Matteo Sanfilippo, Ma da Genova e dall'Italia si fuggiva solo in Argentina?
© 2003, The Vatican Files.net e "Il Secolo XIX"

 Da decenni gli storici argentini protestano perché il loro paese è l'unico ad essere accusato di aver ospitato criminali di guerra, mentre, a loro dire, anche gli altri paesi sudamericani hanno ospitato e utilizzato ufficiali e scienziati nazisti. In effetti non hanno tutti i torti: il Cile, in continua frizione con l'Argentina peronista, non si è fatto mai mancare la possibilità di reclutare tecnici tedeschi, pur se dal dubbio passato, e Bolivia, Brasile e Paraguay hanno ospitato alcuni dei nazisti rintracciati nel secondo Novecento.

Non soltanto i processi delle ultime decadi, ma anche le grandi inchieste giornalistiche spingono in effetti oltre ad allargare lo spettro geografico della ricerca sulla diaspora nazista e/o collaborazionista nel secondo dopoguerra. Se i tedeschi e i croati, imbarcatisi a Genova, sono stati rintracciati in America Latina, gli ucraini e altri collaborazionisti sono stati identificati in Canada e Stati Uniti, o in Gran Bretagna e in Australia. Molti erano ex-soldati nazisti, caduti in mano anglo-americana e riciclati per sostituire i caduti delle formazioni polacche che avevano accompagnato gli Alleati in Italia. Non pochi sono quindi restati nei campi e negli ospedali italiani, prima d'imbarcarsi a Genova, una volta attestato il proprio impegno antinazista, sebbene assai recente.

Su queste vicende è stato scritto parecchio, anche perché i processi nei paesi di lingua inglese hanno attirato molta attenzione. In alcuni casi è riemerso un boia sanguinario nascostosi nella routine di un tranquillo immigrato; in altri l'accusato è riuscito a dimostrare che si trattava di un caso di omonimia o di un riconoscimento non accurato. In tutti la copertura della stampa è stata notevole e ha suscitato dibattiti di rara violenza: ancora oggi i siti web delle comunità ucraina e croata in Canada e negli Stati Uniti protestano contro quello che considerano mero accanimento contro di loro. Molte di quelle pagine accusano, però, i "comunisti" e gli "ebrei" di aver organizzato questo ennesimo "complotto" ai loro danni e così ispirano il dubbio che le accuse contro i supposti collaborazionisti non siano poi così campate in aria.

I documenti disponibili in Italia, non offrono prove per identificare singoli criminali, ma indicano percorsi e desiderata della massa che ha transitato attraverso la Penisola. Possiamo in primo luogo vedere cosa accadeva nei campi italiani del dopoguerra. E, per circoscrivere il bersaglio iniziamo dal già discusso campo di Fossoli, dove furono reclusi ex-militari nazisti e ustascia croati, sul quale il prefetto di Modena scrisse un lungo rapporto il 10 settembre 1946, oggi nell'Archivio Centrale dello Stato. Da esso risulta che i due gruppi più numerosi erano quello iugoslavo (sotto questa voce sono indicati anche i croati) e quello tedesco: solo 14 iugoslavi volevano essere rimpatriati, mentre 81 tedeschi accettavano tranquillamente di tornare a casa. Vi erano poi 51 polacchi, 34 russi, 32 ungheresi e 30 austriaci: tra questi solo 1 polacco, 7 russi e 14 austriaci volevano tornare a casa. La medesima scarsa propensione al rientro distingueva i romeni, albanesi, cecoslovacchi, greci, olandesi, estoni e francesi.

Le motivazioni per i quali si era detenuti e quindi anche quelle per le quali non si voleva rimpatriare erano varie. A Fossoli erano trattenuti persino 2 americani, macchiatisi di crimini comuni, che semplicemente non volevano affrontare la giustizia in patria, ritenendola più dura di quella italiana. Inoltre tra gli iugoslavi non tutti erano croati e tra quelli di loro che non volevano più rientrare non tutti erano stati filo-nazisti. Molti profughi dell'Europa dell'Est non erano infatti fuggiti per la disfatta nazista, ma per la vittoria comunista. In ogni caso possiamo rilevare che tra i detenuti, qualsiasi fosse il loro passato e qualsiasi i loro crimini, scarseggiava la voglia di tornare nel luogo d'origine.

Un rapporto sempre su Fossoli, che il Ministero degli Interni trasmise al Ministero degli Esteri il 19 gennaio 1947, evidenzia un fenomeno diverso. A tale data nel campo 819 persone vivevano nel campo: 400 tedeschi, 50 austriaci, 135 iugoslavi, 39 albanesi, 31 polacchi, 20 ungheresi, 14 russi, 14 romeni, 9 altoatesini e singoli di altre 18 nazionalità. Secondo l'estensore del rapporto il 51% era ancora composto da prigionieri di guerra, aveva cioè combattuto nelle armate di Hitler, ma ora quasi tutti ora accettavano di essere rimpatriati.

In effetti Fossoli era già stata scremata dei detenuti più pericolosi, ivi compresi gli ex-nazisti e gli ustascia più determinati, in genere inviati al campo di Lipari, molto più isolato. Qui nel novembre del 1947 vi erano 98 internati, in maggioranza iugoslavi, ma anche russi, tedeschi, polacchi e cecoslovacchi. Secondo una relazione del 31 gennaio 1948, il loro numero raddoppiò in due mesi, grazie anche alla crescita degli iugoslavi, ora saliti a 165 unità. Molti di loro volevano emigrare in America Latina: la maggioranza in qualsiasi paese del continente, mentre 44 indicavano l'Argentina come meta e pochi altri specificavano il Brasile, il Venezuela, il Perù o Santo Domingo. Una ventina di iugoslavi voleva invece andare in Nord America e altri ancora in Europa (Francia o Germania), Sud Africa, Turchia, Egitto e persino Palestina. Dei 10 tedeschi nel campo di Lipari, 5 volevano restare in Italia e 1 voleva recarsi nel Paraguay. L'America Latina era infine la meta più indicata dai russi (32 detenuti), dagli ungheresi (25) e dagli austriaci (27).

Pochissimi detenuti videro realizzati i loro sogni. Il 10 gennaio 1948 il prefetto di Messina segnalò al Ministero che 187 fra tedeschi, iugoslavi, russi, polacchi, cecoslovacchi e rumeni erano partiti da Lipari. La grandissima parte doveva essere espulsa o rimpatriata; solo 8 iugoslavi e 1 polacco furono mandati a Genova per imbarcarsi, ma non sappiamo per dove.

Le statistiche di altri campi ci offrono indicazioni in qualche modo analoghe. Un rapporto del dicembre 1947 sulle donne rinchiuse a Farfa Sabina rivela che 114 su 291 erano tedesche: quasi tutte volevano essere rimpatriato o rimanere in Italia. Quattro, però, desideravano emigrare in Argentina, 1 in Gran Bretagna e 1 negli Stati Uniti. Su 48 iugoslave 21 volevano l'Argentina, 1 il Sud America, 1 il Nord America, 1 gli Stati Uniti, 14 l'Italia e le altre miravano a varie mete europee. Su 22 austriache 9 erano per restare nella Penisola, 3 per l'Argentina, 1 per la Germania occidentale, 1 per il Belgio e 1 la Tunisia. Argentina e Italia attiravano anche le altre prigioniere (albanesi, russe, polacche, rumene, cecoslovacche); solo le ungheresi sostituivano la prima con il Brasile. Anche in questo caso i sogni s'infransero e le recluse di Farfa furono rinviate in patria.

A Fraschette di Alatri nel gennaio del 1948 vi erano 148 tedeschi, quasi tutti arrestati mentre vagavano per la Penisola in cerca di lavoro. Ben 64 volevano unicamente rimanere in Italia; altri pensavano di potersi trasferire in America Latina, ma solo se non potevano restare nella Penisola. In questo secondo gruppo 23 non disdegnavano l'Argentina come seconda ipotesi migratoria e pochi altri menzionavano il Brasile e il Venezuela. Alla fine del mese successivo furono tutti rimpatriati, tranne 2 che ebbero il permesso di soggiorno in Italia e 2 poterono salpare da Genova, ma non sappiamo se per l'Argentina.

Insomma dai campi gestiti dal governo italiano pochi uscivano, se non per rimpatriare. Vi erano, però, delle eccezioni. Il già citato padre Draganovic riuscì a fare miracoli per i suoi croati. Nell'autunno 1947, per esempio, ne liberò 16: 6 salparono da Genova sul "Buenos Aires" e 4 sul "Tucuman" alla volta dell'America Latina; gli ultimi 6 furono parcheggiati a Cinecittà (Roma) in attesa di un visto per l'America.

Monsignor Hudal si interessò dei tedeschi e degli austriaci soprattutto a Fraschette, ma con risultati minori, o quantomeno non così evidenti. Comunque nelle sue carte, nell'Archivio del Collegio di S. Maria dell'Anima a Roma, troviamo corrispondenti che scrivevano soprattutto dall'Argentina, ma anche da altri paesi. Se poi prendiamo tutte le mete indicate dai suoi interlocutori, sia che ci fossero arrivati, sia che ci volessero andare, abbiamo un larghissimo spettro latino-americano (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Messico, Paraguay, Perù, Uruguay, Venezuela) e nord-americano (Canada e Stati Uniti). Inoltre molti riuscirono a oppure cercarono di restare in Europa (Gran Bretagna, Spagna e Svizzera) e diversi puntarono verso l'Australia e il Sud Africa. Se teniamo conto delle lettere di alcuni esponenti non pentiti del nazismo, vediamo come quest'ultimo fosse considerato una meta molto interessante, anche per un rilancio politico.

Un'altra parte dello scacchiere che sembrò appetibile agli irriducibili fu il Medio Oriente. In effetti i giornali di fine anni quaranta parlarono di reti naziste a Damasco e Beirut, mentre Hans Mahler/Juan Maler, del quale si è già discusso per i passaggi a Genova nel 1948, chiese a Hudal nel 1949 e nel 1950 di aiutare un gruppo di tedeschi che voleva abbandonare la Siria. È interessante sottolineare che Mahler, in seguito giornalista ed editore neonazista in America Latina, era partito per insegnare l'arabo in un collegio cattolico della Colombia.

Le notizie sui campi dell'International Refugees Organization (IRO) sono meno ricche di segnalazioni su questi movimenti. Comunque l'IRO si occupò anche di collaborazionisti e nel marzo del 1948 spedì in Transgiordania 19 circassi, accusati di simpatie naziste. Molti dei protetti IRO partirono da Genova (o più raramente da Napoli), anche se venivano da campi profughi in Germania e Austria: nel 1949, per esempio, s'imbarcarono nei porti italiani 27.615 rifugiati provenienti da queste due nazioni. In questo contesto era forse possibile a nazisti in fuga di mischiarsi ai partenti, o di utilizzare i campi fuori d'Italia per rifarsi una verginità e salpare poi legalmente da Genova. La possibilità era comunque piccola: i rapporti ufficiali indicano infatti che erano pochi gli emigranti tedeschi e austriaci sotto l'egida dell'IRO, in tutto il 1948 solo 4 austriaci (2 partiti per la Gran Bretagna e 2 negli Stati Uniti) e 16 tedeschi (tutti recatisi negli Stati Uniti).

Complessivamente i movimenti di profughi, di rifugiati e di reclusi della seconda metà degli anni quaranta dimostrano che per i criminali in fuga erano aperte numerose vie, rischiose ma non impossibili, e che soprattutto da Genova potevano partire alla volta di numerose mete transoceaniche, mentre via treno potevano mischiarsi agli emigranti che già si spostavano normalmente verso i paesi più ricchi dell'Europa occidentale.

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