lana (1589), l'Ordine di Santo Stefano
(1590), gli statuti dei mercatanti (1592). Si tratta solo di ritocchi, ma
comunque mirati a indebolire le pretese e il raggio d'azione dei funzionari.
Contemporaneamente si impegna in una guerra senza quartiere al banditismo e
a qualsiasi spinta centrifuga. Crea nuove circoscrizioni giurisdizionali, quali
il Capitanato della Montagna dell'Amiata (1590), che in poco tempo gli
permettono di far accerchiare i banditi e cacciarli dalla Maremma senese, dalla
Val di Magra, dalla Bassa Lunigiana, dalla Romagna fiorentina, dalla montagna
pistoiese e dai confini con i feudi dei Malaspina e con i ducati di Parma e di
Modena. In cinque anni riconquista con le armi quella pace interna che il
fratello non era riuscito a salvaguardare e soprattutto garantisce la sicurezza
delle zone di confine, dove spesso banditi e aristocratici avevano operato di
conserva ai nemici di Firenze.
Il predominio militare non basta comunque al
granduca: egli infatti ritiene che una combinazione di costrizione e consenso
assicuri una maggiore stabilità e guadagni più sicuri. Per
impedire che il banditismo rinasca, Ferdinando affronta quindi il problema delle
carestie e tenta di aumentare la resa agricola della Toscana. Da un lato,
quindi, assicura l'approvvigionamento cerealicolo; dall'altro, punta a
migliorare la produzione agricola.
Per raggiungere il primo obiettivo
incrementa i commerci con l'Europa del Nord: già durante la carestia del
1590-1591 navi olandesi e inglesi scaricano a Livorno ingenti quantitativi di
grano. Il granduca scongiura così la fame e le sue inevitabili
ripercussioni sociali. Inoltre realizza lauti guadagni: un terzo delle
importazioni è infatti di sua proprietà personale. Negli anni
successivi accresce continuamente le importazioni e il proprio monopolio.
Conquista così il controllo di tutti i movimenti di cereali in Toscana e
nel primo decennio del secolo successivo non vi è più partita di
grano che non dipenda in qualche modo da lui.
Per incrementare la produzione
il granduca fa bonificare alcune aree paludose, in particolare la Val di Chiana,
la Maremma senese, la Valdinievole e la piana pistoiese. Nelle terre di sua
proprietà - Ferdinando è uno dei maggiori proprietari della
regione - bonifica fasce che sono poi coltivate a grano, oppure impianta risaie.
In tale contesto ingrandisce le ville familiari e le trasforma in centri di
raccolta e di controllo.
Attorno a Montevettolini, Artimino, l'Ambrogiana e
Poggio a Caiano si articolano le sue proprietà più importanti e
più dinamiche, che sono continuamente ampliate mediante donazioni
più o meno forzate. I beni dei cavalieri di S. Stefano di Altopascio
vanno, per esempio, ad aumentare i possessi medicei nella bassa Valdinievole e
sono amministrati dalla villa di Montevettolini.
La strategia granducale non
si ferma qui, ché, anzi, a partire dalle proprie ville Ferdinando cerca
di attuare il collegamento tra produzione sul luogo e mercato. Sempre a
Montevettolini l'ampliamento e la riorganizzazione della proprietà
medicea sono subito seguiti dalla creazione di una fiera settimanale. Questa a
sua volta comporta la costruzione di una loggia per i mercanti, l'allargamento
della strada e il miglioramento del sistema idrico.
Interventi simili sono
realizzati dovunque Ferdinando I voglia incrementare la resa agricola e
facilitare la commercializzazione di quanto prodotto. L'elenco dei lavori
pubblici compiuti in tal senso è degno di nota. In tutta la Toscana egli
fa curare la rete stradale e quella fluviale, il sistema idrico e persino quello
fognario. Tali lavori procedono sempre di pari passo con lo sviluppo
dell'agricoltura, anzi spesso quest'ultimo è previsto come corollario. La
risistemazione delle arterie Firenze-Pisa e Firenze-Pistoia è completata
dalla piantumazione di gelsi lungo la strada, in modo da garantire che la
produzione di seta toscana non dipenda soltanto dalle esportazioni. In
quest'ultimo caso il tentativo non riesce, ma più per la congiuntura
negativa dell'industria serica italiana che per un'errata conduzione da parte
degli uomini del granduca.
La strategia volta ad assicurare la pace e la
prosperità del granducato prevede anche un ruolo attivo nella politica e
nella diplomazia internazionale. In questo campo Ferdinando si rifà
spesso all'esperienza romana: del resto la città eterna, dove pure non
ritorna più, è sempre al centro dei suoi interessi. A Roma
mantiene uomini fidati e fa concludere o rafforzare accordi che hanno
ripercussioni europee. Inoltre nel primo decennio di governo egli tratta con
Roma, con Venezia e con Mantova per contrastare il predominio spagnolo in
Italia.
Al contrario del fratello, che si era alleato a Filippo II,
Ferdinando è convinto che la Spagna abbia fatto il suo tempo e quindi
opera in modo da sganciarsi dall'ingombrante alleato. In chiave antispagnola
egli cerca perciò sostegno in Francia, nonostante questa sia divisa dalle
guerre di religione. Grazie ai buoni uffici di Caterina de' Medici, sposa nel
1589 Cristina di Lorena. Nello stesso anno contatta inoltre Enrico di Navarra,
il futuro Enrico IV, che finanzia e assiste nell'ascesa al trono
francese.
Ferdinando cura con attenzione questo suo investimento politico ed
economico e fa comprendere al suo protetto che Firenze non è soltanto una
banca. Così nel 1591 fa occupare dalle sue navi il castello d'If, di
fronte a Marsiglia. Lo scopo dichiarato è quello di impedire che cada
nelle mani degli spagnoli. In realtà il castello è da lui
considerato un pegno della fedeltà francese: lo rende infatti soltanto
nel 1598, facendosi tra l'altro pagare profumatamente la restituzione.
Nel
suo gioco complicato, Ferdinando fa da tramite fra Roma e la Francia. Nel 1593
consiglia a Enrico IV di convertirsi al cattolicesimo e in seguito opera
affinché la conversione sia accettata dal papa. A tal fine organizza una
complicata partita di scambio. Clemente VIII infatti riconosce Enrico IV e
questi contraccambia appoggiando il pontefice in Polonia. In particolare
convince Sigismondo III Vasa, nuovo re polacco, dall'affidabilità di
Roma, nonostante che Annibale Di Capua, nunzio in Polonia, abbia sostenuto la
candidatura di Massimiliano d'Asburgo quale successore di Stefano
Bathòry.
La politica antiasburgica in Polonia non fa che ribadire la
posizione antispagnola del granduca. Nell'ultimo decennio del secolo si rivolge
persino all'Inghilterra, con la quale i mercanti toscani intrattengono da tempo
rapporti amichevoli. Ferdinando va tuttavia ben oltre i semplici scambi
commerciali e nel 1591 fa sapere alla regina Elisabetta la data di partenza
dall'Avana della flotta spagnola. Nel messaggio è anche specificato che
il carico è prezioso e che bisogna avvertire Francis Drake, il famoso
corsaro.
Anche con l'Inghilterra Ferdinando ricorre comunque a una politica
del bastone e della carota. Quando quattro navi pirate inglesi entrano nel
Tirreno senza previo avvertimento, il granduca le fa arrembare e sequestrare.
Gli inglesi possono associarsi a lui nella guerra di corsa, ma non devono
sottovalutarlo. D'altra parte è ben difficile considerarlo un semplice
uomo di paglia. Formatosi nella Curia romana, Ferdinando non punta mai su un
solo tavolo e interviene dovunque possa guadagnare qualcosa. In Polonia taglia
la strada agli Asburgo, ma nel 1594 finanzia la guerra contro i turchi
dell'imperatore Rodolfo II. Nel 1595 manda una spedizione in Transilvania per
aiutare Sigismondo Bathòry contro i turchi. Nel 1601 invia il
fratellastro Giovanni de' Medici in aiuto di Rodolfo II.
Queste precauzioni
si rivelano ben fondate. I termini della pace di Vervins (1598) tra Francia e
Spagna non piacciono al granduca, nonostante siano stati contrattati da un
membro della sua famiglia (vedi più avanti): Ferdinando teme infatti di
essere piantato in asso dall'alleato francese. Egli cerca dapprima di rafforzare
i legami con Enrico IV, cui dà in sposa Maria de' Medici, figlia di
Francesco I, il 5 ottobre 1600. Neppure un anno dopo, però, il re
francese cede ai Savoia il marchesato di Saluzzo, da tempo appetito da
Ferdinando I. Quest'ultimo giudica allora che la situazione si è fatta
troppo pericolosa, tanto più che la Spagna preme sui confini toscani:
Garcia di Toledo, vicerè di Napoli, fa costruire la fortezza di
Portolongone all'Elba e Filippo III fa occupare il feudo degli estinti Appiani
di Piombino. Nel 1602 Ferdinando sonda quindi la disponibilità del
monarca spagnolo, presso il quale fa valere l'assistenza finanziaria e militare
agli Asburgo nell'Europa orientale e al quale offre anche aiuto nelle
Fiandre.
Le trattative con la Spagna durano sei anni: infine il 28 giugno
1608 è siglato l'accordo e il futuro Cosimo II sposa Maria Maddalena
d'Austria. La Toscana rientra nell'orbita spagnola e Ferdinando ottiene
l'investitura del feudo di Pitigliano, cedutogli dagli Orsini nel 1606. Il
granduca è quindi caduto in piedi, ma il ribaltamento di alleanze non
è spiegabile solamente come reazione obbligata al mancato appoggio
francese. Ancora una volta Ferdinando guarda più avanti degli altri
regnanti della Penisola e nutre sogni inimmaginabili per i suoi contemporanei
italiani.
Nell'ultimo decennio del Cinquecento l'alleanza con la Francia gli
ha permesso di liberarsi dalla tutela spagnola e di trattare con l'Inghilterra.
Quest'ultima lo ha messo in contatto con i mercanti olandesi in lotta con la
Spagna e Ferdinando ha potuto limitare i danni della grande carestia del
1590-1591, proprio grazie al grano trasportato a Livorno dalle navi olandesi. Il
rapporto con l'Inghilterra è ora ben saldo e, una volta chiarite le
precedenze per la pirateria nel Mediterraneo, il granduca non disdegna di
spartire il bottino dei pirati inglesi.
Il bersaglio di queste azioni di
pirateria non sono tuttavia le sole navi spagnole, ma anche quelle turche.
Livorno non è soltanto un porto commerciale, ma anche la base della
flotta militare medicea, che viene potenziata da Ferdinando I in modo da
contrastare la supremazia ottomana. Inoltre egli affida ai cavalieri di Santo
Stefano la lotta contro navi e avamposti turchi.
Il distacco dalla Francia
rafforza gli intenti antiturchi e il primo decennio del Seicento vede un
crescendo di imprese militari e diplomatiche contro l'impero ottomano. Nel 1607
i cavalieri di Santo Stefano tentano di sbarcare a Famagosta e devastano Bona,
sulla costa nordafricana. Nel 1608 catturano al largo di Rodi 40 navi della
famosa Caravana d'Egitto. Inoltre Ferdinando allaccia rapporti con Giambulat,
pascià di Aleppo, e con Fakhr-ed-Din, principe dei Drusi di Siria,
fomentando la costruzione di un fronte avverso al Sultano.
In questo quadro
l'avvicinamento alla Spagna garantisce alla Toscana basi e sostegno nel
Mediterraneo. Offre inoltre uno sbocco oceanico alla flotta medicea, che inizia
ad affacciarsi sulla costa atlantica dell'Africa. Nel 1604 firma un trattato con
il re di Fez e ottiene il libero uso del porto atlantico di Larache, che diviene
la base per il contrabbando toscano nel Brasile. Nel 1608 il granduca si
interessa addirittura alla possibilità di colonizzare la Sierra Leone.
Nel contesto di questi traffici su scala mondiale il porto franco di Livorno
conosce uno sviluppo rapidissimo, diventando una piattaforma di interscambi tra
il Levante e l'Europa, tra l'area mediterranea e quella atlantica. Le stesse
franchigie commerciali o religiose (in difesa dei protestanti, degli Ebrei e
persino dei "mori") trasformano il piccolo porto nel terminale delle grandi
correnti dei traffici internazionali. Nel 1605 le navi che vi attraccano sono
quintuplicate rispetto al 1578. Contemporaneamente cresce anche la potenza
economica di Ferdinando che agli inizi del secolo controlla ormai il mercato
internazionale dei grani. E' universalmente noto come uno degli uomini
più ricchi di tutto il continente europeo e opera al centro di una rete
di corrispondenti (soci, fattori, informatori, vere e proprie spie) che si
estende dall'Europa centro-orientale all'Inghilterra, dalla penisola iberica
alle Americhe, dall'Italia al Levante e alle Indie orientali.
Nel 1600
Bartolomeo Cenami stima a 300.000 scudi annui le entrate granducali, frutto del
commercio, ma anche di imprese meno lecite. Tra queste vi è sempre la
guerra di corsa e infatti Ferdinando continua a finanziare l'arrembaggio inglese
ai galeoni spagnoli. Ormai, però, il granduca ha mire ancora più
alte: non vuole più raccogliere le briciole della colonizzazione del
Nuovo Mondo, ma desidera partecipare direttamente alle imprese coloniali e
imitare le compagnie commerciali inglesi. Nella scia della compagnia della
Moscovia entra in contatto con lo zar Boris Godunov, inoltre inizia a pensare
alle Indie Occidentali e a quelle Orientali.
Già ai tempi della
Tipografia Orientale a Roma, Ferdinando aveva chiesto a Filippo Sassetti
informazioni sull'India. Nel 1606 riprende questa idea e convoca Francesco
Carletti, che rientra a Firenze dopo un giro del mondo iniziato nel 1591.
Carletti narra le sue peripezie al granduca ed è incaricato di studiare
la possibilità che Livorno diventi un centro di traffici con l'Estremo
Oriente. L'India e il Giappone si rivelano, però, fuori della portata
toscana; Ferdinando si volge allora alle Indie Occidentali, contando di
sfruttare i buoni rapporti con Spagna e inghilterra. Nel 1604 chiede al suo
ambasciatore a Madrid ragguagli sulla Nuova Spagna e sul Perù, dove
vorrebbe ottenere feudi per i figli minori.
Il 30 agosto 1608 Baccio da
Filicaia gli invia una lettera da Lisbona, nella quale è ricostruita la
storia della conquista portoghese del Brasile. Neanche un mese più tardi
una caravella e una tartana sono armate a Livorno e sono affidate al capitano
Robert Thornton, giunto in quel porto tre anni prima rimorchiando una preda di
guerra. Il viaggio è preparato con cura e Ferdinando fa chiedere a Robert
Dudley, che ha visitato l'Amazzonia nel 1595, una mappa e istruzioni per
Thornton. Dudley consiglia a quest'ultimo di cercare l'oro sulle rive del Rio
delle Amazzoni e dell'Orinoco. Ferdinando più prosaico fa caricare balle
di merci e pensa alla possibilità di un avamposto commerciale brasiliano.
Thornton approda in Guyana e in Brasile, esplora i due fiumi e visita anche la
Caienna e Trinidad. Rientra infine il 12 luglio 1609 a Livorno, ma il 7 febbraio
di quell'anno Ferdinando I è deceduto e il capitano inglese non trova
nessuno cui riferire la sua avventura.
Alla sua morte Ferdinando è
celebrato soprattutto per aver salvaguardato i sudditi dalla fame. L'intera
popolazione toscana infatti dipende ormai dai rifornimenti granducali.
Ferdinando ha ottenuto così un duplice risultato: ha avuto in pugno i
suoi sudditi ed è divenuto uno dei più grandi uomini d'affari
d'Europa. Tuttavia non si è fermato qui e, unico fra i principi italiani,
ha sognato di trasformare la Toscana in una vera potenza internazionale. Potenza
commerciale e marittima, in grado di trattare da pari a pari con l'impero
spagnolo e con quello ottomano e soprattutto capace di fuoriuscire dal
Mediterrano.
Alessandro de' Medici nasce a Firenze il 2 giugno 1536 in un ramo
collaterale della famiglia ducale. Sembra che, rimasto orfano di padre, sia
affascinato dall’insegnamento del domenicano Vincenzo Ercolani. La madre,
temendo che l’unico figlio maschio entri in religione, per giunta in
ambiente ancora intriso del ricordo di Savonarola, chiede aiuto a Cosimo I,
cugino in secondo grado del giovane. Il duca se lo tiene vicino, ma non vuole
immischiarsi nelle scelte del parente.
Nel 1560 Alessandro accompagna il duca
a Roma e si ferma dal cugino Giovanni Battista Salviati, che lo presenta a
Filippo Neri, dal quale è molto colpito. Rientrato a Firenze prosegue a
frequentare la corte e ambienti religiosi. La madre spira nel 1566, lasciandolo
libero di disporre della propria esistenza. Alessandro decide quindi di prendere
gli ordini con il consenso di Cosimo I, del cardinal Francesco Salviati e di
Antonio Altoviti, arcivescovo di Firenze.
E' ordinato sacerdote da Altoviti
il 22 luglio 1567 e nello stesso anno è nominato da Cosimo I cavaliere di
S. Stefano. Si ritira poi nelle vicinanze di Firenze, ma il duca lo richiama per
designarlo ambasciatore a Roma, il 10 giugno 1569, desiderando avere qualcuno
della famiglia accanto al cardinal Ferdinando. Alessandro non conosce,
però, l’ambiente romano e Francesco de' Medici si preoccupa di
raccomandarlo alla benevolenza di Guglielmo Sirleto. Inoltre è posto
sotto la protezione del cardinale Francesco Pacheco, che, assieme a Michele
Bonelli, lo presenta a Pio V, cui il fiorentino fa buona impressione. Inizia
così sotto i migliori auspici una permanenza destinata a durare sino al
febbraio 1584. E' nominato protonotario apostolico il 20 giugno 1569 e si deve
subito mettere all’opera per giustificare la posizione della Corona
francese nella guerra di religione in corso. Il 3 agosto di quell’anno
segnala al duca che il papa è mal disposto verso il re francese,
perché quest’ultimo non ha schiacciato gli ugonotti dopo la
vittoria di Jarnac.
In quei primi anni deve soprattutto affrontare gli
attacchi spagnoli alla politica filofrancese di Firenze. Tale opposizione
cresce, quando Cosimo I tenta di far avere a Caterina de’ Medici la
dispensa per il matrimonio di Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV, e
Margherita di Valois, sorella di Enrico III. Il 28 agosto 1571 Alessandro
de’ Medici, su consiglio di e accompagnato da Antonio Maria Salviati, si
presenta a Pio V, sollecitandone l’intervento, ma in questo e in
successivi incontri il papa dichiara di essere disposto ad acconsentire solo se
il Navarra e l’ammiraglio Gaspard di Coligny si convertono.
In quei
mesi l’ambasciatore fiorentino a Roma, coadiuvato anche dal suo omologo in
Francia, Giovanni Maria Petrucci, si adopera per scalzare il nunzio pontificio a
Parigi, Flavio Mirto Frangipani. Questi è infatti ritenuto il principale
ostacolo al matrimonio in questione e Alessandro ritiene che sia lui ad aver
convinto il papa a tenere duro, persino di fronte alle minacce di scisma
ventilate da Caterina de’ Medici. Petrucci diffonde quindi la voce che
Frangipani è uomo dei Guisa e di Filippo II; Alessandro de’ Medici
fa sapere alla Curia romana che lo stesso è invece troppo legato a
Caterina de’ Medici per badare agli interessi del papa e che avversa
Firenze perché del partito di Ferrara. Le accuse sono troppo disparate,
ma i fiorentini vogliono allontanare ad ogni costo il loro avversario.
D’altronde nel loro gioco entra pure il tornaconto privato: Antonio Maria
Salviati conta infatti di prendere il posto di Frangipani. Alessandro spera
invece di minare la credibilità degli inviati spagnoli, tanto più
che il papa tiene i fiorentini all’oscuro di quanto discusso nella Lega
antiturca. Entrambe le manovre falliscono, quando la vittoria di Lepanto
rafforza la posizione spagnola e riduce il credito fiorentino in Curia. Il 19
ottobre Alessandro de’ Medici deve così rivelare al duca che la
fiducia del pontefice in Frangipani è solidissima.
In questa prima
fase della sua carriera, Alessandro è molto legato al cardinal Ferdinando
de' Medici, con il quale ha una consuetudine quotidiana. Tuttavia il suo maggior
referente romano resta Filippo Neri, con il quale riannoda i contatti non appena
arrivato a Roma. L’ambasciatore mediceo diviene allora ospite abituale
dell’Oratorio e si lega fortemente a quell’ambiente, tra
l’altro molto favorevole alla Francia.
I suoi primi passi non gli
valgono la confidenza granducale, né quella del cardinale Ferdinando e,
quando muore Pio V, Cosimo invia a Roma Bartolomeo Concini, suo primo
segretario, e Belisario Vinta. Concini alloggia presso l'ambasciatore, ma, a
dire di quest’ultimo, non tiene conto dei suoi suggerimenti. Alessandro
de' Medici non cerca di imporsi, tanto più che spera come il duca
nell'elezione del cardinale Ugo Boncompagni. Utilizza quindi le proprie
conoscenze per coadiuvare gli sforzi di quello che sarebbe divenuto Gregorio
XIII e boicottare la campagna avversa condotta dal cardinal Farnese.
Dopo
l’elezione sia Concini, sia Ferdinando de' Medici si attribuiscono ogni
merito: in particolare il cardinale di casa Medici si dice sicuro della
riconoscenza del nuovo pontefice. Alessandro, relegato in secondo piano,
è meno convinto della possibilità di avvantaggiarsi
dell’ascesa di Gregorio XIII e sfrutta la propria amicizia con Diomede
Leoni, vecchio e astuto curiale, per entrare in contatto con Matteo Contarelli,
il nuovo datario. Ha così un accesso privilegiato al pontefice, che gli
conferma stima ed amicizia. Tale favore gli torna presto utile, quando si apre
la successione alla diocesi pistoiese: Ferdinando infatti non vede di buon
occhio la nomina del cugino e cerca di dissuaderlo. Ad Alessandro pare invece
un’ottima occasione, che gli potrebbe permettere di abbandonare la
posizione di ambasciatore e di sfuggire alle sfuriate di Firenze e del cardinale
de’ Medici. Con l'appoggio pontificio riesce quindi a farsi nominare
vescovo di Pistoia il 9 marzo 1573.
Medici deve comunque rimanere a Roma, ma
governa la diocesi tramite Bastiano de’ Medici e fa applicare i decreti
tridentini, in particolare costringe i parroci a rispettare l’obbligo di
residenza. Ha, però, poco tempo per occuparsi di Pistoia. Il 27 dicembre
1573 Francesco de’ Medici scrive infatti a Gregorio XIII, comunicandogli
la grave malattia di Altoviti, l’arcivescovo di Firenze. Due giorni dopo
ne annuncia la morte e sottolinea che Cosimo I avrebbe accolto con piacere la
nomina di Alessandro. Il 4 gennaio 1574 il cardinale Tolomeo Galli risponde a
nome del papa che a Roma tutti concordano con la scelta del duca.
In
realtà il cardinale Ferdinando de’ Medici non è affatto
d’accordo, tanto più che ormai considera Alessandro non soltanto
come il controllore impostogli dal padre e dal fratello, ma anche come un
pericoloso concorrente. Ancora una volta, però, la volontà
granducale trova riscontro nel rapporto privilegiato tra l’ambasciatore
fiorentino e Gregorio XIII: il 15 gennaio 1574 Alessandro è quindi
traslato da Pistoia a Firenze. Anche in questo caso è obbligato a restare
a Roma, tuttavia amministra senza problemi la diocesi, utilizzando sempre
Bastiano de' Medici come vicario. In particolare si preoccupa della riforma del
clero regolare e di quello secolare e già nel 1575 promuove una visita
pastorale, condotta da Paolo Ceccarelli, cancelliere pistoiese.
Il suo
governo a distanza, pur apprezzato da molti, non è, però, esente
da critiche: ciò soprattutto perché il nuovo arcivescovo e i suoi
uomini entrano in conflitto con i canonici della cattedrale, dei quali non
rispettano i privilegi, e soprattutto con l’ambiente nutrito di ideali
savonaroliani. Su questa opposizione Medici si dilunga in due lettere del 1583 a
Francesco I, nelle quali sottolinea come i suoi avversari mirino a indebolire
l’autorità ecclesiastica e quella granducale. In questo scontro
Medici ha l’appoggio di papi e granduchi, nonché quello della Curia
generale dei Domenicani: nel gennaio 1585 Sisto Fabbri, generale
dell’Ordine, conduce una visita per stroncare l’opposizione
all’arcivescovo. Tuttavia non riesce a impedire il ricorrere delle
polemiche e il protratto braccio di ferro con oppositori che sono profondamente
radicati nella città e nella Chiesa fiorentine.
Nel frattempo
Alessandro utilizza la relazione tra Francesco I de’ Medici e Bianca
Cappello, per guadagnarsi la fiducia del primo. Naturalmente ciò aggrava
il suo dissenso con Ferdinando, il quale mette in giro la voce che
l’ambasciatore-arcivescovo non si preoccupa più del benessere della
propria città, ma mira soltanto al cardinalato. Ferdinando inoltre cerca
di imporsi come mediatore tra Alessandro e i canonici della cattedrale di
Firenze, a tutto svantaggio del primo, tanto che alla fine deve intervenire
Gregorio XIII in difesa del presule. Nonostante l’opposizione del potente
cugino, Alessandro ottiene comunque il cappello cardinalizio il 12 dicembre
1583.
A più riprese Medici ha tentato di abbandonare Roma: la
lontananza dalla sede episcopale è infatti in evidente contraddizione con
i principi che difende, come gli fa notare nel 1582 Carlo Borromeo. Tuttavia nel
1583 Gregorio XIII gli dice esplicitamente che non può abbandonare la
città eterna senza il consenso granducale. Questo infine giunge e il 12
maggio 1584 l’arcivescovo prende possesso della sua diocesi. La sua
attività riformatrice diviene ancora più veemente e culmina nel
sinodo del 1589. In esso e grazie ad esso l’arcivescovo cerca di
ridelineare la figura morale del sacerdote in generale e del parroco in
particolare. Ribadisce inoltre l’importanza dell’Indice dei libri
proibiti e impone uno strettissimo, ma di fatto spesso disatteso, controllo
sulle botteghe librarie.
Medici passa il resto degli anni 1580 nella sua
diocesi, dove diviene un punto di riferimento per i nunzi pontifici a Firenze.
D’accordo con il granduca Ferdinando I, succeduto al fratello, opera per
rivalutare il passato religioso della città, tramite la ricognizione
delle reliquie dei santi, e contribusce all’introduzione delle Quaranta
Ore.
Non abbandona comunque lo scenario romano, anzi rafforza i suoi
contatti, cosicché il cardinal Alessandro Peretti, pronipote di Sisto V,
lo presenta come papabile nel conclave che elegge nel 1590 Niccolò
Sfondrati (Gregorio XIV). E' riproposto anche nel 1591, quando la ferma
opposizione spagnola gli fa preferire Gian Antonio Facchinetti (Innocenzo IX).
In questa circostanza Alessandro decide di appoggiare il proprio avversario,
scatenando le ire di Ferdinando I, cui il cardinale risponde duramente di non
essere il suo "schiavo".
Dal 1590 Alessandro vive stabilmente a Roma e la
sua posizione diviene centrale sotto Clemente VIII, che lo ascrive alle
Congregazioni dei Riti e delle Strade e lo fa partecipare, come Alessandro
spiega a Ferdinando I il 30 maggio 1592, "a tutte le cose di fabbrica e di
palazzo e di suore". Da Roma comunque preme sul cugino, perché appoggi la
riforma dei monasteri, soprattutto femminili. In cambio il cardinale agisce
nuovamente da intermediario fiorentino nella città eterna. Così
nel 1592 tratta con Clemente VIII per la riduzione della manomorta ecclesiastica
nello stato mediceo, ma il papa resta fermo sulla sua posizione e il cardinale e
il granduca non sanno dargli torto, pur sperando in un qualche contenimento
delle sue pretese.
Alessandro de' Medici riprende inoltre a interessarsi
delle questioni francesi, spinto da Ferdinando I e da Filippo Neri. In
particolare utilizza il suo ascendente per chiedere al papa di assolvere dalle
censure Enrico IV di Francia, convertitosi a Saint-Denis il 25 luglio 1593. Il
pontefice è favorevole a un’apertura alla Francia, ma teme la
reazione spagnola: Medici lo conforta e contemporaneamente guida abilmente il
cardinale Jacques Davy Du Perron, venuto a Roma per difendere la causa del suo
sovrano. Clemente assolve il re francese il 17 settembre 1595, nel corso di una
fastosa cerimonia.
E' quindi inevitabile che il pontefice pensi al cardinale
de’ Medici, quando si prospetta la necessità d’inviare in
Francia un legato affiancato dal nunzio Francesco Gonzaga. Alessandro non
è particolarmente contento per la nomina, ma fa in modo di ottenere in
cambio numerosi benefici.
La sua missione ha fini ad un tempo diplomatici
(ricerca della pace fra Spagna e Francia per organizzare una crociata contro i
turchi ed allontanare la Francia dall’Inghilterra e dall’Olanda) e
religiosi (restaurare la religione cattolica e appianare le situazioni
irregolari provocate dalla vacanza di numerosi seggi episcopali). Per ottenere
questo secondo scopo il legato deve far ratificare a Enrico IV l’atto
d’abiura e ottenere la pubblicazione dei decreti tridentini e il rientro
degli Ordini religiosi in Francia. Entrambi gli obiettivi stanno particolarmente
a cuore al papa, che spesso sostituisce il nipote Pietro Aldobrandini nel
valutare la situazione e rispondere alle lettere del suo inviato, come mostrano
le annotazioni di suo pugno.
Medici parte da Roma l'11 maggio 1596 con un
seguito di oltre 200 persone. Si ferma a Firenze il 17 maggio e il granduca lo
vuole ospitare a palazzo Pitti. Il 6 giugno è invece ospite di Carlo
Emanuele I di Savoia, che gli rivela la sua stanchezza per il continuo
guerreggiare, ma adombra anche il sospetto che Medici porti l’oro di
Ferdinando I a Enrico IV.
A causa della peste il legato non può
passare per Chambery e il 15 giugno prende la strada per il colle del
Monginevro: il 22 è a a Lione e il 16 luglio a Montlhéry, dove gli
viene incontro il re. Il 21 si rimette in marcia per Parigi, dove entra
solennemente. Nel frattempo è scoppiata la polemica sulle sue
facoltà: il re ha ovviamente dato il suo placet, ma il Parlamento
parigino non vuole accettare i riferimenti al Concilio di Trento nelle bolle
papali. Il legato fa allora sapere che non accetta clausole restrittive. La
registrazione e la pubblicazione delle facoltà avviene infine con
riserva. Comunque il re continua a esprimere pubblicamente il suo favore e il 19
agosto 1596 firma l’atto solenne della propria riconciliazione con la
Chiesa.
Alessandro de' Medici rimane ancora due anni in Francia. In questo
periodo non risede sempre a Parigi. Dall’8 dicembre 1596 al 2 febbraio
1597 soggiorna a Rouen assieme alla Corte; dall’ottobre 1597 al giugno
1598 si reca in Piccardia, dapprima a Saint-Quentin e poi a Vervins, dove si
sposta la conferenza che deve portare alla pace omonima. Nel frattempo il papa
decide d'inviare anche Bonaventura Secusi da Caltagirone, generale dei Minori
osservanti, per coadiuvare gli sforzi del legato. Il francescano si preoccupa di
tenere i contatti fra Enrico IV, Filippo II e il cardinale-arciduca Alberto
d’Austria, governatore dei Paesi Bassi. Intanto Medici, le cui
facoltà sono state ampliate nel giugno 1597, risolve le questioni
d’etichetta e di precedenza e mette d’accordo i plenipotenziari
spagnoli e francesi. In particolare presiede senza segni visibili di cedimento,
nonostante i sessantatré anni sonati, i negoziati che si susseguono dal 9
febbraio al 2 maggio 1598.
Una volta firmata la pace il cardinale e gli
ambasciatori si attardano sino alla fine di maggio a Vervins, quindi Alessandro
de’ Medici rientra a Parigi, dopo aver incontrato il re ad Amiens. La sua
entrata parigina è trionfale, ma il 5 maggio Enrico IV dichiara a
Francesco Bonciani, rappresentante fiorentino, di essere soddisfattissimo di
quel che ha fatto il legato, ma anche di non aver intenzione
d’accontentarlo per quanto riguarda l’applicazione dei dettami
tridentini e il ritorno degli Ordini in Francia. In effetti il re non vuole
inimicarsi il parlamento di Parigi. Inoltre Gabriella d’Estrée, la
sua amante ufficiale, teme le manovre di alessandro a pro’ di un
matrimonio che unisca la Corona francese e i Medici.
Il cardinale ha
dubitato sin dall’inizio di ottenere tutto quel che Clemente VIII si
aspettava: è stato infatti negativamente sorpreso per la resistenza del
Parlamento e per l’accordo tra cattolici e protestanti. Ora la situazione
gli pare peggiorata e in luglio confessa a Francesco Contarini, ambasciatore
veneziano, di sperare soltanto in un pronto rientro a Roma: desiderio che
d’altronde nutre almeno dalla fine dell’anno precedente. In agosto
il re lo invita infine a prendere la strada del ritorno, anche se poi
nell’ultima udienza (1o settembre) cerca di addolcire i
contrasti. Il legato, riflettendo sulla propria permanenza francese, commenta il
14 settembre che ha fatto quanto poteva, o meglio tutto quello che il re aveva
auspicato che lui facesse: le cose, per il resto, non erano come si sperava a
Roma, ma non erano neanche senza speranza.
Il 9 settembre Medici è a
Digione, il 13 a Mâcon, il 30 a Thonon. Passa quindi per Lione, il passo
del Sempione, la val d’Ossola, il lago Maggiore e Piacenza. Raggiunge
infine Clemente VIII a Ferrara, dove è ricevuto in concistoro il 10
novembre 1598. Il pontefice non soltanto lo loda, ma ne scrive anche al re di
Francia; inoltre lo designa prefetto della Congregazione dei vescovi.
Una
volta a Roma, Alessandro non abbandona le trattative francesi e continua ad
adoperarsi perché Enrico IV sposi Maria de’ Medici, figlia di
Francesco I. Questa iniziativa gli è già valsa le critiche del
nunzio Gonzaga e di Orazio Ruccellai, che hanno scritto al cardinale Pietro
Aldobrandini per sottolineare quanto la lentezza dell’operato di Medici
sia legata al suo desiderio di sistemare gli affari di famiglia. Adesso si
dà da fare per far sciogliere il matrimonio di Enrico IV ed è
proprio lui a presiedere il 10 settembre 1599 la congregazione cardinalizia che
permette al re francese di risposarsi. Nel frattempo (aprile 1599) Gabriella
d’Estrées è morta ed è più facile convincere
il sovrano a sposare Maria de’ Medici. A sottolineare il ruolo del
cardinale i due sposi gli chiedono nel 1602 di battezzare il futuro Luigi XIII,
ma egli rifiuta temendo di offendere i congiunti filospagnoli di Clemente
VIII.
In effetti l’anziano cardinale vuole capitalizzare la sua
influenza romana. Il 30 agosto 1600 è stato designato cardinale vescovo
di Albano e il 17 giugno 1602 di Palestrina; intanto si riparla di lui come
papabile, grazie anche agli ottimi rapporti con Alessandro Peretti e Pietro
Aldobrandini, nipote del papa regnante. Nel frattempo non abbandona la cura a
distanza della sua diocesi e prosegue a interessarsi della riforma dei
monasteri, come mostra il suo Trattato sopra il governo dei
monasteri.
Il peggiorare della salute di Clemente VIII spinge intanto le
grandi potenze a preparare la futura elezione. Il 28 ottobre 1604 Enrico IV di
Francia esorta i suoi cardinali a tenersi uniti in caso di conclave e ad
appoggiare il suo "congiunto" Alessandro de' Medici oppure Cesare Baronio, amico
fedele della Francia. Il 7 marzo 1605 il re torna sulla questione, prospettando
al cardinal François Joyeuse la possibilità di comprare l'appoggio
di Pietro Aldobrandini e il 16 ripete allo stesso che gli raccomanda "sur toutes
choses le cardinal de Florence". Da tempo invece la Spagna avversa la
candidatura del Medici. Filippo III e i suoi consiglieri sperano infatti in
Tolomeo Galli, settantanovenne ispanofilo facilmente condizionabile.
Alla
morte di Clemente VIII il Sacro Collegio è composto da sessantanove
cardinali, di cui cinquantasei italiani, sei francesi, quattro spagnoli, due
tedeschi e uno polacco. Nove non partecipano al conclave, aperto il 14 marzo
1605, e i restanti sono divisi in numerosi partiti. Gli uomini del cardinal
Peretti si avvicinano agli spagnoli e Aldobrandini porta i suoi a fianco dei
francesi. Nel conclave si discutono ben ventuno nomi di papabili, più di
un terzo dei presenti. In realtà, però, i veri candidati sono
Medici e Baronio. Gli Spagnoli ovviamente li avversano, ma verso il secondo
nutrono un tale odio che non sanno fermare l’avanzata del primo. Questi
è infatti abile a difendere il collega e a sfruttare l’occasione
per screditare il partito spagnolo. Infine, come d’altra parte si pensava
da tempo, Peretti si dichiara disposto a far convergere su di lui i suoi voti e
il cardinale di Firenze supera i due terzi dei voti nella notte tra l'1 e il 2
aprile. Ascende così al Soglio con il nome di Leone XI.
Una delle
prime e delle poche questioni di cui si occupa durante i 27 giorni del suo
pontificato è l'appoggio degli imperiali in Ungheria contro i Turchi. Al
proposito si dichiara, per il tramite del cardinal Ludovico Madruzzo, pronto a
portare soccorso, anche se le casse della Santa Sede sono esauste. Una
Congregazione dei cardinali per gli affari ungheresi delibera in tal senso il 13
aprile 1605. Inoltre, conformemente alla capitolazione elettorale, Leone XI
convoca una Congregazione cardinalizia per riformare il conclave: vuole infatti
abolire l'uso di eleggere il pontefice mediante l'adorazione pubblica,
sostituendola con la votazione segreta. La notizia sorprende i testimoni,
soprattutto francesi, che vi vedono un modo per liberare il partito
aldobrandiniano dal controllo del suo leader, ma anche per rimettere in gioco
gli spagnoli. Altre sorprese attendono i francesi: il papa non si considera
infatti creatura di Enrico IV e comunica al marchese di Villena, ambasciatore
spagnolo, che il re di Spagna ha trovato in lui un amico.
Il suo pontificato
è comunque troppo breve per giudicare quale avrebbe potuto esserne il
corso. Di fatto l’aspetto maggiore del suo brevissimo regno sono i
festeggiamenti, che hanno luogo a Roma e Firenze. Proprio durante la presa di
possesso del Laterano Leone XI prende freddo e cade preda della malattia che lo
porta alla morte dieci giorni dopo. La sua dipartita provoca molto cordoglio a
Roma, Firenze e in Francia.
Per la bibliografia su Anna d'Este, si confronti la nota in calce alla mia
voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLIII. Alle opere ivi
citate si possono aggiungere: Anne Puaux, La huguenote Renée de
France, Paris, Hermann, 1998; il già citato Jean-Marie Costant,
Les Guise, Paris, Hachette, 1984; e il romanzesco Emmanuel Bourassin,
L'assassinat du duc de Guise, Paris, Perrin, 1994.
Per la carriera
avignonese di Domenico Grimaldi, si veda il mio La vicelegazione di Avignone
come tappa della carriera di alcuni curiali romani. appunti per una ricerca,
in Il buon senso o la ragione? Miscellanea di studi in onore di Giovanni
Crapulli, a cura di Nadia Boccara - Gaetano Platania, Viterbo, Sette
Città, 1997, pp. 267-276. Per la sua lotta al banditismo, cfr. Irene
Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello stato
pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma, Edizioni
dell'Ateneo, 1985. Per la sua biografia e in particolare per Lepanto e Avignone
ho utilizzata la documentazione nell'Archivio Segreto Vaticano, soprattutto
quella della Legazione di Avignone, delle Lettere di soldati e delle Lettere di
vescovi.
Per la biografia di Ferdinando de' Medici, rimando a Mario e Matteo
Sanfilippo, Profilo biografico d'un cardinale di Santa Romana Chiesa poi
Granduca di Toscana: Ferdinando de' Medici, in Fondazione RomaEuropa,
Roma Europa, la piazza delle culture, Roma, Presidenza del Consiglio dei
Ministri, 1991, pp. 78-101, ed Elena Fasano Guarini, Ferdinando I de'
Medici, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLVI. Per la
sua vita romana, leggi anche Alberto Tinto, La tipografia medicea
orientale, Lucca, Pacini Fazzi, 1987; AA.VV., La Villa
Médicis, Rome, École Française de Rome, 1991; Stefano
Calonaci, Ferdinando dei Medici: la formazione di un cardinale principe
(1563-1572), "Archivio Storico Italiano", 570 (1996), pp. 635-690; Elena
Fasano Guarini, "Roma officina di tutte le pratiche del mondo": dalle lettere
del Cardinal Ferdinando de' Medici a Cosimo I e a Francesco I, in La
corte di Roma tra Cinque e Seicento. "Teatro" della politica europea, a cura
di Gianvittorio Signorotto e Maria Antonietta Visceglia, Roma, Bulzoni, 1998,
pp. 265-297. Sullo scandalo con Clelia Cesarini è ricco d'informazioni
Roberto Zapperi (La leggenda del papa Paolo III. Arte e censura nella Roma
pontificia, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 104-106, e Farnese,
Clelia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV). Si consideri
che l'Archivio Segreto Vaticano, la Biblioteca Apostolica Vaticana e l'Archivio
di Stato di Firenze, fondo Mediceo del Principato, contengono molto materiale
non ancora pienamente sfruttato. Personalmente ho utilizzato qualche lettera
della Biblioteca vaticana e qualche documento fiorentino.
Per il quadro
storico, nel quale agisce Ferdinando I una volta granduca, si consulti Furio
Diaz, Il granducato di Toscana. I Medici, Torino, Utet, 1979; Giovanni
Cipriani, Il mito etrusco nel rinascimento fiorentino, Firenze, Olschki,
1980; AA.VV., Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del '500,
Firenze, Olschki, 1983; Anna Maria Pult Quaglia, "Per provvedere ai popoli".
Il sistema annonario nella Toscana dei Medici, Firenze, Olschki, 1990;
Matteo Casini, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in
età rinascimentale, Venezia, Marsilio, 1996. Alessandro Baragona,
Ferdinando I de' Medici tra Mediterraneo e Atlantico, "Miscellanea di
Storia delle Esplorazioni", VIII (1983), pp. 71-99, e Leonardo Rombai,
Attività marinare e aspirazioni coloniali toscane nel Nuovo Mondo al
tempo di Ferdinando I de' Medici (1587-1609), in Momenti e problemi della
geografia contemporanea. Atti del Convegno Internazionale in onore di Giuseppe
Caraci, Roma, Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici, 1995, pp.
409-425, studiano le imprese finanziate dal granduca sulle coste dell'Atlantico.
Caterina Volpi, Meraviglie misteriose dell'Est, "Ars", II, 10 (ottobre
1999), pp. 110-113, accenna alle sue curiosità verso l'Estremo Oriente.
Rita Mazzei, A proposito di un lucchese al servizio dei Vasa nella seconda
metà del Cinquecento: corrispondenza di Lorenzo Cagnoli con Francesco I e
Ferdinando dei Medici, "Actum", 19 (1990), pp. 87-109, fornisce notizie sui
suoi interessi nell'Europa centrale. Per i suoi rapporti con l'impero, si
guardino le lettere nell'Archivio di Stato di Firenze, nel già citato
fondo Mediceo del Principato, e le copie in Biblioteca Apostolica Vaticana,
Manoscritti, Fondo Patetta, ms. 2193.
Per la bibliografia su Alessandro de'
Medici, vedi le indicazioni nella mia voce sull'Enciclopedia dei Papi,
III, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000. Le fonti archivistiche
sono copiosissime e poco sfruttate. Da ricordare quelle vaticane (Archivio
Segreto e Biblioteca Apostolica) e quelle fiorentine (Archivio di Stato, fondo
Mediceo del Principato, e Biblioteca Marucelliana), ma anche la Vita del
cardinale di Firenze [...] insino al tempo che fu mandato in Francia
[...] (Roma, Biblioteca Casanatense, cod. 4201): tutte quante utilizzate per
questo testo. La permanenza in Francia ha lasciato una documentazione
altrettanto vasta, in particolare cinque registri di suppliche e tre di bolle
alla Biblioteca Nazionale di Parigi nel fondo Manuscrits latins, oltre a
vari materiali nel fondo Manuscrits français della
stessa.